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COORDINAMENTO PACE
aderisce a: |
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CINISELLO CITTA' APERTA
Per una pratica dell'antirazzismo
nel Nord Milano |
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Nel nostro paese nessuno E' straniero nostra patria
e' il mondo intero |
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Archivio >> Afghanistan >>Documenti |
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Articoli |
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PERCHE' ANDARE
VIA
Repubblica e Corriere si schierano contro il ritiro. Con argomenti confutabili
Enrico Piovesana - 01.6.2006 |
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CARA KABUL, QUANTO COSTI
ALL'ITALIA
Emanuele Giordana, Lettera 22, ilmaniesto 11.05.06 |
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IL GENERALE CHE GUIDO LA
KFOR:
"IN AFGHANISTAN C'E' LA GUERRA"
Enrico Piovesana, www.peacereporter.net, 22.06.06 |
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GINO STRADA: KABUL, E' GUERRA.
VIA LE TRUPPE
Il fondatore di Emergency Gino Strada racconta l'Afghanistan sotto occupazione
e chiede il ritiro
Loris Campetti Il Manifesto, 10 maggio 2006 |
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L'ISAF CAMBIA PELLE, I NOSTRI
IN PRIMA LINEA
Stefano Chiarini, Il Manifesto, 30/05/2006 |
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LA NATO E' A KABUL MA CHI
HA VISTO IL MANDATO ONU?
Manlio Dinucci, il manifesto, 13 Giugno 2006 |
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AFGHANISTAN, LA GRANDE TRUFFA
Ricostruzione. Un business da 15 miliardi di
dollari che rischia di ritorcersi contro Bush e i contingenti stranieri
Ida Rotano, aprileonline.info, n.169 del 25.05.06 |
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L'ITALIA IN AFGHANISTAN?
UN FALLIMENTO COME IN IRAQ.
Gianni Rufini, Università di York - Post-war Reconstruction and Development
Unit,
il manifesto 03/06/2006 |
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L'ITALIA NON SIA UN SEMPLICE
STRUMENTO DELLA POLITICA USA
L’appello letto a Montecitorio dalla deputata afgana Malalai
Joya: «La cruda realtà è che gli americani stanno commettendo
oggi lo stesso errore che commisero finanziando i talebani»
Liberazione 1 giugno 2006, Traduzione Simona Castaldi ) |
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MESSAGGIO DI RAWA SULLE TRUPPE
STRANIERE IN AFGHANISTAN
da RAWA, 11 maggio 2006 |
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AFGHNISTAN: PERCHE' ANDARE
VIA
Repubblica e Corriere si schierano contro il ritiro. Con argomenti confutabili
Enrico Piovesana - 01.6.2006
Gli editoriali di prima
pagina di ieri su Repubblica e Corriere della Sera hanno ufficialmente dato
il via alla campagna stampa contro il ritiro dell’Italia dalla guerra
in corso in Afghanistan. Con argomenti diversi che ben sintetizzano, nella
discussione sul ruolo italiano in Afghanistan, l'opinione di chi vuole lasciare
le truppe italiane in quel paese, o addirittura aumentarne la presenza. Argomenti
diversi, dicevamo, ma entrambi confutabili.
Guido Rampoldi, su Repubblica. “Oggi quel pacifismo
invoca il rimpatrio del contingente italiano dall´Afghanistan: ma evita
di chiedersi cosa accadrebbe laggiù se la Nato fuggisse. Accadrebbe
questo: naufragherebbe la possibilità di sottrarre gli afgani alla
guerra civile cominciata oltre trent´anni fa. Dilagherebbe ovunque una
mischia furibonda, combattuta dai pesi massimi dell´area attraverso
le milizie afgane, un "tutti contro tutti" che provocherebbe dapprima
il collasso definitivo del Paese e d´ogni minima traccia di statualità,
quindi l´ennesimo sterminio per fame di decine o centinaia di migliaia
di afgani, soprattutto donne e bambini. Infine al-Qaeda tornerebbe ad essere
padrona di gran parte dell´Afganistan; e l´avvento definitivo
della casta guerriera, assassini molto pii, comporterebbe per le ragazze di
Kabul la fine d´ogni speranza”.
Franco Venturini, sul Corriere della Sera. “Andarsene
dall'Afghanistan? No, perché, a dispetto dei rischi comuni, Afghanistan
e Iraq, lungi dall'essere simili, rappresentano le due concezioni opposte
della politica internazionale e del ricorso alla forza. (...) L'intervento
in Afghanistan, all'indomani degli attentati dell’11 settembre 2001,
è cosa del tutto diversa. Le motivazioni furono veritiere (perché
in Afghanistan i terroristi c’erano, a differenza delle armi di distruzione
di massa in Iraq). Al posto dell’unilateralismo preventivo di Bush si
formò una coalizione che comprendeva anche Paesi islamici. E il pur
contorto via libera dell’Onu (risoluzione 1386) arrivò prima,
non dopo la guerra. (…) La missione in Afghanistan, lasciata a metà
dagli Usa per volgersi contro Baghdad, risulta ancora oggi incompiuta con
Bin Laden libero e attivo. Tanto più che in Afghanistan è presente
quella comunità internazionale alla quale vogliamo appartenere (Francia,
Germania, Spagna) e un ritiro unilaterale comporterebbe per l’Italia
una frattura strategica ben più grave e onerosa di quella che si produrrà
con il rientro dall’Iraq”.
E’ la presenza delle truppe che crea instabilità.
Senza le truppe straniere l’Afghanistan precipiterebbe nel caos, scrive
Rampoldi. Peccato che nel caos l’Afghanistan ci sia già oggi,
nonostante la presenza delle truppe straniere, e anche a causa della loro
presenza. Quattro anni di occupazione militare straniera (Usa e Isaf) non
sono serviti a rafforzare l’autorità del governo di Karzai, che
non si è mai estesa al di fuori di Kabul e dei principali capoluoghi
di provincia. Nel resto del Paese hanno continuato a comandare e a imperversare
i signori della guerra e dell’oppio, e le condizioni di vita della popolazione
non hanno conosciuto miglioramenti. Anche per colpa di una ricostruzione
inesistente, di cui hanno beneficiato solo le aziende appaltatrici statunitensi
e i corrotti politici del governo Karzai.
Nel sud i talebani, fuggiti ma mai sconfitti, sono tornati dal Pakistan e
hanno ripreso il controllo delle aree extraurbane delle province di Kandahar,
Helmand, Uruzgan, Zabul e Kunar, lanciando un’offensiva contro le truppe
straniere e governative che ha causato 6.500 morti in quattro anni (1.300
solo negli ultimi 5 mesi), con centinaia di civili afgani uccisi nei bombardamenti
aerei Usa (una trentina solo lo scorso 22 maggio nel bombardamento di un villaggio
vicino a Kandahar).
Questi massacri di innocenti, le violenze e gli abusi delle truppe Usa nel
corso dei rastrellamenti dei villaggi, le torture nelle Abu Ghraib afgane
dei carceri militari di Bagram e Kandahar, il generale atteggiamento aggressivo
e sprezzante delle truppe Usa nei confronti della popolazione: tutto ciò
ha fatto montare negli afgani, alcuni di loro inizialmente abbastanza ben
disposti verso la presenza militare straniera, un risentimento sempre maggiore
nei confronti delle truppe d’occupazione e il governo Karzai. La rivolta
di Kabul dell’altro giorno è stata una dimostrazione eclatante.
Questo montante odio popolare non fa distinzione tra soldati Usa o di altri
paesi Nato: per gli afgani non c’è differenza tra un marines
e un alpino, e le colpe dei primi ricadono sui secondi in maniera del tutto
automatica. Per la stragrande maggioranza degli afgani – che conoscono
a mala pena la geografia del proprio Paese – italiani, inglesi, tedeschi,
spagnoli, europei, americani sono la stessa cosa: “stranieri”.
Stranieri di cui non si fidano più, stranieri di cui hanno le tasche
piene.
Come le hanno del governo cosiddetto “democratico” di Karzai,
in cui all’inizio molti hanno sinceramente creduto, ma che ormai considerano
un traditore, un fantoccio degli stranieri, un potere lontanissimo dai bisogni
della gente. In questa situazione di frustrazione, rabbia e disillusione,
è comprensibile che la società afgana torni a guardare con speranza
ai talebani e al loro movimento armato, che trova un terreno di propaganda
e proselitismo sempre più fertile e un sostegno popolare sempre più
forte. E’ vero che l’Afghanistan rischia di esplodere e di tornare
in mano ai talebani, ma proprio grazie al catalizzatore della presenza militare
straniera.
La legalità della missione è tutt’altro che scontata. La missione Italiana in Afghanistan è legittima, contrariamente a quella
in Iraq, scrive Venturini. Peccato che, se si guarda alla storia di questa
missione, emerga chiaramente non solo l’ambiguità della sua originaria
legittimità internazionale, ma soprattutto i metodi antidemocratici
con cui il governo italiano ha portato – e mantenuto per oltre quattro
anni – l’Italia in guerra: violando la Costituzione italiana,
violando la condizione alla quale il Parlamento aveva votato la partecipazione
alla guerra, ampliando il coinvolgimento militare italiano facendolo passare
con stratagemmi legali tutt’altro che trasparenti, evitando ogni dibattito
sul cambiamento della natura della missione Isaf, sulle nuove regole d’ingaggio,
sulla decisione di inviare aerei caccia-bombardieri.
In violazione all’articolo 11 della Costituzione repubblicana con cui
l’Italia “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali”, il nostro Paese è entrato in guerra in Afghanistan
il 7 novembre 2001, con l’approvazione bipartisan (esclusi solo Pdci,
Prc e Verdi) di una risoluzione parlamentare
che autorizzava la partecipazione italiana all’operazione bellica Usa
Enduring Freedom – a sua volta ‘legittimata’ dalla vaghissima
risoluzione Onu n. 1368 del 12 settembre 2001 che, senza nemmeno citare l’Afghanistan,
autorizza a “combattere con tutti i mezzi la minaccia del terrorismo”
facendo riferimento al “diritto di autodifesa individuale o collettivo”
stabilito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Il Parlamento
approvò quella risoluzione a un patto: “impegnando il Governo
a riferire tempestivamente al Parlamento circa gli sviluppi significativi
degli eventi, nonché a sottoporre ad esso eventuali nuove decisioni
che si rendessero necessarie nel prosieguo del conflitto”. Cosa che
non è mai accaduta.
Il 20 dicembre 2001, la risoluzione Onu n. 1386 dà
vita – ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – alla
missione di stabilizzazione Isaf (International Security Assistance Force),
cui l’Italia aderisce automaticamente, formalizzando la sua partecipazione
il 10 gennaio 2002, con la firma a Londra, assieme ad altre 15 nazioni, di
un Memorandum of Understanding. L’unico passaggio parlamentare riguardante
la missione Isaf avviene il 27 febbraio 2002, con l’approvazione della
“legge n. 15/2002 di conversione, con modificazioni,
del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 451, recante disposizioni urgenti per
la proroga della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali”.
La “modificazione” riguarda l’inserimento nel testo del
decreto di un riferimento alla missione ISAF “connessa a Enduring Freedom”.
Con lo stesso discutibile sistema delle “modificazioni” aggiunte
nelle leggi di conversione di decreti-legge, il Parlamento ha approvato a
posteriori la partecipazione dell’Italia a altre due missioni di guerra
della Nato “connesse a Enduring Freedom” e iniziate il 21 ottobre
2001 con l’applicazione – per la prima volta nella storia Nato
– dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Nord-Atlantica
che stabilisce che ogni attacco a uno stato membro è da considerarsi
un attacco all'intera alleanza. L’11 agosto 2003 (legge n. 231/2003 ) viene approvata la partecipazione alla missione Active Endeavour, e il 12
marzo 2004 (legge n. 68/2004) quella alla missione Resolute
Behaviour, entrambe e svolte da unità navali, rispettivamente, nel
Mediterraneo orientale e nel Mare Arabico.
Nell’agosto 2003, la missione Isaf passa sotto comando Nato, ovvero
di un’alleanza militare formalmente in guerra con l’Afghanistan.
Pochi mesi dopo, il 13 ottobre 2003, la risoluzione Onu n. 1510
stabilisce l’espansione della missione Isaf dalla sola Kabul a tutto
il territorio nazionale afgano, prevedendo una progressiva espansione anche
nelle zone meridionali e orientali dove le forze Usa continuano a combattere
la resistenza talebana. Questa decisione è legata allo scoppio della
guerra in Iraq, dove le forze Usa sono così impegnate da doversi disimpegnare
dal fronte afgano, che viene ‘passato in consegna’ agli alleati
della Nato, proprio nel momento in cui la resistenza talebana torna a farsi
sentire con maggior violenza. Dopo un 2004 relativamente tranquillo (700 morti),
il 2005 registra una drammatica escalation dei combattimenti con oltre 2 mila
morti. Questo preoccupante cambiamento della situazione, proprio alla vigilia
della “fase 3” di espansione della missione Isaf nel turbolento
sud del Paese (prevista per la primavera 2006), impone alla Nato l’esigenza
di “irrobustire” le regole d’ingaggio dei militari impegnati
nella missione, che di fatto muta la sua natura da missione di pace a missione
di guerra. Tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006 questo delicato
argomento genera polemiche e accesi dibattiti, anche parlamentari, in tutti
i Paesi europei. Non in Italia, dove il 23 febbraio 2006 il governo Berlusconi,
pur di non affrontare un dibattito in aula sulla mutata natura della missione
dei nostri 2 mila soldati impegnati in Afghanistan (e sul progetto di invio
di sei caccia-bombardieri Amx dell’Aeronautica Militare), decide di
inserire l’autorizzazione al rifinanziamento delle missioni afgane Isaf
e Enduring Freedom nel maxiemendamento (legge n. 51/2006)
alla Finanziaria del dicembre 2005, imponendo la fiducia e approvandola con
i soli voti della maggioranza. La legge autorizza fino al 30 giugno 2006 la
spesa di 13.437.521 di euro per la proroga di Enduring Freedom, Active Endeavour,
Resolute Behaviour e quella di 148.935.976 per la partecipazione all'Isaf.
Più altri 3.349.403 per le “piccole spese”. In totale 165.722.851
per sei mesi. Il che significa, in prospettiva, una spesa di oltre 320 milioni
di euro l’anno: soldi nostri, che potrebbero essere destinati a scopi
ben più utili, sia in Afghanistan che qui in Italia.
Per un dibattito politico onesto sulla missione in Afghanistan.
Gli italiani hanno il diritto di scegliere se continuare o meno a spendere
i propri soldi e a mandare a morire i propri figli per una missione di pace
in un paese in guerra, una missione sempre più pericolosa e avversata
dalla popolazione locale, all’unico scopo – qui Venturini è
stato onesto – di evitare una “frattura strategica” con
gli alleati della Nato, Stati Uniti in testa. L’Afghanistan ha bisogno
di ospedali, scuole, strade e pozzi, non di blindati, fucili, elicotteri e
caccia-bombardieri.
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CARA KABUL, QUANTO COSTI
ALL'ITALIA
Si parla tanto di Iraq, ma per i 2 mila militari in Afghanistan spendiamo
oltre 320 milioni di euro l'anno, otto volte in più che per la Bosnia.
E ora il nuovo parlamento dovrà rifinanziare la missione
Emanuele Giordana, Lettera 22, ilmaniesto 11.05.06
Grandi
polemiche e spesso una gran confusione sul loro ruolo hanno in più
di un'occasione accompagnato le nostre missioni all'estero, definite per decreto
«di pace e di aiuto umanitario». Anche la nostra partecipazione
all'International security assistance force (Isaf), a Enduring freedom e alle
missioni Active endeavour e Resolute behaviour a essa collegate resta una
nebulosa su cui il nuovo governo, così come su Antica o Nuova Babilonia,
sarà chiamato a rispondere.
Tanto
per cominciare, quanto costa la missione che vede impegnati in Afghanistan
1.850 militari? Molto, oltre 320 milioni di euro all'anno. E se non è
la «voragine» mesopotamica, come una recente inchiesta dell'Espresso
ha appena definito l'Iraq, è di gran lunga la più costosa delle
nostre numerose missioni all'estero. Se per la proroga sino al 30 giugno 2006
della «partecipazione di personale militare alla missione dell'Unione
europea in Bosnia-Erzegovina» la spesa sarà di poco superiore
ai 21.285.597, come si legge nella Finanziaria di quest'anno, per l'Afghanistan
ce ne vorranno otto volte di più. Escludendo l'Iraq, l'Afghanistan
da solo assorbe assai più della metà del totale delle spese
per le nostre missioni fuori dal suolo patrio. Oltre 160 milioni di euro per
sei mesi, contro i circa 120 di tutte le altre.
E' una
storia che pesa sul bilancio dal 2002. Il penultimo finanziamento fu deciso
nel luglio del 2005, quando il parlamento convertì in legge il decreto
di giugno con le disposizioni urgenti per la partecipazione italiana a missioni
internazionali. Vi si leggeva che il decreto assicura «la partecipazione
italiana alle missioni internazionali di pace e di aiuto umanitario»
autorizzando, fino alla fine del 2005, la spesa di 16.235.103 di euro per
la partecipazione alla missione multinazionale Enduring Freedom (contrastare
il terrorismo in Afghanistan e favorire la stabilizzazione del
Paese) e alle missioni Active Endeavour e Resolute Behaviour (svolte da unità
navali con compiti di vigilanza, rispettivamente, nel Mediterraneo orientale
e nel Mare Arabico). La parte del leone toccava all'Isaf con una
spesa di 138.262.283 milioni di euro mentre tutte le altre missioni all'estero,
dalla Bosnia al Congo, ne ricevevano 126.285.892. Euro più euro meno,
e senza contare l'Iraq, esse costano, nel complesso, 600 milioni di euro l'anno.
LA metà vanno all'Afghanistan.
L'arida
contabilità dei nostri militari all'estero ci porta alla Legge 23 febbraio
2006 n. 51, ossia la conversione in legge «con modificazioni»
della Finanziaria del dicembre 2005, meglio nota come maxiemendamento. Il
governo, allora in affanno tra conti e campagna elettorale ormai già
iniziata, pose la fiducia e approvò infine la legge in febbraio coi
soli voti della maggioranza. «Un fatto - ricorda il senatore Francesco
Martone (Prc) - che, tra l'altro, impedì una discussione parlamentare
aperta sulla nostra missione in Afghanistan». Essendo l'Iraq, madre
di tutte le missioni, sempre il primo pensiero, l'Afghanistan è finito
per passare un po' in seconda linea. Fino ai primi morti in un'azione di guerra
(seguiti ad alcuni attentati) alcuni giorni fa. La legge autorizza fino al
30 giugno 2006 la spesa di 13.437.521 di euro per la proroga di Enduring Freedom,
Active Endeavour, Resolute Behaviour e quella di 148.935.976 per la partecipazione
all'Isaf. Più altri 3.349.403 per le piccole spese. In totale 165.722.851
per sei mesi.
Secondo
Martone la mancata discussione della missione fece passare sotto silenzio
che un po' di cose erano cambiate: «Ci sono almeno tre punti in sospeso,
e riguardano il cambiamento delle regole d'ingaggio in corso d'opera, il dibattito
in sede europea e la dislocazione fisica della missione che di fatto è
uscita da Kabul ed Herat. La discussione sulla
fusione di fatto tra Enduring Freedom e Isaf non è mai stata considerata,
mentre sollevava polemiche in Francia e Germania. Senza contare la questione
dell'invio di forze di combattimento britanniche nel Sud o, per un altro
verso, la sostituzione dei nostri caccia F16 con sei Amx che, in teoria, dovrebbero
servire a sorvolare i campi di papavero. Di fatto potrebbero essere mezzi
dissuasivi o di supporto tattico». Il senatore sottolinea come
tutto ciò richieda, d'accordo o meno che si sia sulla missione, una
discussione sui contenuti cui il parlamento non può sottrarsi.
La scadenza,
inevitabilmente, è l'inizio dell'estate, quando il nuovo parlamento
dovrà decidere il rifinanziamento delle spese. Che dovrà fare
i conti anche col capitolo indennità sugli stipendi (giustamente riconosciuta
a chi rischia la pelle all'estero), un'altra voce che, seppur indirettamente,
gonfia la spesa totale delle nostre scelte di politica estera e va a incidere
su altre voci del bilancio statale.
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IL GENERALE CHE GUIDO LA
KFOR:
"IN AFGHANISTAN C'E' LA GUERRA"
Enrico Piovesana, www.peacereporter.net, 22.06.06
La situazione in Afghanistan
peggiora di giorno in giorno. Gli Usa e la Nato, che guida la missione Isaf,
chiedono a tutti gli alleati un maggiore contributo militare. All'Italia,
nello specifico, il segretario generale dell'Alleanza Atlantica Jaap de Hoop
Scheffer ha chiesto un incremento del nostro contingente (attualmente di circa
1.300 uomini). Il governo italiano sta ora valutando l'invio di sei cacciabombardieri
Amx, di elicotteri da combattimento e di un contingente di forze speciali.
Il generale Fabio Mini è stato comandante della missione Kfor in Kosovo.
Generale Mini, non le pare che simili mezzi e forze siano poco compatibili
con una missione "di pace"?
Il problema dell'ampliamento della missione Isaf-Nato, e quindi anche della
partecipazione italiana, è di carattere giuridico prima che operativo.
In quanto tale, esso diventa istituzionale e non può essere lasciato
alla sola valutazione tecnico-militare. Il problema nasce dall'inserimento
di Isaf in un contesto artificiosamente dichiarato post-bellico e dalla sottovalutazione
della capacità dei guerriglieri talebani di costituire un'aperta minaccia
nei riguardi delle forze Usa, del governo di Kabul e di chiunque lo appoggi.
Quindi secondo lei, generale, non è vero che la guerra in Afghanistan
è finita, come tutti continuano a dire?
La guerra contro i talebani, parte essenziale di Enduring Freedom, non è
mai finita. Gli Stati Uniti hanno ridotto le forze e altre nazioni hanno dato
un modesto contributo, ma la guerra si è spostata laddove si spostavano
i resti del precedente regime afgano. Queste forze si sono riorganizzate e,
con l'aiuto esterno, stanno destabilizzando vaste aree del paese. Nessuno
ha dichiarato la fine delle ostilità con i talebani. E' stata anche
scartata l'idea di convocare i talebani a un tavolo della pace e imporre le
condizioni dei vincitori perché così facendo si sarebbe riconosciuta
la legittimità internazionale del loro governo, che non era stato riconosciuto
dalle Nazioni uUnite, ma che era stato interlocutore ufficiale di tutti e
perfino degli Stati uniti. Né nessuno ha pensato a trascinare ciò
che restava della dirigenza talebana sconfitta davanti ad un tribunale internazionale.
L'operazione Enduring Freedom, la guerra contro i talebani, continua ed è
stata inserita nel quadro più vasto della «guerra al terrore».
Il che significa che è destinata a durare ancora a lungo.
Una guerra che gli Stati uniti, impegnati altrove, vogliono lasciar
combattere agli alleati Nato, Italia compresa, che però sono in Afghanistan
nell'ambito di una missione che non è di guerra. Se la missione Isaf
della Nato «eredita» la guerra Enduring Freedom degli Usa non
si crea un cortocircuito, una sovrapposizione poco chiara tra due missioni
diverse?
Oggi, le forze di Enduring Freedom non sono oggettivamente sufficienti a controllare
militarmente il territorio minacciato, ed è per questo che gli Stati
uniti hanno chiesto alla Nato un maggior coinvolgimento. Ma per giustificarlo,
non si è chiesto di partecipare alla guerra e ampliare Enduring Freedom.
Si è preferito rimanere ancorati al criterio iniziale di Isaf, ovvero
al quadro di una missione che - come dice il suo stesso nome - è di
assistenza al mantenimento della sicurezza in appoggio al governo di Kabul.
Il progetto di Isaf, inizialmente concentrato solo nella capitale afghana,
prevedeva che, mano a mano che l'autorità del nuovo governo veniva
riconosciuta e che veniva negoziato lo scioglimento delle milizie personali
dei signori della guerra locali, le forze di sicurezza afgane avrebbero progressivamente
esteso il proprio controllo ad altri territori, con il sostegno di Isaf laddove
necessario.
Quindi lo scopo originario della missione Isaf era solo quello di
sostenere la graduale espansione dell'autorità del nuovo governo di
Kabul nelle zone già «pacificate» dalla missione Enduring
Freedom. Ma nella realtà non è questo che sta accadendo: Isaf
si sta sostituendo a Enduring Freedom nella fase di «pacificazione»
di un territorio. Non è così?
Le zone prescelte per l'ampliamento di Isaf, ovvero il sud dell'Afghanistan,
non sono quelle pacificate da Enduring Freedom, ma anzi proprio quelle in
cui la guerra contro i talebani continua con vere e proprie offensive militari,
seppur di carattere asimmetrico. Chi assume la responsabilità della
sicurezza in queste aree si deve predisporre per fare due cose: la guerra
contro i talebani, al posto o al fianco degli Usa, o la repressione di una
rivolta armata interna, al fianco o al posto del governo afghano - un governo
che molti degli stessi signori della guerra che ne fanno parte considerano
ininfluente, che molti ribelli considerano illegittimo e che i talebani considerano
d'usurpazione.
Ma se Isaf è diventata una missione di guerra «ereditando»
di fatto le funzioni di Enduring Freedom - il che spiega la necessità
di mandare cacciabombardieri e forze speciali - non lo si dovrebbe dire chiaramente?
Non ci dovrebbe essere una seria e franca discussione sul mutamento del mandato
Isaf?
Il fatto che i contingenti Isaf dovranno farsi carico della guerra ai talebani,
per conto di Washington o di Kabul, impone senza dubbio la necessità
di un esame serio della situazione e lo scioglimento dei nodi giuridici. Non
ci sono dubbi che in ambito Nato e in Italia ciò si possa fare serenamente.
Se si decide per l'opzione militare, il vero impegno istituzionale diventa
quello di calibrare lo strumento militare da costituire e le regole d'ingaggio
in relazione alla reale situazione e a un nuovo mandato. La cosa peggiore
che possa succedere è che si assumano nuovi impegni e nuovi rischi
mantenendo i vecchi criteri d'impiego e le ipocrisie di sempre: fingendo che
la situazione sia «normale», ignorando o negando l'evidenza della
sovrapposizione di Isaf a Enduring Freedom, spacciando per ricognitori di
campi d'oppio dei cacciabombardieri e per missionari di pace degli incursori
e sabotatori superaddestrati all'infiltrazione in territorio ostile e alla
guerra asimmetrica.
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GINO STRADA: KABUL, E' GUERRA.
VIA LE TRUPPE
Il fondatore di Emergency Gino Strada racconta l'Afghanistan sotto occupazione
e chiede il ritiro
Loris Campetti Il Manifesto, 10 maggio 2006
«A quei politici
che oggi piangono per i nostri soldati morti a Kabul o a Nassiriya vorrei
dire che si sarebbero risparmiati le lacrime se non avessero venduto quei
ragazzi per un atto di servilismo all'amico George». Non fa sconti a
nessuno, Gino Strada. Il fondatore di Emergency conosce bene l'Afghanistan.
Non perché sia uno studioso di geografia ma perché da anni e
anni - da guerre e guerre - opera come chirurgo in quel martoriato paese,
sempre schierato da una parte sola: la popolazione civile, le vittime della
guerra.
Forse siamo noi
che non vogliamo capire. Forse è vero che noi siamo in Afghanistan
con una missione di pace.
Queste sono le cretinate che dicono i potenti della terra e i loro cocchieri.
Da più di trent'anni continua la guerra in Afghanistan che ha attraversato
molte fasi e molte occupazioni, dai russi ai sauditi, dagli americani agli
italiani tutti hanno giocato le loro carte sulla pelle del popolo afghano.
Ora siamo in presenza di una nuova occupazione di un paese che come tutti
gli altri paesi non sopporta occupazioni militari straniere. La prima avvenne,
se non ricordo male, nel 1804 a opera di Pietro il Grande, per proseguire
con le tre guerre inglesi. Quando un afghano vede passare un militare straniero
non si chiede se è lì sotto l'egida dell'Onu, sa solo che è
pronto a bombardare una casa con dentro vecchi donne e bambini perché
forse lì abita l'amico di un talebano.
L'Afghanistan
è cambiato, ci dicono, sta risorgendo dopo l'arrivo dell'esercito del
bene.
Fuori Kabul non è cambiato nulla, anzi si rafforza la presenza non
so dire se dei talebani o dei pashtun in tutto il paese. Certo, Kabul è
molto cambiata. E' diventata una città più violenta, la criminalità
comune è alle stelle. Non abbiamo mai curato nei nostri ospedali tanti
accoltellati come ora. I prezzi delle case sono decuplicati, il costo della
vita quintuplicato. L'inquinamento in città è tale che la gente
gira con la mascherina come i medici in reparto. Poi, è scoppiata una
guerra nascosta: ogni giorno una media di cinque bambini finisce sotto i mezzi
militari. Per la prima volta, a Kabul, fa la sua comparsa la prostituzione.
Come a Belgrado
dopo la guerra umanitaria.
La prostituzione è un corredo lasciato da ogni guerra.
Cosa fanno a Kabul
le nostre truppe, e quanto ci costano?
In quasi 5 anni hanno operato sotto sigle diverse, ma sempre con un unico
scopo: dare una mano alla missione d'occupazione americana. I nostri soldati
girano in pattugliamento con i mitra pronti a sparare o restano chiusi nelle
basi. Ci costano più di 300 milioni di euro solo per la parte militare
della missione. Come Emergency abbiamo tre ospedali che ci costano 6 milioni
di euro, pensa cosa si potrebbe fare con tutto quel danaro. Gli italiani sono
a Kabul anche per motivi «pacifici»: con quel che ne è
della giustizia in Italia stiamo disegnando la nuova giustizia afghana.
Però adesso
le donne possono votare.
Sai come si vota in Afghanistan? Da noi in ospedale c'è stata una gara
tra il personale afghano a chi riusciva a votare più volte. Ha vinto
uno che ha messo nelle urne 17 schede. Il candidato arrivato secondo dopo
Karzai, Qanouni, ora presidente del Parlamento, mi ha raccontato di mazzetti
di 100 schede graffate insieme «per agevolare il conteggio». Le
schede venivano trasportate a Kabul dai seggi di Kandahar dai marines.
Cosa ti aspetti
dal governo dell'Unione?
Che faccia finalmente una scelta costituzionale. L'articolo 11 non lascia
l'arbitrio a nessun politico di decidere se una guerra è buona, cattiva,
giusta, umanitaria. L'Italia rifiuta la guerra punto e basta. Mi aspetto il
ritiro immediato di tutte le missioni, nessuna delle quali rispetta lo Statuto
dell'Onu. Che si smilitarizzi il territorio e la politica, che si abbattano
le spese in armamenti e si investa in istruzione, cultura, sanità.
Sai che in tutto l'Afghanistan, per 25 milioni di abitanti, ci sono solo sei
letti per la rianimazione, quelli di Emergency? In Italia gli operai metalmeccanici
debbono fare scioperi su scioperi per un aumento di 100 euro e poi ne spendiamo
300 milioni per tenere le nostre truppe in Afghanistan a fare la guerra.
Sarebbe da irresponsabili, ci dicono, abbandonare l'Afghanistan.
Sarebbe il caos.
Si rischierebbe il caos? Ma c'è un caos peggiore possibile in un luogo,
che sia Kabul o Nassiriya, in cui un ragazzo si imbottisce d'esplosivo e si
uccide per uccidere altre persone? Finché resterà un solo soldato
straniero in Iraq o in Afghanistan la situazione non potrà che peggiorare.
A Baghdad ci vorranno almeno 30, non per tornare alla normalità o alla
democrazia, ma per tornare ai tempi di Saddam.
_______________________________________________________________________
PROMEMORIA:
"con 50 milioni, la metà
di quelli spesi ogni mese per la guerra in Iraq e Afghanistan, qui si costruiscono
300 ospedali, 5mila scuole e 3mila edifici di servizi sociali per bambini,
orfani e vedove"
Gino Strada parlando con il Ministro della Difesa
Arturo Parisi durante la visita in Afghanistan
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L'ISAF CAMBIA PELLE, I NOSTRI
IN PRIMA LINEA
Stefano Chiarini, Il Manifesto, 30/05/2006
l dispiegamento nel sud dell'Afghanistan «non sarà una missione
senza perdite umane». È questo il parere del generale italiano
Mauro del Vecchio, sino al 4 maggio scorso al comando della Forza Internazionale
di assistenza e sicurezza in Afghanistan (Isaf), che ha appena passato le
consegne al generale britannico David Richards. Dal mese di luglio l'Isaf,
finora responabile della zona di Kabul, del nord e dell'ovest dell'Afghanistan,
parteciperà alle operazioni militari anche nel sud dove sono in corso
le azioni belliche condotte dalle forze americane contro i nuovi talebani
e i loro alleati lungo i confini con il Pakistan nell'ambito della missione
(Usa, senza alcuna copertura Onu) «Enduring Freedom». Per sostenere
la nuova offensiva nel sud del paese il Canada ha già inviato 2.300
soldati nella zona di Kandahar mentre i britannici stanno fecendo lo stesso
nella provincia di Helmand con 3.300 uomini e 1500 militari olandesi si trasferiranno
in quella di Oruzgan. Ai primi di agosto le forze dell'Isaf passeranno così
da circa 9.000 a circa 16.000 soldati.
Negli ultimi nove mesi - il periodo di comando del generale Del Vecchio -
la missione in Afghanistan ha esteso il suo raggio d'azione nelle province
orientali e preparato l'espansione al sud. La più pericolosa perché
con essa si arriverà ad una totale identificazione tra la missione
Isaf teoricamente di «stabilizzazione» e sotto il controllo delle
autorità di Kabul e quella apertamente bellica di «Enduring freedom»
per di più con gli Usa che tendono a mantenere il comando assoluto
delle operazioni e allo stesso tempo a ridurre i propri effettivi ritirandone
(per ora) oltre 3.000 (scendendo da 19.000 a 16.000 uomini) da trasferire
in Iraq. Per la missione Isaf si profila così un'altra débâcle
annunciata. La decisione di espandere ancora più a sud, in piena zona
di combattimento (tra Kandahar e il confine col Pakistan,) l'area di responsabilità
della missione Isaf - sia a livello militare che militare-civile con i famosi
Provincial Reconstruction Team - venne presa nel consiglio Nato dell'8/12/2005
su insistenza degli Usa preoccupati per le difficoltà incontrate in
Iraq.
Le forze italiane sono state protagoniste di questa manovra di allargamento
con la costruzione, tra l'altro, della Base avanzata di Herat da cui dipendono
i quattro Prt del nord-ovest. Ruolo riconosciuto con il conferimento al generale
Umberto Rossi della responsabilità del Comando Regionale Alleato del
nord-ovest. All'Isaf partecipano 36 paesi, tra cui tutti i 26 membri della
Nato, che sino ad oggi hanno fornito oltre 9.094 soldati, soprattutto la Germania
con 2188 soldati e l'Italia con 1850. Le nostre truppe non dovrebbero partecipare
alle operazioni nel sud (che vedranno protagonisti i reparti britannici, canadesi,
australiani, olandesi arrivati per l'occasione) ma su ciò incombono
alcuni interrogativi: la responsabilità collettiva di quanto avverrà
nel sud, il comando britannico in piena sintonia con i progetti Usa, il previsto
invio di sei bombardieri Amx da parte dell'Italia, la possibilità che
Bruxelles chieda a Roma di coprire eventuali mancanze di uomini nel sud e
infine i maggiori rischi da affrontare in tutto il paese. In altri termini
l'espansione al sud si configura come un tragico e disastroso cambiamento
di pelle dell'intervento in Afghanistan.
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LA NATO E' A KABUL MA CHI
HA VISTO IL MANDATO ONU?
Manlio Dinucci, il manifesto, 13 Giugno 2006
«La missione Isaf ha avuto dall'Onu un mandato robusto»: questo
concetto, ribadito dal segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer
nell'intervista al Corriere della Sera (10 giugno), è non solo il cavallo
di battaglia dei sostenitori dell'intervento militare italiano in Afghanistan,
ma un luogo comune diffuso anche tra gli oppositori: si dà per scontato
che esista una «investitura Onu alla missione Nato Isaf». Ma quale
risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato a condurre la missione
Isaf?
La costituzione dell'Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza)
viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza il 20 dicembre 2001. Suo compito
è quello di assistere l'autorità ad interim afghana a Kabul
e dintorni. Secondo l'art.7 della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle
forze armate messe a disposizione da membri dell'Onu per tali missioni deve
essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato
maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio
di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l'Isaf resta fino all'agosto
2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran
Bretagna, Turchia, Germania e Olanda. Ma improvvisamente, l'11 agosto 2003,
la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell'Isaf,
forza con mandato Onu». E' un vero e proprio colpo di mano: nessuna
risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere il comando
dell'Isaf. Anche nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che autorizza l'Isaf
a operare «in aree esterne a Kabul e dintorni», e nelle successive,
la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la missione, da questo momento,
non è più l'Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene
inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta
i generali da mettere a capo dell'Isaf. E poiché il «comandante
supremo alleato» è (per diritto ereditario) sempre un generale
Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del
Pentagono.
Nella stessa catena di comando sono inseriti i mille militari italiani assegnati
all'Isaf, insieme a elicotteri e aerei da trasporto. Ora la Nato chiede all'Italia
di accrescere la sua partecipazione e di inviare anche cacciabombardieri per
estendere l'area di operazioni, nel quadro della decisione (presa al Pentagono)
di aumentare gli effettivi Isaf da 9 a 16mila così che gli Usa possano
ridurre quelli dell'operazione Enduring Freedom (oggi 23mila). Contemporaneamente
l'Italia viene chiamata ad assumersi maggiori compiti anche in questa seconda
operazione sotto comando Usa. Qui ha una partecipazione numericamente minore
(circa 250 uomini), ma non meno significativa. Otto ufficiali italiani sono
già stati integrati nel quartier generale del Comando centrale statunitense
a Tampa (Florida), che ha la responsabilità di Enduring Freedom. Lo
stesso Comando ha deciso di mettere un ammiraglio italiano, dal 28 giugno
alla fine di dicembre, a capo della Task Force 152 che opera nel Golfo persico.
Per consentire «un adeguato periodo di ambientamento» - informa
il Ministero italiano della difesa - la fregata Euro, che sarà affiancata
da altre due unità, è passata sotto il «comando statunitense
imbarcato sulla portaerei Ronald Reagan».
Il coinvolgimento italiano in Afghanistan non si può dunque misurare
solo in termini numerici. Partecipando a questa come ad altre guerre sotto
presunti «mandati Onu», le nostre forze armate vengono inserite
in meccanismi sovranazionali che le sottraggono all'effettivo controllo del
parlamento e dello stesso governo, legando sempre più il nostro paese
al carro da guerra statunitense.
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AFGHANISTAN, LA GRANDE TRUFFA
Ricostruzione. Un business da 15 miliardi di
dollari che rischia di ritorcersi contro Bush e i contingenti stranieri
Ida Rotano, aprileonline.info, n.169 del 25.05.06
Benvenuti nel paese della cuccagna, dove la fanno da padroni affaristi di
ogni genere e false organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Ebbene si,
siamo in Afghanistan, o sarebbe meglio cambiare il nome in “Afghanopoli”.
Qui, da tempo, si svolge una delle più colossali truffe della storia,
tanto più grave perché spacciata per opera di bene e compiuta
sulla pelle di un popolo che è stato prima bombardato e invaso, e ora
viene imbrogliato. Parliamo della ricostruzione post-bellica, un business
da 15 miliardi di dollari in piena fase di espansione. Soldi dei contribuenti
occidentali, che escono dalle casse degli Stati “donatori” (Usa
in testa) per finire in appalti a multinazionali occidentali (soprattutto
statunitensi) “ammanicate” con il potere politico, le quali, invece
di spenderli per ricostruire e aiutare il paese distrutto dalla guerra contro
Osama Bin Laden, se li intascano come profitti o li sprecano in fasulli progetti
ad uso propagandistico e in “spese di gestione”, vale a dire stipendi
stratosferici, alloggi e macchine di lusso.
“Qui in Afghanistan sono in corso sprechi e frodi di dimensioni enormi,
un vero saccheggio condotto soprattutto da imprese private”, dice Jean
Mazurelle, direttrice della Banca Mondiale a Kabul. Non è un caso che
gli Stati Uniti, tramite USAID, siano il più grande donatore, con 3,5
miliardi di dollari. Non è altruismo, ma solo consapevolezza della
convenienza a investire il più possibile in un business che rende molto
sia in termini politici che economici. “La priorità non è
il progresso dell’Afghanistan, ma l’apparenza di questo progresso”,
ammette Peggy O’Ban, portavoce di USAID.
Peacereporter ha raccolto numerose denunce e altrettante prove di quelli
che possono essere definiti, senza timore di smentita, i più chiari
esempi di ladrocini mascherati dietro il paravento dell’aiuto allo sviluppo
e alla ricostruzione.
Fra questi, il fallimento del fondamentale programma di ricostruzione di scuole,
cliniche e strade, affidato (per 665 milioni di dollari) al Louis Berger Group,
azienda del New Jersey vicina all’amministrazione Bush, che per questo
è diventata il primo “contractor” di USAID. Termine di
consegna: fine 2004, data delle elezioni presidenziali afgane che Washington
voleva far vincere ad Hamid Karzai con la carta dei risultati della ricostruzione.
“Era una scadenza politica”, ha dichiarato Marshall F. Perry,
ex direttore del progetto. “Noi eravamo sotto pressione da parte di
USAID, e loro lo erano da parte della Casa Bianca. Il risultato è stato
che il progetto è finito nel caos”.
L’appalto era per 533 scuole e cliniche. Ne sono state consegnate solo
138, perché molte erano progettate sulla carta in zone impossibili:
cimiteri, acquitrini, dirupi e zone sotto controllo talebano. In media queste
strutture sono costate l’esorbitante cifra media di 250 mila dollari
l’una, con punte di 600 mila dollari, come nel caso della scuola “modello”
con 20 classi di Kabul. Nonostante questi costi esorbitanti, le strutture
cadono a pezzi perché costruite con materiali scadenti, su terreni
instabili, senza fondamenta. Tutto in barba alle regole, aggirate con il pagamento
di mazzette alle società (sempre straniere) incaricate di certificare
che i progetti siano a norma (realtà testimoniata in un video in cui
viene pagata una tangente di 50 mila dollari ai controllori della CHF International).
E ancora, la scuola di Moqor, tra le montagne della provincia di Ganzi, è
chiusa per il crollo del tetto che ha ceduto sotto il peso della neve: era
un modello di tetto utilizzato solitamente per le costruzioni in California,
dove nevica un po’ meno che sulle cime dell’Hundu Kush. Altre
22 scuole e 67 cliniche hanno avuto lo stesso problema. La clinica “modello”
di Qala-i-Qazi, vicino a Kabul, ha solo quindici mesi di vita ma è
già in rovina: soffitti sfondati dall’umidità e impianto
idraulico completamente fuori uso. La clinica di Larkhabi, nella provincia
settentrionale del Badakshan, è finita ma è chiusa perché
verrà abbattuta per pericolo di crollo, essendo stata costruita su
una frana in una regione altamente sismica. Stessa sorte toccherà alla
clinica “modello” di Kabul, costata 324 mila dollari, ma costruita
in barba alle norme antisismiche.
La strada Sar-e-Pol– Shebergan, costata 15 milioni di dollari, era stata
promessa in campagna elettorale da Karzai. Le centinaia di operai afgani prendevano
90 dollari al mese per lavorare 10 ore al giorno 7 giorni su 7. Alcuni sono
morti sul lavoro. Chi protestava veniva cacciato. Gli ingegneri della Berger
prendevano invece 5 mila dollari al mese. Oggi le elezioni sono passate, ma
lo scempio provocato dalla costruzione della strada è rimasto: canali
di soclo e di irrigazione interrotti dall’asfalto in questa zona piovosa,
hanno provocato allagamenti e crolli delle abitazioni di argilla costruite
nelle vicinanze e distrutto l’agricoltura locale.
Ma non è solo il Louis Berger Group a rimestare nel torbido. Il programma
di sradicamento delle piantagioni di papaveri da oppio era stato appaltato
per 290 milioni di dollari alla compagnia, pure questa texana, DynCorp. L’obiettivo
era distruggere 15 mila ettari di coltivazioni, ma l’impopolarità
dell’operazione ha portato al suo sostanziale blocco per evitare che
lo scontento popolare si ritorcesse contro il governo Karzai e la presenza
straniera. Così, dopo aver distrutto solo 220 ettari in totale (al
prezzo di decine di contadini uccisi dalla polizia impiegata nelle operazioni
di sradicamento), alla fine del 2004 la DynCorp ha provato la strada delle
fumigazioni aeree clandestine, abbandonate dopo aver prodotto malattie tra
i contadini e il bestiame, distruggendo anche orti e piantagioni legali. In
compenso, i 290 milioni di dollari sono finiti negli stipendi ai dipendenti
stranieri della DynCorp (compresi tra gli 8 e 30 mila dollari al mese), nei
loro lussuosi fuoristrada (da 120 mila dollari l’uno) e nei loro principeschi
alloggi a Kabul, con tanto di catering diretto dagli Stati Uniti.
La ricostruzione del settore agricolo è invece stato affidato alla
Chemonics International Inc. al costo di 273 milioni di dollari. I risultati
sono questi: grandi serre all’americana crollate sotto il peso della
neve, silos vuoti perché i contadini non si fidano a metterci dentro
i loro prodotti per paura dei ladri, mercati agricoli deserti perché
i contadini che dovevano usarli sono andati in rovina per colpa della stessa
Chemonics, che aveva consigliato loro di produrre tutti verdure, con l’effetto
di abbattere i prezzi nella regione e far fallire i coltivatori. Ma la vera
“perla” è costituita dai canali d’irrigazione costruiti
nella provincia di Helmand, dove il 90 per cento dei campi sono coltivati
a papavero da oppio: dopo l’intervento della Chemonics, la produzione
d’oppio in Helmand è sensibilmente migliorata.
Dulcis in fundo, i 56 milioni di dollari di “aiuti” americani
all’Afghanistan andati al Rendon Gruop, azienda di Washington strettamente
legata a Bush, incaricata di “promuovere l’immagine del governo
Karzai e degli Stati Uniti sulla stampa afgana”, attraverso bustarelle
pagate ai giornalisti locali perché pubblichino notizie positive e
tralascino quelle negative e critiche.
Ma i soldi spesi meglio rimangono senza dubbio gli 8,3 milioni di dollari
che USAID ha dato a Voice for Humanity, piccola azienda del Kentucky legata
al presidente della commissione parlamentare che approva i bilanci di USAID,
senatore Mitch McConnel, per finanziare la distribuzione nei villaggi afgani
di 65.800 lettori mp3 da 50 dollari l’uno, contenenti messaggi volti
a “promuovere la democrazia” e il sostegno al governo Karzai.
Per la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan
è una grande gallina dalle uova d’oro, un posto dove venire,
dare una mano di vernice su un muro marcio, presentare un conto gonfiato che
nessuno controllerà mai e incassare. Ma gli afgani, che all’inizio
si sono mostrati pazienti e fiduciosi, hanno capito che degli stranieri non
c’è da fidarsi. E hanno cominciato quindi a guardare con occhi
diversi la resistenza armata talebana. Quest’ultima, non a caso, diventa
di giorno in giorno più forte.
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L'ITALIA IN AFGHANISTAN?
UN FALLIMENTO COME IN IRAQ.
Gianni Rufini, Università di York - Post-war Reconstruction and Development
Unit,
il manifesto 03/06/2006
Il rapido degradarsi della situazione afghana ha risvegliato il dibattito
sulla presenza militare in quel paese e un editoriale del 31 maggio su la
Repubblica sposava la tesi che l'intervento in Afghanistan fosse utile e necessario,
al contrario di quanto vorrebbe un non ben identificato «pacifismo»
che riunirebbe - oltre ai veri pacifisti - chiunque abbia dubbi sull'azione
dell'Isaf o sostenga i principi umanitari.
In realtà, non c'è bisogno di essere pacifisti per constatare
il fallimento dell'intervento in Afghanistan: il paese è ridotto alla
disperazione, il livello della violenza e dell'insicurezza è il peggiore
degli ultimi dieci anni, i talebani controllano una bella fetta del territorio
e i warlord (i signori della guerra) e i ministri di Karzai si dividono il
resto, mentre migliaia di milizie private dominano il terreno. Inoltre, la
situazione dei diritti umani è al minimo storico, la condizione femminile
non è migliorata e la produzione di oppio è allo zenit.
Sull'altro versante, gli aiuti ristagnano, i soldi promessi per la ricostruzione
sono arrivati col contagocce e l'azione delle Ong oggi è esposta ad
ogni tipo di rischio. Solo negli ultimi due anni si contano quasi 80 vittime
dichiarate tra gli operatori umanitari, entrati ormai nel mirino dei warlord-ministri,
oltre che in quello dei talebani.
Ma soprattutto, il costosissimo intervento internazionale non ha saputo migliorare
in nessun modo le condizioni di vita degli afghani, stremati da un trentennio
di guerra e disperatamente bisognosi di un po' di benessere. Continuare a
dire che «comunque va meglio di prima», e che gli stessi afgani
preferiscono vivere in questa situazione, significa voler chiudere gli occhi
di fronte alla realtà di un popolo che - paradossalmente - con i talebani
aveva trovato almeno quella sicurezza e quella stabilità che ora rimpiange.
Verità sgradevole, e in qualche modo mostruosa, ma purtroppo sostenuta
anche dagli afgani più evoluti ed occidentalizzati: «Si stava
meglio quando si stava peggio».
Piuttosto, sarebbe utile cercare di capire perché la comunità
internazionale si trovi così disarmata di fronte a questi processi,
incapace di gestire la crisi afghana come quella irachena, commettendo tutti
gli errori di chi si trova al primo giorno di scuola. Eppure oggi sappiamo
come fare, abbiamo tutti gli strumenti per gestire con intelligenza i processi
post-bellici e le crisi croniche di tanti paesi. Purtroppo, molto si deve
al dilettantismo di tanti leader politici, che credono di possedere una chiave
di lettura (la politica, appunto) che può fare a meno degli «specialisti»,
delle esperienze fatte e delle lezioni apprese, e che il rispetto del diritto
internazionale sia un'ingenuità.
Repubblica se la prende poi con Emergency perché, avendo aperto a Kabul
un ospedale in pieno regime talebano, avrebbero inevitabilmente curato anche
«i combattenti di un regime spaventoso». Questo è un errore
gravissimo: chi fa aiuto umanitario non è «buono» ma compie
il proprio dovere di salvare vite in pericolo e alleviare la sofferenza, svolge
un servizio di pubblica utilità in modo imparziale ed equo, senza permettersi
di giudicare chi «meriti» la salvezza e chi no, proprio perché
gli umanitari non ritengono di avere il monopolio della verità o del
Bene. Qui abbiamo a che fare con il minimo della dignità umana e del
vivere sociale: con i diritti umani fondamentali. Sono sicuro che se l'autore
dell'articolo (cui auguro ogni bene) si trovasse in pericolo, non gli farebbe
piacere se, invece di correre a salvarlo, ci si chiedesse se questo sia politicamente
opportuno, se i suoi meriti e demeriti giustifichino un salvataggio, o se
non sia più umanitario tirargli una bomba.
Confondere i principi umanitari con pacifismo o interventismo, come con altre
dottrine politiche, non è solo una distorsione della verità
ma anche una negazione dell'universalità del diritto internazionale,
della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948. E questa colpa, bisogna
dirlo, ricade in parte anche sugli stessi pacifisti.
Infine è vero che in alcuni paesi ormai le organizzazioni umanitarie
sono viste come un'espressione dell'Occidente. In sostanza, del «nemico».
Voler mascherare tante azioni militari da operazioni umanitarie ha avvalorato
questa tesi agli occhi degli afgani e degli iracheni, come degli italiani.
Ad esempio, il lavoro dei Provincial Reconstruction Teams (gruppi misti militari-civili)
in Afghanistan ha provocato una gravissima confusione tra le organizzazioni
d'aiuto e i militari di quella che viene percepita come forza d'occupazione.
Non se ne sono giovati i civili, ormai esposti ad ogni tipo di aggressione
e di ostilità, né i militari, occupati a proteggere con dispiegamento
di autoblindo ed elicotteri l'umile lavoro dei muratori e dei geometri. Forse
è arrivato per tutti, anche per le Ong, il momento di capire che in
certi paesi la ricostruzione va lasciata fare ai diretti interessati. Basta
dar loro le risorse per farlo.
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L'ITALIA NON SIA UN SEMPLICE
STRUMENTO DELLA POLITICA USA
L’appello letto a Montecitorio dalla deputata afgana Malalai
Joya: «La cruda realtà è che gli americani stanno commettendo
oggi lo stesso errore che commisero finanziando i talebani»
Liberazione 1 giugno 2006, Traduzione Simona Castaldi (http://www.malalaijoya.com/joya.jpg)
Cari amici, mi auguro
che le mie parole possano sollecitare il nuovo governo a lavorare sulle linee
guida necessarie per costruire pace, stabilità e democrazia durature
nella mia terra devastata, a partire da un’analisi rigorosa delle questioni
centrali e vitali che sono alla base della tragedia dell’Afghanistan.
Provengo da un paese che ancora brucia tra due fuochi, da una parte ci sono
i criminali fondamentalisti dell’Alleanza del Nord sostenuti dal governo
americano; dall’altra i talebani e i terroristi di Al-Qaida sostenuti
da regimi, partiti e organizzazioni fondamentaliste e antidemocratiche provenienti
da varie parti del mondo. (...)
Come avete potuto apprendere dai mass-media, il 7 maggio scorso sono stata
fisicamente attaccata da alcuni signori della guerra e narcotrafficanti membri
del parlamento per aver denunciato i crimini commessi dall’Alleanza
del Nord. Donne e uomini fondamentalisti presenti in sala, che fino a pochi
giorni fa parlavano e discutevano di democrazia, non hanno potuto sopportare
le mie affermazioni e mi hanno aggredita e picchiata. Alcuni di loro mi hanno
minacciata di morte, qualcuno ha anche gridato contro di me “è
una prostituta, rapitela e violentatela! ”.
Questo singolo episodio
è sufficiente per chiarire la natura della democrazia che gli americani
ci hanno donato. Usa ed alleati hanno sostituito i terroristi misogini talebani
ed i loro fratelli di Al-Qaida con i membri dell’Alleanza del Nord che
sono più efferati ed antidemocratici dei talebani stessi. Non è
un caso che secondo le Nazioni Unite l’Afghanistan si sta avviando a
diventare un narcotraffico proprio a causa del governo dell’Alleanza
del Nord. Oltre alle denunce del New York Times, del Los Angeles Times, del
Washington Post ecc.. persino due ministri afghani hanno ammesso che grandi
narcotrafficanti ricoprono importanti cariche istituzionali.
La mia terra sta affrontando un disastro umanitario peggiore dello tsunami:
700 bambini e 50-70 donne muoiono ogni giorno per mancanza di assistenza sanitaria
e milioni di persone muoiono di fame e di freddo a solo pochi chilometri dal
palazzo presidenziale. Non è necessario immaginare l’entità
della tragedia fuori da Kabul, nelle province rurali.
Tutto questo, come per ironia, accade in un paese che ha ricevuto 12 milioni
di dollari, e che ne riceverà altri 10 milioni secondo quanto stabilito
dalla recente conferenza di Londra. Ma questi fondi andranno a riempire le
tasche dei signori della guerra e contribuiranno a sopprimere la nostra nazione:
in un paese che necessita di maggiori sforzi per la ricostruzione, il 40%
dei lavoratori non sono assunti e la gran parte della popolazione vive in
condizioni di povertà.
I crimini e le atrocità
dei warlords fondamentalisti continuano a perpetrarsi nonostante la presenza
delle truppe americane e della missione Isaf. Uomini armati dell’Alleanza
del Nord hanno recentemente rapito Fatima, una giovane di quattordici anni,
e sua madre, hanno rapito Rahima, di 11 anni, e sua nonna di 60 anni. Il mio
paese è una terra dove la giovane trentenne Amina è stata lapidata
per adulterio, dove Nadja Anjuman è diventata vittima della violenza
di suo marito forte del sostegno della misoginia dei signori della guerra
dell’Alleanza del Nord. Nonostante la presenza a Kabul di seicento unità
Onu per le operazioni di peace-keeping, gli impiegati di organizzazioni non
governative e delle agenzie umanitarie dell’Onu sono rapiti e assassinati
in pieno giorno. La causa all’origine di questi crimini non è
mai stata denunciata. Il governo americano promise che non avrebbe più
ripetuto i suoi errori passati e che non avrebbe più supportato economicamente
e militarmente i fondamentalisti. La cruda realtà è che gli
americani stanno commettendo oggi lo stesso errore che commisero finanziando
i talebani, anzi, il sostegno attuale al fondamentalismo è molto più
generoso del passato. Ha restituito il potere all’Alleanza del Nord
che, rea di aver gettato il paese in una infernale guerra civile dal 1992
al 1996, rappresenta oggi un ostacolo e una seria minaccia alla stabilità
e alla pace.
Kathy Gannon, un’
esperta di Afghanistan, ha giustamente dichiarato che «gli Stati Uniti
non hanno nessun interesse a ristabilire la pace nel paese. Le persone che
hanno assassinato milioni di civili e che controllano il narcotraffico sono
attualmente al potere». (...)
L’Afghanistan è un paese che ha a capo della Corte Suprema di
Giustizia un uomo ignorante e ultraconservatore legato al partito islamico
terrorista di Gulbattin Hekmatyar e di Sayyaf. Nella lista dei terroristi
più ricercati dal governo americano figura anche il nome di Gulbuttin
Hekmatyar, eppure oltre 34 uomini del suo partito politico sono membri del
parlamento afgano. Gli Stati Uniti lavorano con i fondamentalisti filo-americani
e si oppongono ai fondamentalisti che non appoggiano la loro politica.
Le elezioni per i componenti
della Camera Bassa hanno rapprestato un affronto alla democrazia. (...)
Spero che da tutto quello che ho appena condiviso con voi, possiate capire
che il mio paese è ancora in balia dei fondamentalisti. L’unica
differenza rispetto al precedente regime talebano è che questi criminali
godono dell’appoggio americano, che dà loro maggior libertà
di fare quello che desiderano. (...)
Sono convinta che se l’Italia, al pari di qualsiasi altro governo, vuole
aiutare la mia gente e contribuire alla realizzazione di cambiamenti positivi
per il paese, deve necessariamente agire in maniera autonoma piuttosto che
essere strumento degli interessi della politica estera americana.
Dovrebbe cercare di lavorare in sintonia con i desideri e le necessità
del popolo afgano e cessare di fornire qualsiasi tipo di supporto ai signori
della guerra e a tutti quegli elementi reazionari ed ignoranti che detengono
il potere. Solo in questo modo può riconquistare la fiducia infranta
del mio popolo e dimostrare concretamente amicizia e solidarietà al
nostro disperato bisogno di aiuto.
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MESSAGGIO DI RAWA SULLE TRUPPE
STRANIERE IN AFGHANISTAN
da RAWA, 11 maggio 2006
(R.A.W.A. Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, associazione
rivoluzionaria delle donne afgane) RAWA nasce nel 1977. Si E' battuta contro
l'invasione sovietica, contro le violenze dell'Alleanza del Nord e contro
il regime dei Talebani. E' un’associazione che si batte per la pace,
la liberta, la democrazia e i diritti delle donne contro il fondamentalismo
in Afghanistan. www.rawa.org
La questione che riguarda la presenza delle truppe straniere in Afghanistan
non può essere separata dalla presenza degli USA nel nostro paese;
dunque, per comprendere il nostro punto di vista vorremmo spiegare alcune
cose riguardo alla politica degli USA in Afghanistan.
Siamo critiche nei confronti della politica portata avanti dagli USA in Afghanistan
negli ultimi 23 anni, e in particolare di quella dell’ultimo decennio,
soprattutto perché è stato il governo USA, e nessun altro, a
creare, armare e sostenere i gruppi di criminali fondamentalisti e di mercenari
arabi che si sono resi responsabili della terribile tragedia dell’11
settembre.
Dopo l’11 settembre sono iniziati i bombardamenti USA in Afghanistan
ed è stato rovesciato il regime dei taleban, ma questo ha causato la
morte di molti civili.
Il governo USA, nel passato, ha sostenuto tutte le sporche bande di fondamentalisti
che ora sono il principale ostacolo a un processo di pace, libertà
e stabilità in Afghanistan. Zalmay Khalizad, inviato speciale di Bush
in Afghanistan ha dichiarato: “Abbiamo imparato dai nostri errori del
passato e non sosterremo ancora dei fondamentalisti”. Di fatto il governo
USA, nel nostro paese, continua a portare avanti la sua politica sbagliata.
Stanno di nuovo dando fiducia all’Alleanza del Nord, una banda di terroristi
leali al regime iraniano e ad alcuni pericolosi partiti fondamentalisti pakistani.
Oggi è un “segreto conosciuto” il fatto che tutte queste
bande di terroristi islamici, dall’Alleanza del Nord ai taleban e al-Qaeda,
sono creature del governo USA, hanno reso la vita una tortura per la popolazione
afghana e sono diventati una minaccia anche per la popolazione statunitense.
Ora l’Alleanza del Nord, i cui appartenenti sono i più infidi
assassini e violentatori, sta governando il paese sostenuta dagli USA. Sono
peggiori dei taleban e dei terroristi arabi. Oggi tutti i leader dell’Alleanza
del Nord sono al potere, e hanno in mano i posti chiave del governo. Solo
per fare un esempio, Karim Khalili, un rappresentante di Karzai e membro del
partito Whadat, è un leccapiedi del regime iraniano ed è responsabile
di decine di migliaia di omicidi di innocenti. Ismail Khan, Sayyaf, Qanoni,
Abdullah, Rabbani, Mujadidi, Mohaqiq e decine di altri criminali fondamentalisti
sono ora al potere, hanno cambiato il loro aspetto e parlano persino di democrazia
e diritti delle donne! Per sapere quale sia la loro vera natura e quali i
loro crimini passati è sufficiente leggere i rapporti di Human Rights
Watch o di Amnesty International.
La “guerra al terrorismo” ha rovesciato il regime dei taleban
ma non ha rimosso il fondamentalismo religioso, che è la prima causa
delle disperate condizioni delle donne afghane. Gli USA, portando di nuovo
al potere i signori della guerra, hanno rimpiazzato un regime fondamentalista
misogino con un altro e non capiscono che una forza reazionaria può
essere sconfitta solo da una forza differente che prima di tutto deve credere
nella democrazia.
La ragione per cui le cose non sono cambiate per il meglio nel nostro paese
sono queste politiche del governo USA, a sostengo di fondamentalisti. Viviamo
all’ombra di narcotrafficanti e dei peggiori nemici della democrazia
e dei diritti delle donne che hanno ora imparato a parlare di democrazia e
laicità. Molti afghani oggi dicono che al potere ci sono ancora i taleban,
quei taleban che portano pantaloni e cravatta ma hanno la stessa mentalità.
Cari amici, il nostro popolo è stanco di queste politiche e oggi la
maggioranza degli afghani detesta Karzai e i suoi padroni americani.
Dopo questa premessa si può entrare nel merito della questione delle
truppe straniere.
Le truppe straniere sono nel nostro paese solo grazie alla pressione degli
USA sui loro governi. Anche se hanno le migliori intenzioni di aiutare l’Afghanistan,
sono sotto la leadership statunitense e agiscono solo a beneficio delle politiche
degli USA e dei loro interessi politici e strategici. Questa è la ragione
per cui le truppe che appartengono ad altri paesi non hanno una propria identità
e la nostra gente dice che tutte le truppe straniere si trovano nel medesimo
contesto.
Gli afghani considerano il governo USA un amico dei nostri nemici. Gli USA
non sono visti come amici del popolo afghano perché nei tre decenni
passati hanno appoggiato quegli elementi e gruppi all’origine delle
nostre miserie, dei nostri problemi e della distruzione della nostra terra
e purtroppo questa politica viene ancora perseguita. Il governo USA non dice
la verità. L’amministrazione Bush sottolinea che gli USA sono
venuti in Afghanistan per liberare la popolazione e portare la democrazia,
ma questa è una bugia, sono qui per i loro interessi e per portare
avanti la loro guerra con al Qaeda e i taleban in una sorta di guerra “in
famiglia”; stanno punendo i loro figli prediletti di un tempo per aver
disubbidito. La storia degli USA è costellata di invasioni ad altri
paesi che hanno causato solo sofferenze e morte. Ma dobbiamo anche chiarire
che c’è una grossa differenza tra il governo USA e il suo popolo.
Noi di RAWA abbiamo potuto constatare di persona quanto il popolo americano
sia amichevole, umano e compassionevole.
Se le truppe straniere volessero realmente aiutare il popolo afghano e contrapporsi
alle aspirazioni del governo USA, dovrebbero opporsi alla politica a favore
dei fondamentalisti e, prima di tutto, fidarsi della popolazione afghana e
delle forze democratiche presenti nel nostro paese. Non dovrebbero farsi guidare
dalla strategia USA ma avere una la loro linea, molto chiara; solo così
la nostra gente li riconoscerà come amici e li vedrà in modo
diverso da come vede le truppe americane.
Pensiamo che le truppe straniere siano state vittime delle politiche sbagliate
degli USA e siamo realmente dispiaciute nel vedere gli attentati e i morti
tra le file di questi militari; forse sono venuti con l’intento di aiutare
il popolo afghano, ma, a causa delle ragioni esposte sopra, il risultato dei
loro sforzi non è stato percepito dagli afghani.
Qualsiasi governo voglia giocare un ruolo positivo nell’aiutare l’Afghanistan
deve agire in modo indipendente dalle politiche USA e dimostrare alla popolazione
afghana di essere contro i taleban e al Qaeda ma anche contro i leader dell’Alleanza
del Nord, che hanno commesso crimini indicibili ai danni della nostra nazione.
I veri amici del popolo afghano si devono opporre sia ai terroristi ora vicini
agli USA (Alleanza del Nord) sia a quelli che li osteggiano (taleban).
Pensiamo che nessuno stato possa portare libertà e democrazia a un
altro stato; però un altro stato può aiutare un popolo a combattere
contro i suoi nemici. Gli USA hanno sostenuto gli sporchi e potenti signori
della guerra, coloro che hanno minacciato la stabilità del nostro paese;
se gli USA smettessero di appoggiarli, questi criminali non sarebbero in grado
di imporre la loro mentalità fascista al nostro popolo.
Se le truppe straniere fossero qui per loro iniziativa e non sottomesse ai
voleri degli USA, certamente sentirebbero l’appoggio e la simpatia degli
afghani; purtroppo, oggi, sono trattate come le forze USA e la maggior parte
della gente non vede differenze tra le truppe di diversi paesi presenti in
Afghanistan, perché non hanno fatto nulla di tangibile per far sì
che la gente li tratti in modo differente.
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