COORDINAMENTO PACE
aderisce a:

CINISELLO CITTA' APERTA
Per una pratica dell'antirazzismo
nel Nord Milano
 
Nel nostro paese nessuno E' straniero nostra patria
e' il mondo intero
 
 
  Archivio>> Irak >>Documenti
     
 
Articoli
A Nassiria per difendere il "nostro" petrolio
Presentato “Truffa a mano armata”, rapporto che racconta il sacco del greggio iracheno
Sabina Moranti, Liberazione, 14 febbraio 2006
Mano italiana nelle torture Abu Ghraib
23 febbraio, 2006 - tratto da Unimondo
Babilonia militare
Fabio Mini, generale dell'esercito, già capo di Stato maggiore del comando Nato delle forze alleate Sud Europa, ed ex comandante della missione Kfor in Kossovo.
Iraq: e ora?
Nino Sergi, Segretario generale di Intersos, pubblicato su www.vita.it, il 12/06/2006
(titolo originale «Il Governo ora metta a punto il programma di cooperazione»)
Grandi manovre petrolifere per il bottino di guerra in Iraq
Fabio Alberti, presidente ONG Un ponte per... 18 giugno 2006
Nassiria, pozzo senza fondo
Gianluca Di Feo, L’espresso, 11 maggio 2006
Un'ipotesi per il ritiro dall'Iraq
Gianni Rufini,Gianni Rufini, Università di York - Post-war Reconstruction and Development Unit lunedì 29 maggio 2006. Scritto per Lettera 22 su www.socialpress.it
In Iraq la guerriglia spara con pistole italiane
La Stampa, 24 Febbraio 2006
Football e pizza - Così gli USA si preparano a restare in Iraq
Il destino dell'Iraq
Tarik Ali trad.it. di Alessandro Siclari per NuoviMondiMedia, Tariq Ali The Guardian, 16 gennaio 2006
Missione italiana sotto inchiesta
Un ponte per... - Osservatorio Iraq 18 gennaio 2006
 
 
 
     
 

A Nassiria per difendere il "nostro" petrolio
Presentato “Truffa a mano armata”, rapporto che racconta il sacco del greggio iracheno
Sabina Moranti, Liberazione, 14 febbraio 2006

Per quelli che non avevano creduto alla favoletta dell’esportazione della democrazia il dossier “Truffa a mano armata - I numeri degli interessi petroliferi occidentali e italiani dietro la guerra all’Iraq” non è una sorpresa ma, avere le cifre della razzia aiuta a fare piazza pulita della retorica. Frutto del lavoro della britannica Platform - ong che si occupa di monitorare il comportamento delle multinazionali del petrolio nel mondo - il rapporto è stato tradotto in italiano grazie al lavoro congiunto di Un Ponte per…, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, Lunaria ed Arci ed è stato presentato ieri a Roma alla presenza di alcuni rappresentati della General Union of Oil Employees di Bassora, il sindacato dei lavoratori del petrolio del sud dell’Iraq, venuti a raccontare cosa significa lavorare nell’Iraq occupato dalle truppe e dalle multinazionali d’Occidente, e a illustrare modalità diverse per sfruttare la risorsa petrolio a beneficio dell’intera popolazione.
“Truffa a mano armata” denuncia il percorso di appropriazione del petrolio iracheno da parte delle multinazionali, una spartizione che non passa attraverso l’esplicita privatizzazione - tentata nei primi giorni dell’occupazione ma subito abortita - ma che viene imposta attraverso l’adozione di contratti che, pur lasciando all’Iraq la proprietà nominale dei giacimenti di fatto mettono in mano alle multinazionali la maggior parte delle rendite future. Grazie a questi accordi infatti, ben 63 degli 84 giacimenti iracheni vengono riservati alle multinazionali del petrolio. Tra queste non poteva mancare l’italiana Eni che, come dimostra un documento allegato al dossier, insieme alla britannica Bp, alla statunitense Chevron e alla francese Total, sta lavorando direttamente con il ministero del Petrolio di Baghdad per definire il piano di sviluppo dei giacimenti petroliferi presenti nel sud dell’Iraq, dove si trova appunto Nassiriya e dove i nostri soldati sono stati spediti - e sono morti - proprio per questo motivo.
Non stiamo parlando di vaghi principi relativi alla sovranità nazionale: le proiezioni dei dati economici fornite da Platform mostrano che il modello di sviluppo petrolifero ideato dal Dipartimento di Stato Americano costerà all’Iraq centinaia di miliardi di dollari in mancante entrate.
Nell’introduzione del rapporto si legge «Nel caso dello sfruttamento del giacimento di Nassiriya da parte dell’Eni, per deduzione dalle proiezioni aggregate di Platform, le mancate entrate per lo Stato iracheno oscillerebbero tra i 2,3 ai circa 6 miliardi di dollari, pari rispettivamente all’8 ed al 20 per cento del bilancio annuo attuale dell’Iraq». E stiamo parlando di un unico giacimento, e nemmeno dei più importanti. Niente male per un paese che dovrebbe avere accesso a ogni possibile risorsa per ricostruire delle infrastrutture rese fatiscenti dalle sanzioni e poi distrutte dai bombardieri.


Scarica il rapporto (pdf)

Torna a inizio pagina

 

Iraq: mano italiana nelle torture Abu Ghraib
23 febbraio, 2006 - tratto da Unimondo

I mezzi di informazione tornano a parlare delle torture avvenute nel carcere di Abu Ghraib grazie all’intervista esclusiva realizzata da Sigfrido Ranucci e Maurizio Torrealta di Rainews24 ad Ali Shalal al Kaisi, l'uomo incappucciato, la cui foto ha fatto il giro del mondo.
Al Kaisi è stato raggiunto ad Amman, in Giordania, mentre seguiva un corso per "Non violent action for Iraqi", tenuto da alcune Ong europee, in qualità di fondatore dell´Associazione delle vittime delle prigioni americane. Per la prima volta Ali Shalal al Kaisi racconta le terribili torture a cui e´ stato sottoposto nel carcere iracheno.

"Ogni volta che usavano gli elettrodi - è l'agghiacciante racconto - sentivo gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite. Una scossa e´ stata talmente forte che mi sono morso la lingua e ho cominciato a sanguinare. Sono quasi svenuto. Hanno chiamato un dottore, che ha aperto la mia bocca con gli stivali, ha visto che il sangue non veniva dallo stomaco ma dalla lingua e ha detto: continuate pure", ricorda Ali, che, mostrando la sua mano deturpata, aggiunge: "Con gli stivali calpestavano continuamente la mia mano ferita".

Tra le testimonianze da lui raccolte anche quella di un ex diplomatico iracheno, Haitham Abu Ghaith, secondo il quale, come racconta Al Kaisi nell´intervista a Rai News 24, a condurre i tremendi interrogatori dei prigionieri c´erano anche contractors italiani ingaggiati da ditte americane.
Ma Ali Shalal el Kaissi non perdona ai nostri connazionali di aver trafugato soldi e reperti archeologici. "Noi amiamo il popolo italiano, conosciamo la differenza tra la popolazione civile e chi compie questi gesti, ma questo non ci impedisce di denunciare cosa facevano gli italiani.
Il messaggio che voglio dare al popolo italiano e’ che in Irak la situazione non e’assolutamente migliorata, nulla e’ stato ricostruito". Il governo, secondo il premier Berlusconi, non era al corrente di nulla, se poi c'era qualche mercenario il problema non riguarderebbe a suo dire il nostro governo.

Sulle dichiarazioni interviene il senatore Francesco Martone, segretario della commissione diritti umani, che ricorda a Berlusconi la “Convenzione internazionale contro il reclutamento di mercenari”, attualmente ratificata da 25 stati, tra cui l’Italia, che ha posto la sua firma nel 1995 durante il suo primo governo.

Secondo il parlamentare di Rifondazione la vicenda dovrebbe interessare molto sia il suo governo che la magistratura. “Berlusconi, con la sua dichiarazione fa finalmente luce, forse inconsapevolmente, sul vero mestiere del contractor, che è quello del mercenario né più e né meno. Il governo avrebbe dovuto da tempo prevedere delle normative che regolassero le attività delle compagnie di sicurezza private italiane ed evitare che alcune di esse potessero diventare centri di reclutamento per persone che in realtà sono mercenari a tutti gli effetti.”

Secondo un rapporto dell'organizzazione umanitaria Human rights first - reso pubblico il 22 febbario a New York - sono 98 i prigionieri morti sotto custodia americana in Iraq e Afghanistan a partire dal 2002, di cui almeno 34 sono considerate omicidi “causati intenzionalmente o per comportamento imprudente”.
Altri undici casi sono considerati sospetti, e fra gli otto e i dodici prigionieri sono stati torturati a morte. Il rapporto è stato realizzato con dati provenienti da fonti ufficiali americane. Intanto in Iraq, con la bomba alla cupola d'oro di uno dei più venerati mausolei sciiti in Iraq, quello di Askariya a Samarra è andata in frantumi anche la speranza di un dialogo tra le diverse etnie e ora si sta sciovando verso la guerra civile.

Vai al sito di unimondo

Guarda la video-inchiesta di Rainews24

Torna a inizio pagina

 

Babilonia militare
Fabio Mini, generale dell'esercito, già capo di Stato maggiore del comando Nato delle forze alleate Sud Europa, ed ex comandante della missione Kfor in Kossovo.

Un altro attacco a Nassiriya ha riportato l’attenzione dei media, del mondo politico e quindi dell’opinione pubblica sulle nostre missioni militari all’estero. In questi tristi frangenti ci sono ormai degli schemi di comunicazione e di reazione che sono diventati dei veri e propri riti: paludati, commoventi, partecipati, ma fini a se stessi. Aridi e sterili, dai quali non nasce nessuna presa di coscienza e soprattutto nessuno scrupolo professionale e morale. C’è il rito dell’esecrazione, della condanna dell’atto che per definizione è sempre terroristico, efferato, vile e barbaro. E non può essere altrimenti perché noi agiamo nel mito e con il rito della pace: non facciamo la guerra, non andiamo nel luoghi di guerra, non offendiamo nessuno e portiamo soltanto la pace, libertà e democrazia all’insegna della bontà d’animo e della nostra superiore civiltà. Questo rito rifiuta le ragioni degli altri, nega lo status di nemico a chi ci offende e nega perfino cioò che il diritto internazionale stabilisce: se si è n casa d’altri con le armi e si pretende di controllare l’ordine e la sicurezza si è occupanti a prescindere dai motivi o dalle intenzioni. Se si impiegano i contingenti armati e non si garantisce né ordine né sicurezza non si è nulla.

Non esiste uno status internazionale di liberatori o di samaritani armati. La presenza militare straniera su un territorio soggetto a una sovranità locale non può essere lasciata nel vuoto istituzionale o alla mercè delle pulsioni politiche di questo o quel signorotto. La presenza militare istituzionale, cioè quella espressa dagli Stati e non dalle compagnie di mercenari, ha una valenza particolare proprio perché influisce sulla sovranità dello Stato, sulla sua sicurezza e sulla indipendenza delle sue legittime e legali istituzioni. Rispetto della sovranità e sicurezza sono i requisiti essenziali di qualsiasi processo di pace, ordine e ricostruzione. Perciò il diritto internazionale si sforza di contemplare i casi possibili di intervento armato su territori esteri e di fissarne i limiti di legittimità, stabilendo che la presenza di truppe straniere non sottrae mai la sovranità dello stato ospitante. Tale presenza non può essere trattata in maniera ambigua e indefinita neppure se si tratta di una partecipazione “tecnica”, di semplice cooperazione o di un atto di solidarietà. Senza uno status ben definito e senza l’accettazione corale e istituzionale del paese ospitante, la presenza militare, specie se protratta nel tempo, rischia di sconfinare nella prevaricazione e nella limitazione dela sovranità altrui, rendendo legittima qualsiasi resistenza anche armata.

Le forze armate straniere che rifiutano lo status di occupanti e che non chiariscono né gli scopi né i limiti di tempo della loro presenza sul territorio altrui si pongono nelle condizioni di non ottemperare né alle finalità della pace e della sicurezza né a quelle della pacificazione e della ricostruzione, che invece caratterizzano, contrariamente a quanto pensano molti politicanti di casa nostra, i periodi di occupazione regolati dal diritto internazionale. Con tale ambiguità si negano tutti i diritti (pochi ma essenziali) e i doveri (molti e realmente umanitari) che le forze di occupazione hanno nei riguardi della popolazione locale e viceversa. Ma, cosa ancora più grave, si finisce per creare una situazione virtuale di non-guerra e di non-rischio che porta a negare la necessità delle misure di sicurezza per le proprie forze e per le popolazioni civili, a negare la presenza di un avversario legittimo e a negare, come successo per il nostro Esercito, le risorse da assegnare per preparare adeguatamente le forze e per condurre la missione di sicurezza con il minimo dei rischi possibili. Infatti, il rito della pace virtuale non prevede nemici legittimi da combattere con i mezzi e i procedimenti legittimi della guerra, ma solo “criminali” da individuare e neutralizzare con i mezzi e i procedimenti delle polizie, da un lato, o con il terrorismo, dall’altro. Tutto ciò in un ambiente talmente ideologizzato da far diventare criminali tutti coloro che non la pensano come te o che si vestono e pregano in modo diverso, senza l’autorità necessaria, senza il supporto di forze locali competenti e affidabili, senza conoscere il quadro culturale e sociale e senza avere il vero controllo del territorio che, in queste situazioni, non è il controllo dei confini, dei sassi e degli incroci stradali, ma delle persone. Persone da capire e da conquistare con la persuasione piuttosto che con la dominazione.

C’è poi il rito, mesto, ma non meno subdolo, della consacrazione delle vittime e dei martiri. E’ il solo rito necessario, perché il sacrifico va riconosciuto e ai caduti va reso omaggio, con rispetto e riconoscenza.
Anche il rito della consacrazione però è spesso fine a se stesso. Non c’è nessuna analisi e riflessione morale e operativa. Le ricompense alla memoria tardano, le inchieste si arenano e si tenta di consolare i familiari delle vittime, di sollevare il morale di chi continua a rischiare negli stessi posti e di far dimenticare presto lo spiacevole incidente a chi sta in patria a guardare distratto la televisione con i soliti slogan: “Noi abbiamo fatto il possibile”, “ Non dimenticheremo”, ”Non cederemo”, ” Il sacrificio non sarà vano”, ”La responsabilità è solo dei criminali”…
Martedì 2 maggio abbiamo seppellito le ultime vittime e consumato tutti i riti previsti e già sappiamo che non cambierà nulla. Dell’inchiesta subito avviata non si saprà più niente. Si continueranno a tacere e minimizzare le centinaia di attacchi e le intimidazioni che ormai da tre anni caratterizzano la “routine” dei nostri contingenti in Iraq. Se venisse unificato il sistema di identificazione e valutazione degli “incidenti operativi” e se essi venissero rapportati alla situazione politico-amministrativa locale, a quella socio-economica, alla presenza delle forze di sicurezza, alla natura della minaccia locale ed ai mezzi di cui dispongono sia i probabili avversari, sia le forze della coalizione presenti e se si considerassero le responsabilità politiche, militari e di comando e a quelle della guerra avute dalle varie nazioni della coalizione, si potrebbe scoprire che gli attacchi al nostro contingente sono statisticamente più intensi e pericolosi e più efficaci degli stessi attacchi che vengono portati ai contingenti inglesi e perfino americani. Di certo si scoprirebbe che essi delineano una situazione in cui la priorità non è quella dei distribuire caramelle o portare carrozzelle e neppure di addestrare ad esercitare il potere gente che non ha i nostri stessi riferimenti né di democrazia, né del diritto e neppure dei procedimenti e dell’etica della sicurezza. Ci sarebbe una valutazione diversa non tanto sulle finalità quanto sui traguardi da raggiungere nel campo della sicurezza, sui programmi concreti, sui tempi e sui mezzi e sulle risorse da assegnare alla missione. Probabilmente questo ultimo attacco non servirà neppure a chiarire le idee sul futuro della missione a chi ha promesso agli elettori di ritirare i contingenti militari e di sostituirli con agenzie civili di aiuto umanitario o con l’assegnazione di fondi straordinari al governo iracheno. Sono proposte perfettamente in linea con il film della pace virtuale già visto. Se non se ne modifica la trama e non si sostituisce la regia, si finisce per avere lo stesso film con protagonisti diversi.

Sulla questione dei fondi c’è infine una considerazione interessante che viene da uno studio di “Foreign Policy” sugli Stati falliti o in via di collasso. Gli Stati più a rischio nonostante abbiano ricevuto la maggior quantità di aiuti economici procapite sono nell’ordine: Congo, Iraq, Sierra Leone, Afghanistan e Bosnia. Il Kosovo non è citato solo perché non è considerato uno Stato, ma se lo fosse sarebbe in testa. Tutti questi Stati non solo hanno ricevuto e continuano a ricevere aiuti economici rilevanti, ma “ospitano” anche le più grandi e complesse operazioni internazionali di cosiddetto peacekeeping e sono “teatri” di più assidua proiezione del film della pace virtuale. Se nonostante la combinazione di aiuti e operazioni militari questi paesi sono ancora in testa alla classifica degli Stati in via di fallimento, occorre riflettere sulla vera natura delle cause della loro situazione e agire su di esse piuttosto che tentare di smarcare un impegno elettorale con l’ennesimo rito della foglia di fico.

Torna a inizio pagina

 

Iraq: e ora?
Nino Sergi, Segretario generale di Intersos, pubblicato su www.vita.it, il 12/06/2006
(titolo originale «Il Governo ora metta a punto il programma di cooperazione»)>

Apprezziamo la decisione italiana di rinunciare alla missione “civile-militare” in Iraq. Il Governo deve ora mettere a punto il programma di cooperazione, a livello politico, economico e umanitario, annunciato a Baghdad dal Ministro degli Esteri D'Alema. Una cooperazione doverosa, che non dovrà sostituirsi alle capacità irachene ma dovrà al contrario appoggiarle e valorizzarle: l'Iraq non è infatti un paese sottosviluppato privo di competenze e ingegnosità, al contrario possiede risorse umane, culturali, professionali anche di alto valore.

Non potrà trattarsi, come sempre d'altronde, di un programma “neutro”, perché le scelte in esso contenute esprimeranno altrettante scelte politiche del nostro Governo. E in questa occasione esso dovrà, a nostro avviso, dimostrare di sapere scegliere con coraggio e con una ritrovata iniziativa politica internazionale.

Intersos si è espressa recentemente manifestando e motivando forti dubbi sull'intervento civile-militare. La propria valutazione si basa sull'analisi politica e sull'esperienza acquisita operando da tre anni in Iraq, senza interruzione. Riteniamo quindi utile esprimere ora anche alcuni suggerimenti, quali contributo propositivo alla definizione delle scelte politiche e delle priorità del programma di cooperazione del Governo italiano con l'Iraq.

1. Rafforzare il multilateralismo
Il rafforzamento delle nuove istituzioni democratiche, della sicurezza e quindi dello sviluppo infrastrutturale ed economico dell'Iraq potrà essere efficace solo attraverso un'>iniziativa multilaterale, coordinata e forte, di aiuto al paese. La cooperazione italiana, come ogni altra cooperazione bilaterale, dovrebbe favorire tale iniziativa coordinando in essa ogni azione volta al consolidamento delle istituzioni e al potenziamento della sicurezza. La scelta multilaterale esprimerebbe anche una reale svolta, dando priorità alla collaborazione tra stati rispetto alla prepotenza unilaterale.
Le Agenzie dell'ONU non hanno mai smesso di essere attive in Iraq, direttamente o tramite le ONG o altre entità operative, anche dopo l'attentato alla loro sede a Baghdad nel 2003. Questa presenza operativa andrebbe quindi valorizzata, contribuendo al contempo a rafforzare il ruolo politico dell'azione multilaterale nel paese.

2. Rafforzare la presenza politica europea
L'Unione Europea può oggi, in presenza delle nuove Istituzioni irachene, giocare un ruolo di primo piano, sia per il rafforzamento dell'azione multilaterale che per la definizione delle linee strategiche da adottare per uscire dal caos iracheno. La difficile situazione irachena riguarda ormai tutti e le possibili soluzioni richiedono un'assunzione di responsabilità da parte di tutti, compresa l'UE, finora troppo assente a causa delle divisioni interne. Il Governo italiano dovrebbe aiutare l'Europa ad assumere finalmente e senza più esitazioni le proprie responsabilità. Per la ricostruzione dell'Iraq la cooperazione dell'Unione Europea, insieme a quella delle Agenzie ONU, potrebbe rappresentare l'elemento chiave per il necessario cambiamento.

3. Lasciare all'Iraq le sue ricchezze
La principale ricchezza dell'Iraq, dopo la sua popolazione che purtroppo viene presentata prevalentemente legata alle violenze e al terrorismo, è il petrolio. È stato uno dei motivi della guerra ed è oggi uno dei maggiori elementi di divisione degli iracheni: dovrebbe quindi essere tenuto presente anche nelle considerazioni per la definizione dei rapporti di cooperazione. Se gli enormi profitti che ne possono derivare vengono sottratti al Governo iracheno, come le grandi compagnie petrolifere stanno cercando di fare, ogni altra azione di cooperazione e aiuto allo sviluppo perderebbe significato e rappresenterebbe uno puro inganno.
Il Governo italiano potrebbe dare alla comunità internazionale uno significativo segnale politico, invitando l'ENI, di cui è azionista di maggioranza, a distanziarsi dal cartello delle compagnie petrolifere e a definire con il Governo iracheno accordi basati sul riconoscimento dei diritti degli iracheni e non su disposizioni speciali che moltiplicherebbero i profitti delle compagnie straniere a detrimento della realtà locale.
Sarebbe anche il segnale di una nuova etica internazionale ed il seme per un più equo ordine mondiale di cui il mondo ha estremo bisogno.

4. Sviluppare le organizzazioni della società civile
Il processo democratico dell'Iraq non può ridursi alle elezioni e alla nascita di legittime istituzioni. Sostenere e sviluppare tale processo dovrà anche significare aiutare la società civile a maturare politicamente dopo anni di dittatura, ad esprimere proposte, a partecipare alla vita democratica, controllandola e difendendola. Significherebbe anche aiutare la formazione del consenso, la costruzione di un “patto sociale” per la ricostruzione; significherebbe favorire il dialogo tra le comunità e, in definitiva, il rafforzamento della pace.
Numerose sono ormai le organizzazioni della società civile irachena. Con alcune di esse esistono rapporti di collaborazione a livello internazionale, compresa l'Italia: organizzazioni sindacali, sociali, culturali, professionali ecc. Si tratta di una cooperazione che andrebbe prioritariamente tenuta in considerazione nel definire il sostegno italiano al processo democratico dell'Iraq.

5. Sopperire alle necessità più sentite
Ogni cooperazione e aiuto allo sviluppo deve partire da bisogni reali. L'aiuto al Governo iracheno dovrà quindi essere indirizzato a rispondere a tali bisogni. Se per l'Italia tale azione dovesse poi concentrarsi particolarmente su Nassiriya e la provincia di Dhi Qar, ne risulterebbe un aiuto puntuale, gradito alla popolazione. Contribuendo al soddisfacimento di tali bisogni l'Italia diventerebbe agli occhi degli iracheni il paese amico e amato e darebbe un segnale politico di nuova e diversa collocazione.
Ci sentiamo di suggerire alcuni bisogni prioritari, oltre a quelli ben conosciuti e più volte evidenziati dell'elettricità e dell'acqua potabile.
- Assicurare la fornitura dei medicinali agli ospedali iracheni (la sola Baghdad conta una quarantina di ospedali pubblici), oggi molto carente e irregolare. Ai farmaci possono essere aggiunte le attrezzature degli istituti ospedalieri e l'approfondimento scientifico del personale medico. Intersos conosce particolarmente questa situazione dato il collegamento settimanale di telemedicina con una realtà ospedaliera universitaria irachena.
- Assicurare l'assistenza umanitaria e il reinserimento agli sfollati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni (15 mila famiglie in pochi mesi) a causa del conflitto etnico-religioso che, anche se non dichiarato, è già in atto e rischia di ampliarsi rapidamente.
- Assicurare il pieno funzionamento delle università. Hanno tutte ripreso le attività con grande volontà di modernizzazione culturale e scientifica. Le carenze finanziarie, scientifiche-professionali, strutturali sono però molto pesanti e necessitano di aiuti immediati e di apertura e collegamento con la comunità scientifica internazionale. Più in generale, è l'intero sistema scolastico che necessiterebbe un immediato forte sostegno.
- Assicurare la formazione dei pubblici amministratori, a livello centrale e locale, per una corretta gestione dell'amministrazione e dei servizi, per la loro modernizzazione sia in termini concettuali che pratici, per creare la necessaria fiducia tra la gente e le istituzioni.
- Assicurare la tutela del patrimonio culturale. Si tratta di un patrimonio inestimabile la cui perdita o il cui deterioramento rappresenterebbe una gravissima privazione per l'Iraq, la sua cultura, la sua storia, la sua identità nazionale.

La cooperazione con l'Iraq non richiede una presenza permanente di personale civile. Anche perché non potrebbe muoversi se non a rischio della propria vita e comunque impegnando per la propria tutela, in modo improprio, personale militare della rappresentanza diplomatica italiana. Le capacità di potere assumere la propria ricostruzione sono già in Iraq e sono garantite dagli iracheni. Occorre solo dare loro fiducia, aiutandole, valorizzandole, coinvolgendole pienamente e facendole sentire attori del proprio futuro e del proprio sviluppo. È proprio ciò che è mancato in questi tre anni di “esportazione della democrazia” e che va ora rapidamente attuato.

Torna a inizio pagina

 

Grandi manovre petrolifere per il bottino di guerra in Irak
di Fabio Alberti, presidente ong Un ponte per.. www.osservatorioiraq.it 18 giugno 2006

La discussione, a cui stiamo assistendo in Italia, sui tempi e i modi del ritiro delle truppe dall’Iraq rischia di riguardare più il posizionamento dei partiti sul mercato italiano della politica che la sostanza delle cose. Il movimento per la pace aveva chiesto un ritiro immediato, ma forse non ci si poteva attendere tanto sulla base dei risultati elettorali e del contesto internazionale.

La sostanza è, però, che l’Italia si ritira. Ciò delegittimerà ulteriormente l’occupazione (anche se questo non verrà mai dichiarato), costituisce un successo della mobilitazione popolare contro la guerra (ed anche questo non sarà ammesso da nessuno) e, soprattutto, permetterà se lo si vuole, di cambiare politica.
Il punto quindi è: quale nuova politica. E’ a questa che si deve guardare per giudicare il significato politico del ritiro dette truppe, più che ai tempi e ai modi.
Molti possono essere gli aspetti a cui guardare, ma il primo è il petrolio.

E’ questa una partita che si gioca a Baghdad nei prossimi mesi e condizionerà lo sviluppo del paese per decenni. Il nuovo ministro iracheno del petrolio Hussein al-Shahristani nel prendere incarico ha dichiarato (23 maggio) che intende redigere al più presto la nuova legge sullo sfruttamento petrolifero che “garantirà alle compagnie internazionali eque condizioni”. USAID, la agenzia statunitense per gli aiuti allo sviluppo, sta fornendo “consulenza” per la stesura del testo.

E’ noto che le imprese multinazionali del petrolio, che hanno finanziato la elezione di Bush alla Casa Bianca, premono per una sostanziale modifica della politica irachena sugli investimenti esteri nel settore petrolifero (tradizionalmente caratterizzata da investimenti diretti dello stato e contratti “di servizio” o di “sviluppo e produzione”con imprese estere) affinché si adottino contratti a lungo termine più vantaggiosi per loro, denominati “Production Sharing Agreement” (PSA).

Non c’è qui lo spazio per molti dettagli, basti sapere che i PSA permettono alle imprese estere di iscrivere parte delle riserve petrolifere irachene nei propri bilanci, con grande beneficio delle quotazioni di borsa e di lucrare un maggior guadagno che può arrivare anche al raddoppio rispetto alla normativa precedente la guerra. (Per approfondimenti si veda il dossier “Truffa a mano armata”).
Contro questa ipotesi si sono pronunciati, con chiarezza, i sindacati dei lavoratori del petrolio iracheni, che vedono nei PSA una svendita (o meglio rapina) delle ricchezze nazionali.

Il cartello che le multinazionali del petrolio utilizzano in Iraq si chiama International Tax & Investment Center (ITIC) ed ha tra i suoi fini statutari “consigliare ai governi politiche fiscali e economiche appropriate”. L’ITIC ha pubblicato nel novembre 2004 lo studio Petroleum and Iraq's Future: Fiscal Options and Challenges per sostenere che la adozione dei PSA “costituirebbe il miglior incentivo per spingere le imprese estere ad investire in Iraq”. L’ENI è tra i membri fondatori dell’ITIC, con Shell, Total, Halliburton, Chevron e BP. Alla presentazione del documento al governo iracheno erano presenti due manager dell’ENI: Roberto D’Amico e Ferdinando Cazzini.

L’ENI, la maggiore impresa petrolifera italiana, pubblica (e cioè nostra) per il 32%, è dunque della partita. E’ noto che ha una prelazione per la concessione dei giacimenti di Nassiriya inoltre, proprio la settimana scorsa, l'amministratore delegato Paolo Scaroni ha dichiarato l’interesse dell’azienda per lo sfruttamento del petrolio nella zona del Kurdistan.
E’ stato stimato che i maggiori profitti che l’ENI avrebbe da un contratto di PSA per il giacimento di Nassiriya potrebbero raggiungere i 6 miliardi di euro, che costituirebbero quindi un “dividendo di guerra”, e che è una cifra enormemente superiore agli aiuti umanitari che l’Italia potrebbe inviare.
Una diversa politica in questo settore dovrebbe vedere da parte italiana la rottura del cartello delle imprese petrolifere (abbandonando o prendendo le distanze dalle proposte dell’ITIC) e la dichiarazione di disponibilità a trattative separate sulla base delle condizioni che l’Iraq proponeva prima della guerra.

Se non si andasse in questa direzione si darebbe l’impressione che, nonostante il ritiro delle truppe, l’Italia intenda ugualmente lucrare sulle condizioni di miglior favore per le multinazionali del petrolio che si sono determinate a seguito della guerra.
Una politica di “commercio equo” nel petrolio rafforzerebbe invece quanti in Iraq si battono per evitare la svendita delle ricchezze nazionali, contribuirebbe all’indipendenza e alla ricostruzione del paese in misura ben superiore agli aiuti umanitari di cui si parla in questi giorni. In un certo senso si tratta di recuperare, aggiornandola, la politica di Enrico Mattei.
Se si ritirassero le truppe, anche immediatamente, e si facesse una politica di rapina economica davvero non sarebbe cambiato molto.

Torna a inizio pagina


 

Nassiria, pozzo senza fondo

Di Gianluca Di Feo, L’espresso, 11 maggio 2006

Abbiamo speso più per gli 007 che per gli aiuti. È il paradosso più grande della missione italiana in Iraq, una spedizione nata per favorire la ricostruzione del Paese dopo gli anni della dittatura di Saddam Hussein e soprattutto per dare sollievo alla popolazione stremata da embargo e combattimenti. Doveva essere una missione umanitaria: invece a Nassiriya l'Italia ha investito più negli agenti segreti che nel sostegno agli iracheni. Nei primi sei mesi del 2006 il bilancio approvato dal governo per l'operazione Antica Babilonia prevede 4 milioni di euro di aiuti e ben 7 milioni "per le attività di informazioni e sicurezza della presidenza del Consiglio dei ministri", ossia per gli inviati del Sismi. E la stessa cosa è avvenuta sin dall'inizio: in tre anni l'intelligence ha ottenuto circa 30 milioni di euro mentre per "le esigenze di prima necessità della popolazione locale" ne sono stati stanziati 16. Un divario inspiegabile, che sembra mostrare l'Italia più interessata allo spionaggio che al soccorso di quei bambini per i quali era stata decisa la partenza di un contingente senza precedenti: oltre 3.500 militari con mille veicoli.

Ma a leggere i dati contenuti nella monumentale relazione pubblicata sul sito dello Stato maggiore della Difesa, tutta l'operazione Antica Babilonia appare come una voragine, che inghiotte finanziamenti record distribuendo pochissimi aiuti. O meglio, i conti mettono a nudo la realtà che si vive a Nassiriya: non è una missione di pace, ma una spedizione in zona di guerra. Finora infatti sono stati stanziati 1.534 milioni di euro, poco meno di 3 mila miliardi di vecchie lire, per consegnare alla popolazione della provincia di Dhi-Qar poco più 16 milioni di materiale finanziato dal governo: un rapporto di cento a uno tra il costo del dispositivo militare e i beni distribuiti. In realtà, però, la spesa totale per le forze armate italiane a Nassiriya è addirittura superiore a questa cifra: tra stipendi, mezzi distrutti ed equipaggiamenti logorati dal deserto la cifra globale calcolata da 'L'espresso', consultando alcuni esperti del settore, si avvicina ai 1.900 milioni di euro.

Intelligence a go-go
Su tutte le pagine del rapporto dello Stato maggiore Difesa, disponibile sul sito web, è stampata la dicitura: 'Il presente documento può circolare senza restrizioni'. Solo nelle ultime 20 pagine questo timbro non compare. Ed è proprio nella nota finale sugli aspetti finanziari di Antica Babilonia che compaiono le notizie più delicate. A partire dalla voce: 'Attività di informazioni e sicurezza della PCM', ossia della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta dei fondi extra consegnati agli agenti del Sismi che operano in Iraq: non si sa se lo Stato maggiore li abbia indicati per voto di trasparenza, per errore o per una piccola mossa perfida. Di fatto, finora le disponibilità degli 007 erano un mistero, oggetto di grandi illazioni soprattutto per quanto riguarda la gestione dei sequestri di persona. Da anni si discute delle riserve usate dalla nostra intelligence per comprare informatori o per eventuali riscatti pagati durante i rapimenti. Adesso queste cifre permettono di farsi qualche idea del costo dei nostri 007 in azione. Per i primi sei mesi del 2003, purtroppo, lo Stato maggiore non è illuminante: la provvista è mescolata assieme alle spese di telecomunicazioni, quelle dei materiali per la guerra chimica e quella per il trasloco delle truppe. In totale poco meno di 35 milioni. Facendo il confronto con i bilanci dei semestri successivi, si potrebbe ipotizzare che al Sismi siano andati circa 4 milioni di euro. In ogni caso, gli stanziamenti diventano poi espliciti: 9 milioni nel 2004, 10 milioni nel 2005, 7 milioni già disponibili per i primi sei mesi di quest'anno. Una somma compresa tra i 50 e i 60 miliardi di vecchie lire, destinata soltanto a coprire i sovrapprezzi delle missioni top secret in territorio iracheno, a ricompensare gli informatori e, verosimilmente, alla gestione dei sequestri di persona. Quelle operazioni che hanno determinato il ritorno a casa di sei ostaggi, grazie anche al sacrificio del dirigente del Sismi Nicola Calipari. Un ultimo dato: dalla stessa relazione dello Stato maggiore apprendiamo che il Sismi ha avuto altri 23 milioni e mezzo per la missione in Afghanistan. Anche in questo caso, la dote degli 007 supera di gran lunga il valore dei beni distribuiti alla popolazione.

La lontananza è cara
Le voci trasporti e telecomunicazioni della spedizione hanno importi choc. Per i viaggi avanti e indietro dei reparti, dei rifornimenti e degli equipaggiamenti, sono stati spesi finora 125 milioni di euro. Ogni quattro mesi infatti le brigate impegnate a Nassiriya vengono sostituite: devono tornare in Italia con le loro dotazioni di materiali e armi leggere. Veicoli e scorte invece restano sempre in Iraq, salvo quando il logoramento impone di rimpiazzarli. Sorprendente anche la 'bolletta del telefono': 11 milioni in 18 mesi. Non si tratta delle chiamate a casa dei soldati o dei carabinieri, ma del flusso di telecomunicazioni via satellite per l'attività dei militari: i contatti con l'Italia, quelli con i comandi alleati e molte delle trasmissioni radio sul campo. Pesante pure il capitolo 'Croce rossa italiana': si tratta di oltre 32 milioni di euro. E riguardano il solo ospedale di Nassiriya, quello che fornisce assistenza medica ai nostri militari. Questa struttura ha soltanto come scopo secondario l'attività in favore della popolazione locale: 450 ricoveri in tre anni. Nel 2003 la Croce rossa aveva a Nassiriya 85 persone, poi scese a 70: dall'inizio della missione si tratta di una spesa media per ogni operatore sanitario di oltre 400 mila euro. Perché? La risposta ufficiale chiama in causa le indennità straordinarie e le difficoltà di trasferire medicinali e apparecchiature. L'ospedale da campo creato a Baghdad nel 2003, invece, era finanziato con i fondi del ministero degli Esteri: il costo era ancora più alto, ma i pazienti erano tutti iracheni.

Farnesina tecnologica
La quota più consistente dei fondi destinati alla rinascita dell'Iraq viene gestita dalla Farnesina: 103 milioni di euro. La fetta maggiore è stata inghiottita dall'ospedale di Baghdad e dalla difesa dell'ambasciata. Ci sono poi numerose iniziative ad alta tecnologia, tutte realizzate in Italia e alcune di discutibile utilità: 5 milioni per la rete telematica Govnet che dovrebbe connettere i ministeri di Bagdad; 800 mila euro per la ricostruzione virtuale in 3D del museo di Bagdad. I programmi di formazione invece prevedono che il personale iracheno frequenti dei corsi in Italia: una procedura sensata quando si tratta di lezioni per dirigenti o tecnici di alto livello, forse meno quando comporta il trasferimento a Roma di 30 orfani destinati a imparare il mestiere di falegname, barbiere o sarto. Più concreti gli interventi gestiti dal Ministero attraverso la Cooperazione per la ricostruzione dell'agricoltura, del sistema scolastico e di quello ospedaliero: ma nei primi 18 mesi nella regione di Nassiriya erano stati realizzati progetti per soli 3,7 milioni.

Armata ad alto costo
Tra aiuti diretti consegnati dai militari e progetti, concreti o virtuali, della Farnesina in tutto sono stati stanziati 119 milioni di euro. Secondo lo Stato maggiore, per il contingente armato finora sono stati messi a disposizione 1.418 milioni di euro. Ma è un stima parziale: non tiene conto del costo degli stipendi, del logoramento dei mezzi, di molte delle parti di ricambio. Non tiene conto dell'elicottero distrutto in missione, dei dieci veicoli Vm90 annientati negli attacchi, delle munizioni esplose, della base dei carabinieri cancellata dall'attentato del 2003. Non tiene conto del terribile bilancio di vite umane: 22 tra carabinieri e soldati caduti e 61 feriti in azione, altri sette morti e sette feriti in incidenti. In più un civile ammazzato nella strage del 12 novembre 2003 e un altro ferito. Un sacrificio giustificato dai risultati? Di sicuro, non si può chiamarla una missione di pace. Nei quattro mesi 'più tranquilli' i parà della Folgore hanno distribuito beni o avviato progetti pari a 4 milioni di euro, finanziati dal governo o da istituzioni e aziende italiane: in più hanno vigilato sulla nascita di iniziative internazionali per altri 6 milioni di dollari. Nella fase di crisi della battaglia dei ponti, invece la brigata Pozzuolo del Friuli si è fermata a meno di 4 milioni di dollari tra attività portate a termine o soltanto avviate. Ormai è difficile anche controllare a che punto sono i lavori nei cantieri: ogni sortita è pericolosa. Per questo il comando di Nassiriya ha ipotizzato di usare gli aerei-spia senza pilota, i Predator, che con le telecamere all'infrarosso possono verificare se i macchinari sono accesi o se i manovali ingaggiati dalla Cooperazione stanno perdendo tempo. Certo, si potrebbe affidare la sorveglianza alle autorità irachene: grazie a un programma della Nato abbiamo addestrato 2.600 soldati e 12 mila poliziotti locali. Eppure tanti uomini in divisa non sono bastati a impedire che un'imboscata venisse messa a segno a pochi metri dal commissariato più importante.

Aiuti oltre i limiti
Soldati e carabinieri escono ancora dalla loro base per sostenere la popolazione. Prima della strage del 2003 lo facevano molto di più: fino a quel momento la brigata Sassari aveva percorso un milione e 900 mila chilometri; dopo di loro i bersaglieri della Pozzuolo del Friuli ne hanno macinati solo 460 mila. C'è un dato che fotografa la situazione meglio di ogni altra analisi: poco meno di 2 milioni di chilometri totalizzati dalle colonne dell'Esercito in quattro mesi prima dell'attentato, altrettanti percorsi nei 24 mesi successivi. Eppure, nonostante i rischi altissimi testimoniati dall'attacco costato la vita a due carabinieri e un capitano dell'Esercito, i nostri militari non rinunciano a condurre le attività umanitarie. Cercano di costruire scuole e ambulatori, forniscono macchine ai laboratori artigianali e all'unica raffineria. Per evitare imboscate, lo fanno di sorpresa: arrivano nei villaggi all'improvviso, scaricano doni e materiali, poi ripartono. Se invece c'è qualche cerimonia ufficiale, tutta l'area viene presidiata in anticipo con cecchini e blindati. Insomma: una situazione di guerra. Ma nessuno si sottrae ai pericoli. Anzi, tutti i reparti fanno più del necessario. Prima di partire per l'Iraq, c'è una sorta di questua tra istituzioni locali e aziende della zona dove ha sede la brigata per raccogliere aiuti da distribuire: spesso i reparti mettono insieme una quantità di merci superiore ai fondi governativi. Inoltre in occasioni particolari, ci sono collette tra i soldati per acquistare riso o medicinali. O iniziative straordinarie, come quella della famiglia del maresciallo Coletta, una delle vittime del la strage del novembre 2003, che ha mandato un container di farmaci per un ospedale pediatrico. Ma a tre anni dalla caduta di Saddam ha ancora senso rischiare la vita di 20 militari per consegnare un camion di riso e medicine?

Torna a inizio pagina

 

Un'ipotesi per il ritiro dall'Iraq

Gianni Rufini,Gianni Rufini, Università di York - Post-war Reconstruction and Development Unit lunedì 29 maggio 2006. Scritto per Lettera 22 su www.socialpress.it

Non giochiamo a fare previsioni su questo Iraq. Certo non assomiglia al Kosovo del 1999 né al Mozambico del 1991, ma piuttosto alla Somalia del 1993, il primo grande fallimento di una missione internazionale. Con l’ultima riunione, il Governo sembra aver intrapreso la strada virtuosa del ritiro totale, senza la foglia di fico della “missione civile” scortata da mille soldati, come in un primo momento si era paventato. Ma saranno molte le pressioni, nelle prossime settimane, per ritornare sulla decisione presa. A parte i soliti guerrafondai, molti obietteranno che così facendo, l’Italia uscirebbe di scena e perderebbe l’occasione di giocare un ruolo nel processo di ricostruzione iracheno. Cerchiamo allora di capire come si potrebbe mantenere un ruolo rilevante nella transizione irachena, senza compromettersi militarmente.

Gli iracheni e l’Occidente
La prima cosa importante è che si capisca fino in fondo che qui i problemi tecnici e politici si mescolano irrimediabilmente con i simboli, e con i sentimenti degli iracheni: una presenza militare - sia pure simbolica - sarà sempre vista come un’occupazione. Non è il caso di addentrarci nei meandri del diritto internazionale (che pure parla chiaro), il problema è di percezione. Gli stranieri in Iraq, in particolare gli occidentali, erano visti come nemici anche prima della guerra, per via del conflitto precedente e, soprattutto, delle sanzioni, che avevano fatto precipitare il livello della qualità della vita nel paese. Ne sanno qualcosa le ONG e le agenzie ONU che ci hanno lavorato tra il 1992 e il 2003. Oggi, anche gli iracheni filo-occidentali, anche i più democratici e liberali riconoscono che lo stato d’occupazione (formale o no) è il grande fattore di destabilizzazione del paese. L’ostilità verso l’Occidente, nelle sue molte sfumature, è comunque universale, ed è un tratto ormai strutturale della società irachena. Ci vorranno decenni per superarlo, e la manifestazione più odiosa per l’opinione pubblica è costituita proprio la presenza militare.

La missione di pace italiana
Gli italiani, in “missione di pace”, si sono presentati al seguito delle truppe d’occupazione, senza alcun mandato delle Nazioni Unite. Ospiti non invitati, ingombranti e armati fino ai denti, non sono stati certo riscattati da un tardivo mandato del Consiglio di Sicurezza, che in realtà ha preso atto dello status quo, ricordando alle forze occupanti l’obbligo giuridico di amministrare il paese occupato. A conti fatti, la risoluzione dell’ONU ha in sostanza formalizzato l’integrazione dell’Italia nella Coalizione. E in ogni caso, agli occhi degli iracheni, non basta essere più simpatici per distinguersi da tutti gli altri che hanno fatto la guerra e invaso il paese. D’altronde tutto questo si sapeva già. Basta ricordare quello che era avvenuto in Somalia nel 1992-93, quando le Nazioni Unite avevano inviato nel paese la missione Restore Hope, col compito di fermare la guerra tra i warlords e assistere la popolazione stremata. La spedizione fu accolta con entusiasmo dalla popolazione, ma dopo qualche mese gli USA pretesero ed ottennero dall’ONU una seconda missione, parallela alla prima, la UNITAF, con compiti di polizia per arrestare e neutralizzare il gen. Aidid, presunto colpevole di tutto il caos somalo. UNITAF usava la mano pesante: arresti arbitrari, perquisizioni a tappeto, scontri a fuoco, uso della tortura negli interrogatori, ecc. I somali non distinsero più tra le due missioni internazionali, per loro tutti gli stranieri erano diventati ugualmente dei nemici, e si ribellarono. Restore Hope fallì miseramente, molti uomini vennero uccisi e il paese fu infine abbandonato a se stesso. Non basta dichiararsi buoni, bisogna anche sembrarlo. Ed essere creduti.

Militari e civili

Si è parlato molto di un intervento civile per la ricostruzione, che dovrebbe però essere protetto dalle forze militari, “almeno 800 uomini” secondo la Difesa. Innanzitutto bisogna chiedersi a quale scopo mandare dei civili in Iraq. I bisogni prioritari del paese in termini di ricostruzione, sono chiari: il sistema sanitario, le scuole, l’acqua e i servizi igienici, l’agricoltura e le piccole attività produttive, strade e infrastrutture urbane. Insomma, tutte cose banali, ampiamente alla portata degli iracheni stessi: non bisogna dimenticare che l’Iraq ha avuto per quarant’anni il miglior sistema scolastico e universitario del Medio Oriente. E allora perché dovremmo mandare esperti italiani, a 20-30mila euro al mese, quando con la stessa cifra si potrebbero assumere decine e decine di ottimi tecnici locali? E perché dovremmo schierare centinaia di costosissimi soldati a difenderli, quando i bravi iracheni potrebbero tranquillamente farne a meno? Chiunque sappia qualcosa di cooperazione e di aiuto umanitario sa benissimo che non solo mandare tecnici italiani è inutile, ma anche che semplicemente non è possibile lavorare circondati dai blindati, sorvolati dagli elicotteri e con i cecchini piazzati sui tetti delle case. Certo, possono esserci settori particolari, come la conservatoria dei musei o l’archeologia, dove un qualche apporto di competenza italiana potrebbe risultare utile, ma a quale prezzo?

Imparare dall’Afghanistan

Si è parlato molto di dispiegare nel paese i Provincial Reconstruction Teams (PRT) già sperimentati in Afghanistan. Si tratta di formazioni miste militari-civili sotto comando militare, che si impegnano in quel tipo di operazioni sopra descritte, che rendono mostruosamente costosi e pericolosi dei banalissimi lavori edili o la distribuzione di aiuti di base. E’ come se l’idraulico si presentasse a casa vostra protetto da una decina di guardaspalle che per proteggerlo si piazzano in salotto, in bagno e in camera da letto, mettono faccia al muro vostro figlio e vostra moglie, puntano il mitra sui vicini di pianerottolo e sequestrano l’ascensore. In Afghanistan, i PRT hanno definitivamente compromesso la credibilità degli operatori civili, che subiscono continui attacchi, e perpetuano negli abitanti la sensazione di avere il nemico in casa. D’altra parte, ben pochi negano che l’intera operazione afgana sia un fallimento: Bin Laden sghignazza, i warlords si sono ripresi il paese, i Taleban controllano saldamente un terzo del territorio, il traffico di oppio è in pieno boom, le donne girano in burqa e il paese è ridotto alla disperazione. Eppure sono passati cinque anni...

Che fare
Se l’Italia vuole davvero giocare un ruolo in Iraq, allora deve cominciare a pensare a come spende i soldi, dirottandoli dalle costosissime operazioni militari verso le attività di assistenza e ricostruzione. Affidarsi alle Nazioni Unite, alle ONG e al sistema imprenditoriale per attivare le forze civili e le imprese locali, senza mettere a repentaglio la sicurezza di soldati e tecnici. Dal 2004, per esempio, tutte le ONG internazionali hanno ritirato i propri cooperanti dal paese e dirigono le operazioni da Amman o da Kuwait City, contando sul personale iracheno per l’esecuzione dei lavori, e recandosi ogni tanto in Iraq, per controllare come vanno le cose. Rischi minimizzati, spese bassissime e risultati più che soddisfacenti. Bisogna poi proseguire ed intensificare l’impegno per dotare il paese di una forza di sicurezza ben addestrata, ben armata e adeguatamente formata al rispetto dei diritti dell’uomo. Due assi strategici su cui impegnarsi per un decennio, con certezza di risorse e rispetto degli impegni. Lavorando con coerenza e continuità su questi due aspetti, l’Italia potrebbe diventare veramente una protagonista della ricostruzione irachena, e un modello di cooperazione internazionale.

Torna a inizio pagina

 

In Iraq la guerriglia spara con pistole italiane - La Stampa, 24 Febbraio 2006

Quarantamila pistole della polizia italiana, rivendute dal ministero dell'Interno alla Beretta, che ne avrebbe fatte arrivare «più della metà in Iraq con una triangolazione: armi che sono finite anche nelle mani della guerriglia.
Secondo la procura di Brescia questa operazione è stata realizzata violando la legge.
Ma ora una norma inserita dal governo nel decreto sulle Olimpiadi di Torino potrebbe cancellare l'inchiesta,salvando così l'azienda guidata da Ugo Gussalli Beretta, amico personale del premier Berlusconi e della famiglia Bush».
E' il settimanale l'Espresso a ricostruire la complessa vicenda di una partita di 44.926 pistole «Beretta 92S», che il Viminale avrebbe ritirato dal servizio tre anni fa per sostituirle con armi più moderne.
«Nel febbraio 2003 - scrive il settimanale - il ministero dell'Interno cede alla fabbrica bresciana 44.926 pistole Beretta 92S: sono quelle delle prime serie prodotte tra il 1978 e il 1980, ritirate dal servizio per essere sostituite con armi più moderne.
Nonostante siano definite "fuori uso" si tratta di pistole semiautomatiche ancora molto apprezzate sul mercato: armi di calibro nove parabellum, considerate da guerra».
Secondo quanto ricostruito dall'Espresso, «gran parte delle pistole era in buone condizioni ma venne svenduta dal ministero a prezzo di rottame. Poi la fabbrica bresciana le ha rimesse a posto, rivendendole. Secondo i magistrati di Brescia, posizione poi confermata dal Tribunale del Riesame, "la stessa cessione delle armi da parte del ministero dell'Interno appare illegale": non è stata rispettata la legge che impone il parere del ministero della Difesa sulla vendita di armi da guerra.
Inoltre la Beretta dal 2002 non ha più la licenza per riparare armi».

Nel 2004 l'azienda bresciana «chiede la licenza per vendere armi al governo provvisorio di Baghdad: la necessità di costruire l'arsenale per il nuovo esercito e la nuova polizia irachena rappresenta per la Beretta un'occasione unica di business. Ma - scrive il settimanale - , di fronte alle richieste di chiarimenti da parte del ministero, rinuncia.
Contemporaneamente però chiede alla prefettura di Brescia il permesso di vendere le Beretta della polizia italiana a una celebre ditta britannica, uno dei colossi del commercio bellico internazionale, ottenendo il via libera. In realtà tutte le 44.926 pistole sono già state pagate da un'altra ditta: la Super Vision International ltd, una sigla inglese sconosciuta».
«Il primo stock di 20.318 pezzi viene consegnato nel luglio 2004. Ma queste armi - sottolinea l'Espresso - finiscono in Iraq».

Nel febbraio dello scorso anno «i carabinieri del comando di stanza in Iraq comunicano che "alcune pistole Beretta 92s sono state rinvenute in possesso di forze ostili". E che le armi trovate nelle mani dei guerriglieri "risultano vendute tra il 1978 e il 1980 al ministero dell'Interno italiano". Le indagini - continua il settimanale - fanno scoprire l'incredibile triangolazione e la magistratura sequestra nei depositi della Beretta le restanti 15.478 pistole già acquistate dalla misteriosa società britannica».
E ancora: «L'azienda reagisce e si difende con ostinazione. Davanti al Tribunale del Riesame sostiene che avendo la licenza per fabbricare armi poteva anche ripararle e rivenderle; che quelle pistole non potevano essere considerate da guerra».

«I giudici - conclude l'Espresso - le danno torto su tutta la linea. Ma il decreto sulle Olimpiadi di Torino approvato lo scorso 8 febbraio apre uno spiraglio per il colosso bresciano, guidato da Ugo Gussalli Beretta». In due righe del decreto, infatti, i fabbricanti di armi sono autorizzati "alla riparazione delle armi prodotte" e "alle attività commerciali connesse".
Dopo le anticipazioni dell'Espresso, Paolo Cento, coordinatore dei Verdi, ha chiesto che Berlusconi e Pisanu riferiscano subito della vicenda in Parlamento: «Da una parte fanno la guerra - ha detto -, dall'altra vendono armi alla guerriglia. Ci sono molte zone d'ombra».

Torna a inizio pagina

 

Football e pizza - Così gli USA si preparano a restare in Iraq

di Oliver Poole dalla base aerea di al-Asad -The Daily Telegraph, 11 febbraio 2006
Tratto da http://www.osservatorioiraq.it - data: 16/2/2006

La base aerea di al-Asad è il più grande campo dei Marine nella provincia occidentale di Anbar. Si trova nel mezzo della regione più ribelle dell’Iraq, dove migliaia di rivoltosi sono stati uccisi in una serie di operazioni nel corso dello scorso anno.

Ma entrate "all’interno" e questa fascia di deserto somiglia sempre di più a una fetta delle zone periferiche residenziali Usa piuttosto che alla prima linea di una zona di guerra.
Fra i suoi ristoranti ci sono un Subway e una pizzeria-fast food. C’è un coffee shop, un’area per il football, e perfino una piscina.
Un cinema proietta gli ultimi film, mentre il principale centro ricreativo del campo offre serate danzanti speciali - hip hop il venerdì, salsa il sabato, e country & western la domenica.
C’è perfino un noleggio auto Hertz che fornisce macchine con finestrini anti-proiettile per coloro che volessero attraversare la base in qualcosa di più comodo di un Humvee militare.

Perché, mentre le notizie da Washington si concentrano sul ritiro delle truppe, le forze armate Usa stanno cominciando a mettere in atto con costi enormi la prossima fase della loro politica per l’Iraq. Ed è una fase che probabilmente deluderà quelli che sperano in una uscita rapida di tutte le truppe straniere.
L’estate scorsa sono cominciate a emergere informazioni secondo cui erano stati redatti piani per creare quattro "super-basi", campi giganteschi che avrebbero ospitato decine di migliaia di soldati Usa, simili ad altre strutture militari estese in modo irregolare in tutto il mondo.

L’intenzione era che l’esercito iracheno addestrato ed equipaggiato di fresco prendesse in carico gradualmente la maggioranza delle operazioni di combattimento, consentendo a una parte dei 138.000 soldati Usa di andarsene. Quelli rimasti avrebbero fornito appoggio dai loro nuovi centri operativi quando fosse stato loro richiesto.
Questo passaggio di consegne è già iniziato, con una dozzina di basi minori evacuate nelle ultime settimane. In totale, c’è in programma di trasferirne 100 al governo iracheno quest’anno.

Anche se non verrà data alcuna conferma ufficiale di dove saranno ubicate le super-basi, ad al-Asad c’è tutta l’impressione che se ne stia creando una.
Le regole in base alle quali ai giornalisti è consentito visitare le strutture militari vietano qualsiasi accenno alla loro ubicazione, dimensione, o numero di truppe.
Ma non si vìola alcuna regola a dire che questo è un posto così vasto che ha al suo interno due linee di autobus e che la vista degli operai che stanno costruendo nuovi alloggi per altri soldati è comune.

Il mese scorso, cartelli rossi di "Stop" – l’elemento onnipresente dell’arredo stradale americano – sono comparsi a tutti gli svincoli stradali.
Membri importanti dei partiti sciiti al governo si sono lamentati del fatto che essi denotano progetti americani per una presenza a lungo termine nel loro paese.
Alcuni membri sunniti dell’Iraqi Islamic Party li considerano prova di una “occupazione” indefinita, una accusa negata dai funzionari Usa, che insistono che le basi sono un altro passo in un ritiro finale.
Ma perfino i Marine di stanza ad al-Asad sono scettici su quanto rapidamente sarà completato questo passo.
Si ritiene che all’esercito iracheno manchi “almeno” un anno prima di essere in grado di combattere i ribelli.
Alti ufficiali fanno notare che quando la principale base dell’esercito vicino Tikrit è stata consegnata alle forze irachene, un trasferimento molto pubblicizzato da Washington come prova della capacità crescente dell’Iraq di essere autosufficiente, essa è stata spogliata di tutto in poche settimane dalle stesse unità irachene che avrebbero dovuto proteggerla.

Soprattutto c’è la consapevolezza, acquisita attraverso una triste esperienza, che le previsioni su che cosa sarà l’Iraq nel futuro immediato sono quasi sempre sbagliate.

Al Colonnello H R McMaster, il comandante delle truppe a Tal Afar, e l’alto ufficiale Usa le cui tattiche di contro-guerriglia sono state lodate in modo particolare a Washington e a Londra, è stato chiesto di recente che cosa pensava che i prossimi 12 mesi avessero in serbo per gli iracheni.
Ha rifiutato di fare congetture. “Chiunque sostenga di capire che cosa sta succedendo in Iraq non lo capisce", ha risposto.
Nel frattempo, i militari prevedono con sicurezza che si avvicenderanno a rotazione nella base per almeno un decennio.
Un sergente fa notare che almeno potranno comprare una tazza di caffè degna di questo nome.

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)

Torna a inizio pagina

 

Il destino dell'Iraq

di Tarik Ali (traduzione italiana adi Alessandro Siclari per NuoviMondiMedia, Tariq Ali The Guardian, 16 gennaio 2006)

In Iraq una preoccupazione tra i molti cittadini della nazione – compresi quelli che inizialmente sostenevano la guerra – è quella di sapere se il loro paese sopravviverà alla ricolonizzazione occidentale o se invece questa condurrà alla disintegrazione del paese. Uno scenario hobbesiano oggi potrebbe lasciare il posto a una soluzione di divisione in tre parti domani.

Nell’ultima metà del secolo scorso, il grande poeta iracheno Muhammad Mahdi al Jawahiri – egli stesso figlio di un membro del clero sciita e nato nella città santa di Najaf – esprimeva il suo distacco dal settarismo religioso e affermava la sua fede nel nazionalismo iracheno: "Ana al Iraqu, lisani qalbuhu, wa dami furatuhu, wa kiyani minh ashtaru" ( Io sono l’Iraq, il suo cuore è la mia lingua, il mio sangue il suo Eufrate, il mio intero essere è nato dalle sue ramificazioni). Da allora sembra essere passata un’eternità.

Cosa dobbiamo aspettarci oggi? L’occupazione statunitense è profondamente dipendente dal supporto de facto dei gruppi sciiti, specialmente dello Sciri (il consiglio supremo per la rivoluzione irachena), lo strumento di Teheran in Iraq. L'Ayatollah Sistani subito dopo la caduta di Baghdad disse a tutti gli iracheni che auspicava un Iraq unito e indipendente. Magari poteva davvero volerlo allora, ma oggi le cose sono cambiate. Quando Sistani impedì ai gruppi sciiti di combattere la loro battaglia e persuase Moqtada al Sadr di far cessare la resistenza, stava anche intaccando l’unità della nazione. Una resistenza unita che combatteva su due fronti avrebbe potuto portare a un governo unito in un secondo momento. Non sorprende che Thomas Friedman, del New York Times, abbia chiesto che Sistani fosse ricompensato con il premio Nobel per la pace.

Se i gruppi sciiti avessero deciso di resistere all’occupazione, essa sarebbe finita molto tempo fa, o addirittura non si sarebbe mai verificata. I gruppi clericali al potere in Iran resero chiaro a Washington che non si sarebbero opposti alla caduta di Saddam Hussein o a quella dei Talebani. Lo fecero, evidentemente, perché era nei loro interessi e per motivazioni tutte loro, ma il loro è stato un gioco pericoloso. Se i sunniti e i nazionalisti non avessero resistito, negando a Bush e a Blair la gloria nella quale speravano, e creando una crisi di fiducia nei confronti di Washington e Londra, il cambio di regime a Teheran sarebbe rimasto in agenda, nonostante il sostegno iraniano agli Usa.

Abbastanza ironicamente, è stata la resistenza in Iraq che ha reso questa ulteriore avventura impossibile nel medio termine. L’alto comando dell’esercito americano, in grosse difficoltà in Iraq, è seriamente diviso sulla guerra, e ci sono pochi dubbi sul fatto che alcune importanti figure al Pentagono siano a favore di un rapido ritiro per pure ragioni militari. Potrebbe l’Impero, in una tale crisi militare, riuscire a strappare un trionfo politico? Una svendita dell’Iraq, che assieme alla Siria era il solo paese a resistere alla dominazione americana, sarebbe stata una vittoria. Non c’era alcun dubbio su questo risultato.

Il gruppo iracheno che ha beneficiato di più dall’occupazione è la leadership dei curdi. I curdi hanno ricevuto fondi in grande quantità per i dodici anni precedenti alla guerra, le agenzie di intelligence hanno sfruttato la regione come base per penetrare nel resto della nazione. Oggi i curdi dominano le marionette dell’esercito e della polizia, hanno definito il carattere ultrafederale della costituzione, e non è un segreto che gradirebbero una pulizia etnica nella zona del Kirkuk che escluda gli arabi e tutti gli altri non curdi, compresi quelli nati nella città. Una minorità oppressa in un’epoca può rapidamente diventare un oppressore in un’altra, come Israele continua a dimostrare al mondo. I leader curdi, dopo avere ottenuto il Kirkuk, sono felici di essere diventati un protettorato occidentale.

Se l’unità dei gruppi sciiti dovesse collassare, e potrebbe farlo qualora negasse la lussuria delle truppe americane e il supporto aereo, un nuovo patto potrebbe essere possibile per prevenire la balcanizzazione dell’Iraq. Lo stesso potrebbe avvenire se Teheran decidesse che un Iraq indipendente è negli interessi della regione, ma il calcolo razionale non è mai stata prerogativa dei mullah. Un finale felice sembra comunque lontano.

E il petrolio? Il modello preparato al momento costerà all’Iraq miliardi in termini di guadagni persi, mentre le multinazionali globali raccoglieranno il bottino. I contratti preparati provvederebbero loro guadagni del 42% o del 62%, in un settore dove i guadagni minimi della regione sono del 12%. Mentre il petrolio resterà proprietà dello Stato in termini legali, gli accordi di condivisione della produzione faranno concessioni ad agenzie private. Anche questo consisterà in una vittoria sia di gruppi come Halliburton sia di quella dei suoi padroni politici. Fino a quando il governo iracheno appoggerà i PSA (gli accordi di condivisione della produzione petrolifera, NdT), le truppe britanniche e americane potranno ritirare le loro truppe e dichiarare vittoria. Il trionfo della libertà si rifletterà nell’accordo per il petrolio. Del resto, poco altro conta.

Ma questo accordo può durare indefinitamente senza la presenza delle truppe imperiali? Probabilmente no. Il petrolio nel passato ha fatto risorgere movimenti nazionalisti e ha trasformato la politica dell’Iran e dell’Iraq. I tempi sono cambiati oggi, ma i problemi di base restano, e la guerra per il petrolio potrebbe non finire così presto.

Articolo originale http://www.guardian.co.uk/comment/story/0,,1687114,00.html

Torna a inizio pagina

 

 

Missione italiana sotto inchiesta

Un ponte per... - Osservatorio Iraq 18 gennaio 2006

Si dovrà votare entro breve il nuovo rifinanziamento della missione italiana in Iraq, la cui proroga è scaduta il 31 dicembre. Sarà più difficile però per il governo italiano presentare la necessità di finanziare una “missione di pace” che ha tra i suoi compiti la tutela del patrimonio iracheno e la requisizione di armi da guerra. Il 4 gennaio 2006 la procura militare ha aperto una inchiesta su quattro ufficiali della Brigata “Pozzuolo del Friuli” per peculato, introduzione e detenzione clandestina di armi da guerra. Nel corso di perquisizioni in abitazioni private sono stati rinvenuti reperti archeologici.

Tutto materiale proveniente dall’Iraq. La Brigata “Pozzuolo del Friuli” ha infatti partecipato alla missione “Antica Babilonia” dal maggio al settembre 2004, e il materiale che è stato rinvenuto nella caserma Berghinz di Udine oltre cento tra kalashnikov, pistole semiautomatiche, mitragliatrici, lanciarazzi Rpg e fucili da cecchino è stato prelevato dal teatro iracheno. Sarà difficile, secondo Giovanni Bernardi dichiarare questa come “l’iniziativa di un singolo”: “Il singolo che ha l’iniziativa di portare nel proprio bagaglio o con sé materiale di armamento, non ci riesce, perché prima di rientrare da un teatro operativo, passa, così come facciamo noi all’aeroporto, da un metal detector. Il metal detector controlla sia i bagagli sia l’individuo e quindi non è possibile che il singolo abbia questa iniziativa: senz’altro è una iniziativa di reparto”.

Una brutta storia per la missione italiana, alla quale si aggiunge, sul piano strettamente militare, Paul Bremer, il governatore americano che ha guidato il governo dopo la presa di Baghdad esprime giudizio negativo sull’operato dei militari a Nassirya. Nel suo libro ”Il mio anno In Iraq” , appena pubblicato, così viene liquidata la missione italiana: “Il nostro ufficio di Nassiriya è stato quasi sopraffatto perché la Forza di Intervento Rapido dell'Italia ha impiegato sette ore per fare un percorso di poche miglia. Siamo stati costretti ad abbassare la bandiera ieri". Il libro di Bremer non mette sotto accusa solo gli italiani, ma più in genere i membri della coalizione, a dispetto di quanto riportato dai media dei singoli paesi sul comportamento dei loro eserciti. Ma la guerra raccontata dai giornali e dalle televisioni e la guerra realmente vissuta, da una o dall’altra parte, raramente collimano.

Sue Smith, madre di un soldato britannico ucciso in Iraq, sintetizza così la situazione parlando delle centinaia di soldati feriti: “ Il governo pensa che l’ignoranza sia felicità estrema. Se si tiene la gente all’oscuro, non farà domande. Che possibilità ha il pubblico britannico di prendere una decisione quando tutto viene nascosto? Perché lo stanno nascondendo? Se io so tutto su 12 [persone] che hanno perso le gambe e le braccia, perché il pubblico non lo sa?”. Come nei media occidentali, anche nei media iracheni si paga il prezzo del silenzio governativo, o peggio ancora quello della sua sola voce: Charles Levinson, del Christian Science Monitor, racconta che il maggior gruppo editoriale iracheno, IMN, proprietario della rete televisiva Al Iraqiya, è ormai sotto il controllo del Primo Ministro sciita, Ibrahim al Ja’afari. “Il suo ufficio … ha lavorato per trasformare i vari media dell’IMN in portavoce delle sue politiche e degli alleati del partito al Da’wa, assumendo e licenziando redattori, e dirigendo la politica editoriale”.

Nel frattempo sono diventate di pubblico dominio le notizie dell’influenza statunitense sui media iracheni, che non si è limitata solo ai quotidiani, ma ha coinvolto anche stazioni televisive e persino alcuni leader religiosi . Dignitari, sceicchi ed ulema della provincia di Nineveh, nel denunciare la pesante situazione della loro provincia, sottoposta ai continui raid delle forze sia statunitensi sia irachene, sottolineano come:“il governo iracheno è complice in tutti questi crimini, nell'assenza dei media, e in particolare per l'uccisione e il rapimento di giornalisti da parte di mercenari dell'occupazione, dopo aver terrorizzato ed escluso stazioni satellitari e arabe ed i media internazionali, impedendo di riferire su quel che sta accadendo, per consentire il massacro del popolo iracheno senza testimoni”.

Non mancano solo le infrastrutture in Iraq, mancano le libertà fondamentali e quella della libera espressione è una di queste: si viene condannati a trenta anni di prigione per aver diffamato il leader curdo Massud Barzani, si viene prelevati dalla propria casa distruggendo tutto per uno “sbaglio di persona” . Si viene guardati con sospetto perché si è “testimoni”. Era un testimone anche Alan, l’interprete e fixer iracheno della giornalista Jill Carrol. Il 7 gennaio è stato ucciso nel quartiere di al Adil, e la sua collega americana rapita.
Prima di lavorare come interprete, aveva un negozio di dischi, che era anche un luogo di ritrovo per i ragazzi e le ragazze di Baghdad. Basta leggere il tenerissimo ricordo che ne dà Riverbend nel suo blog per capire quanto la guerra e l’occupazione abbiano, a lui e agli altri, rubato il futuro.
Fonte www.osservatorioiraq.it

Torna a inizio pagina