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Articoli
PERCHE' ANDARE VIA
Repubblica e Corriere si schierano contro il ritiro. Con argomenti confutabili
Enrico Piovesana - 01.6.2006
CARA KABUL, QUANTO COSTI ALL'ITALIA
Emanuele Giordana, Lettera 22, ilmaniesto 11.05.06
IL GENERALE CHE GUIDO LA KFOR: "IN AFGHANISTAN C'E' LA GUERRA"
Enrico Piovesana, www.peacereporter.net, 22.06.06
GINO STRADA: KABUL, E' GUERRA. VIA LE TRUPPE
Il fondatore di Emergency Gino Strada racconta l'Afghanistan sotto occupazione e chiede il ritiro
Loris Campetti Il Manifesto, 10 maggio 2006
L'ISAF CAMBIA PELLE, I NOSTRI IN PRIMA LINEA
Stefano Chiarini, Il Manifesto, 30/05/2006
LA NATO E' A KABUL MA CHI HA VISTO IL MANDATO ONU?
Manlio Dinucci, il manifesto, 13 Giugno 2006
AFGHANISTAN, LA GRANDE TRUFFA
Ricostruzione. Un business da 15 miliardi di dollari che rischia di ritorcersi contro Bush e i contingenti stranieri
Ida Rotano, aprileonline.info, n.169 del 25.05.06
L'ITALIA IN AFGHANISTAN? UN FALLIMENTO COME IN IRAQ.
Gianni Rufini, Università di York - Post-war Reconstruction and Development Unit,
il manifesto 03/06/2006
L'ITALIA NON SIA UN SEMPLICE STRUMENTO DELLA POLITICA USA
L’appello letto a Montecitorio dalla deputata afgana Malalai Joya: «La cruda realtà è che gli americani stanno commettendo oggi lo stesso errore che commisero finanziando i talebani»
Liberazione 1 giugno 2006, Traduzione Simona Castaldi )
MESSAGGIO DI RAWA SULLE TRUPPE STRANIERE IN AFGHANISTAN
da RAWA, 11 maggio 2006
   
 
   
 

AFGHNISTAN: PERCHE' ANDARE VIA
Repubblica e Corriere si schierano contro il ritiro. Con argomenti confutabili
Enrico Piovesana - 01.6.2006

Gli editoriali di prima pagina di ieri su Repubblica e Corriere della Sera hanno ufficialmente dato il via alla campagna stampa contro il ritiro dell’Italia dalla guerra in corso in Afghanistan. Con argomenti diversi che ben sintetizzano, nella discussione sul ruolo italiano in Afghanistan, l'opinione di chi vuole lasciare le truppe italiane in quel paese, o addirittura aumentarne la presenza. Argomenti diversi, dicevamo, ma entrambi confutabili.

Guido Rampoldi, su Repubblica. “Oggi quel pacifismo invoca il rimpatrio del contingente italiano dall´Afghanistan: ma evita di chiedersi cosa accadrebbe laggiù se la Nato fuggisse. Accadrebbe questo: naufragherebbe la possibilità di sottrarre gli afgani alla guerra civile cominciata oltre trent´anni fa. Dilagherebbe ovunque una mischia furibonda, combattuta dai pesi massimi dell´area attraverso le milizie afgane, un "tutti contro tutti" che provocherebbe dapprima il collasso definitivo del Paese e d´ogni minima traccia di statualità, quindi l´ennesimo sterminio per fame di decine o centinaia di migliaia di afgani, soprattutto donne e bambini. Infine al-Qaeda tornerebbe ad essere padrona di gran parte dell´Afganistan; e l´avvento definitivo della casta guerriera, assassini molto pii, comporterebbe per le ragazze di Kabul la fine d´ogni speranza”.

Franco Venturini, sul Corriere della Sera. “Andarsene dall'Afghanistan? No, perché, a dispetto dei rischi comuni, Afghanistan e Iraq, lungi dall'essere simili, rappresentano le due concezioni opposte della politica internazionale e del ricorso alla forza. (...) L'intervento in Afghanistan, all'indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, è cosa del tutto diversa. Le motivazioni furono veritiere (perché in Afghanistan i terroristi c’erano, a differenza delle armi di distruzione di massa in Iraq). Al posto dell’unilateralismo preventivo di Bush si formò una coalizione che comprendeva anche Paesi islamici. E il pur contorto via libera dell’Onu (risoluzione 1386) arrivò prima, non dopo la guerra. (…) La missione in Afghanistan, lasciata a metà dagli Usa per volgersi contro Baghdad, risulta ancora oggi incompiuta con Bin Laden libero e attivo. Tanto più che in Afghanistan è presente quella comunità internazionale alla quale vogliamo appartenere (Francia, Germania, Spagna) e un ritiro unilaterale comporterebbe per l’Italia una frattura strategica ben più grave e onerosa di quella che si produrrà con il rientro dall’Iraq”.

E’ la presenza delle truppe che crea instabilità. Senza le truppe straniere l’Afghanistan precipiterebbe nel caos, scrive Rampoldi. Peccato che nel caos l’Afghanistan ci sia già oggi, nonostante la presenza delle truppe straniere, e anche a causa della loro presenza. Quattro anni di occupazione militare straniera (Usa e Isaf) non sono serviti a rafforzare l’autorità del governo di Karzai, che non si è mai estesa al di fuori di Kabul e dei principali capoluoghi di provincia. Nel resto del Paese hanno continuato a comandare e a imperversare i signori della guerra e dell’oppio, e le condizioni di vita della popolazione non hanno conosciuto miglioramenti. Anche per colpa di una ricostruzione inesistente, di cui hanno beneficiato solo le aziende appaltatrici statunitensi e i corrotti politici del governo Karzai.
Nel sud i talebani, fuggiti ma mai sconfitti, sono tornati dal Pakistan e hanno ripreso il controllo delle aree extraurbane delle province di Kandahar, Helmand, Uruzgan, Zabul e Kunar, lanciando un’offensiva contro le truppe straniere e governative che ha causato 6.500 morti in quattro anni (1.300 solo negli ultimi 5 mesi), con centinaia di civili afgani uccisi nei bombardamenti aerei Usa (una trentina solo lo scorso 22 maggio nel bombardamento di un villaggio vicino a Kandahar).
Questi massacri di innocenti, le violenze e gli abusi delle truppe Usa nel corso dei rastrellamenti dei villaggi, le torture nelle Abu Ghraib afgane dei carceri militari di Bagram e Kandahar, il generale atteggiamento aggressivo e sprezzante delle truppe Usa nei confronti della popolazione: tutto ciò ha fatto montare negli afgani, alcuni di loro inizialmente abbastanza ben disposti verso la presenza militare straniera, un risentimento sempre maggiore nei confronti delle truppe d’occupazione e il governo Karzai. La rivolta di Kabul dell’altro giorno è stata una dimostrazione eclatante. Questo montante odio popolare non fa distinzione tra soldati Usa o di altri paesi Nato: per gli afgani non c’è differenza tra un marines e un alpino, e le colpe dei primi ricadono sui secondi in maniera del tutto automatica. Per la stragrande maggioranza degli afgani – che conoscono a mala pena la geografia del proprio Paese – italiani, inglesi, tedeschi, spagnoli, europei, americani sono la stessa cosa: “stranieri”. Stranieri di cui non si fidano più, stranieri di cui hanno le tasche piene.
Come le hanno del governo cosiddetto “democratico” di Karzai, in cui all’inizio molti hanno sinceramente creduto, ma che ormai considerano un traditore, un fantoccio degli stranieri, un potere lontanissimo dai bisogni della gente. In questa situazione di frustrazione, rabbia e disillusione, è comprensibile che la società afgana torni a guardare con speranza ai talebani e al loro movimento armato, che trova un terreno di propaganda e proselitismo sempre più fertile e un sostegno popolare sempre più forte. E’ vero che l’Afghanistan rischia di esplodere e di tornare in mano ai talebani, ma proprio grazie al catalizzatore della presenza militare straniera.

La legalità della missione è tutt’altro che scontata. La missione Italiana in Afghanistan è legittima, contrariamente a quella in Iraq, scrive Venturini. Peccato che, se si guarda alla storia di questa missione, emerga chiaramente non solo l’ambiguità della sua originaria legittimità internazionale, ma soprattutto i metodi antidemocratici con cui il governo italiano ha portato – e mantenuto per oltre quattro anni – l’Italia in guerra: violando la Costituzione italiana, violando la condizione alla quale il Parlamento aveva votato la partecipazione alla guerra, ampliando il coinvolgimento militare italiano facendolo passare con stratagemmi legali tutt’altro che trasparenti, evitando ogni dibattito sul cambiamento della natura della missione Isaf, sulle nuove regole d’ingaggio, sulla decisione di inviare aerei caccia-bombardieri.
In violazione all’articolo 11 della Costituzione repubblicana con cui l’Italia “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, il nostro Paese è entrato in guerra in Afghanistan il 7 novembre 2001, con l’approvazione bipartisan (esclusi solo Pdci, Prc e Verdi) di una risoluzione parlamentare
che autorizzava la partecipazione italiana all’operazione bellica Usa Enduring Freedom – a sua volta ‘legittimata’ dalla vaghissima risoluzione Onu n. 1368 del 12 settembre 2001 che, senza nemmeno citare l’Afghanistan, autorizza a “combattere con tutti i mezzi la minaccia del terrorismo” facendo riferimento al “diritto di autodifesa individuale o collettivo” stabilito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Il Parlamento approvò quella risoluzione a un patto: “impegnando il Governo a riferire tempestivamente al Parlamento circa gli sviluppi significativi degli eventi, nonché a sottoporre ad esso eventuali nuove decisioni che si rendessero necessarie nel prosieguo del conflitto”. Cosa che non è mai accaduta.
Il 20 dicembre 2001, la risoluzione Onu n. 1386 dà vita – ex Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – alla missione di stabilizzazione Isaf (International Security Assistance Force), cui l’Italia aderisce automaticamente, formalizzando la sua partecipazione il 10 gennaio 2002, con la firma a Londra, assieme ad altre 15 nazioni, di un Memorandum of Understanding. L’unico passaggio parlamentare riguardante la missione Isaf avviene il 27 febbraio 2002, con l’approvazione della “legge n. 15/2002 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 451, recante disposizioni urgenti per la proroga della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali”. La “modificazione” riguarda l’inserimento nel testo del decreto di un riferimento alla missione ISAF “connessa a Enduring Freedom”.
Con lo stesso discutibile sistema delle “modificazioni” aggiunte nelle leggi di conversione di decreti-legge, il Parlamento ha approvato a posteriori la partecipazione dell’Italia a altre due missioni di guerra della Nato “connesse a Enduring Freedom” e iniziate il 21 ottobre 2001 con l’applicazione – per la prima volta nella storia Nato – dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Nord-Atlantica che stabilisce che ogni attacco a uno stato membro è da considerarsi un attacco all'intera alleanza. L’11 agosto 2003 (legge n. 231/2003 ) viene approvata la partecipazione alla missione Active Endeavour, e il 12 marzo 2004 (legge n. 68/2004) quella alla missione Resolute Behaviour, entrambe e svolte da unità navali, rispettivamente, nel Mediterraneo orientale e nel Mare Arabico.
Nell’agosto 2003, la missione Isaf passa sotto comando Nato, ovvero di un’alleanza militare formalmente in guerra con l’Afghanistan. Pochi mesi dopo, il 13 ottobre 2003, la risoluzione Onu n. 1510
stabilisce l’espansione della missione Isaf dalla sola Kabul a tutto il territorio nazionale afgano, prevedendo una progressiva espansione anche nelle zone meridionali e orientali dove le forze Usa continuano a combattere la resistenza talebana. Questa decisione è legata allo scoppio della guerra in Iraq, dove le forze Usa sono così impegnate da doversi disimpegnare dal fronte afgano, che viene ‘passato in consegna’ agli alleati della Nato, proprio nel momento in cui la resistenza talebana torna a farsi sentire con maggior violenza. Dopo un 2004 relativamente tranquillo (700 morti), il 2005 registra una drammatica escalation dei combattimenti con oltre 2 mila morti. Questo preoccupante cambiamento della situazione, proprio alla vigilia della “fase 3” di espansione della missione Isaf nel turbolento sud del Paese (prevista per la primavera 2006), impone alla Nato l’esigenza di “irrobustire” le regole d’ingaggio dei militari impegnati nella missione, che di fatto muta la sua natura da missione di pace a missione di guerra. Tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006 questo delicato argomento genera polemiche e accesi dibattiti, anche parlamentari, in tutti i Paesi europei. Non in Italia, dove il 23 febbraio 2006 il governo Berlusconi, pur di non affrontare un dibattito in aula sulla mutata natura della missione dei nostri 2 mila soldati impegnati in Afghanistan (e sul progetto di invio di sei caccia-bombardieri Amx dell’Aeronautica Militare), decide di inserire l’autorizzazione al rifinanziamento delle missioni afgane Isaf e Enduring Freedom nel maxiemendamento (legge n. 51/2006) alla Finanziaria del dicembre 2005, imponendo la fiducia e approvandola con i soli voti della maggioranza. La legge autorizza fino al 30 giugno 2006 la spesa di 13.437.521 di euro per la proroga di Enduring Freedom, Active Endeavour, Resolute Behaviour e quella di 148.935.976 per la partecipazione all'Isaf. Più altri 3.349.403 per le “piccole spese”. In totale 165.722.851 per sei mesi. Il che significa, in prospettiva, una spesa di oltre 320 milioni di euro l’anno: soldi nostri, che potrebbero essere destinati a scopi ben più utili, sia in Afghanistan che qui in Italia.

Per un dibattito politico onesto sulla missione in Afghanistan. Gli italiani hanno il diritto di scegliere se continuare o meno a spendere i propri soldi e a mandare a morire i propri figli per una missione di pace in un paese in guerra, una missione sempre più pericolosa e avversata dalla popolazione locale, all’unico scopo – qui Venturini è stato onesto – di evitare una “frattura strategica” con gli alleati della Nato, Stati Uniti in testa. L’Afghanistan ha bisogno di ospedali, scuole, strade e pozzi, non di blindati, fucili, elicotteri e caccia-bombardieri.

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CARA KABUL, QUANTO COSTI ALL'ITALIA
Si parla tanto di Iraq, ma per i 2 mila militari in Afghanistan spendiamo oltre 320 milioni di euro l'anno, otto volte in più che per la Bosnia. E ora il nuovo parlamento dovrà rifinanziare la missione
Emanuele Giordana, Lettera 22, ilmaniesto 11.05.06

Grandi polemiche e spesso una gran confusione sul loro ruolo hanno in più di un'occasione accompagnato le nostre missioni all'estero, definite per decreto «di pace e di aiuto umanitario». Anche la nostra partecipazione
all'International security assistance force (Isaf), a Enduring freedom e alle missioni Active endeavour e Resolute behaviour a essa collegate resta una nebulosa su cui il nuovo governo, così come su Antica o Nuova Babilonia, sarà chiamato a rispondere.

Tanto per cominciare, quanto costa la missione che vede impegnati in Afghanistan 1.850 militari? Molto, oltre 320 milioni di euro all'anno. E se non è la «voragine» mesopotamica, come una recente inchiesta dell'Espresso ha appena definito l'Iraq, è di gran lunga la più costosa delle nostre numerose missioni all'estero. Se per la proroga sino al 30 giugno 2006 della «partecipazione di personale militare alla missione dell'Unione europea in Bosnia-Erzegovina» la spesa sarà di poco superiore ai 21.285.597, come si legge nella Finanziaria di quest'anno, per l'Afghanistan ce ne vorranno otto volte di più. Escludendo l'Iraq, l'Afghanistan da solo assorbe assai più della metà del totale delle spese per le nostre missioni fuori dal suolo patrio. Oltre 160 milioni di euro per sei mesi, contro i circa 120 di tutte le altre.

E' una storia che pesa sul bilancio dal 2002. Il penultimo finanziamento fu deciso nel luglio del 2005, quando il parlamento convertì in legge il decreto di giugno con le disposizioni urgenti per la partecipazione italiana a missioni internazionali. Vi si leggeva che il decreto assicura «la partecipazione italiana alle missioni internazionali di pace e di aiuto umanitario» autorizzando, fino alla fine del 2005, la spesa di 16.235.103 di euro per la partecipazione alla missione multinazionale Enduring Freedom (contrastare il terrorismo in Afghanistan e favorire la stabilizzazione del Paese) e alle missioni Active Endeavour e Resolute Behaviour (svolte da unità navali con compiti di vigilanza, rispettivamente, nel Mediterraneo orientale e nel Mare Arabico). La parte del leone toccava all'Isaf con una spesa di 138.262.283 milioni di euro mentre tutte le altre missioni all'estero, dalla Bosnia al Congo, ne ricevevano 126.285.892. Euro più euro meno, e senza contare l'Iraq, esse costano, nel complesso, 600 milioni di euro l'anno. LA metà vanno all'Afghanistan.

L'arida contabilità dei nostri militari all'estero ci porta alla Legge 23 febbraio 2006 n. 51, ossia la conversione in legge «con modificazioni» della Finanziaria del dicembre 2005, meglio nota come maxiemendamento. Il governo, allora in affanno tra conti e campagna elettorale ormai già iniziata, pose la fiducia e approvò infine la legge in febbraio coi soli voti della maggioranza. «Un fatto - ricorda il senatore Francesco Martone (Prc) - che, tra l'altro, impedì una discussione parlamentare aperta sulla nostra missione in Afghanistan». Essendo l'Iraq, madre di tutte le missioni, sempre il primo pensiero, l'Afghanistan è finito per passare un po' in seconda linea. Fino ai primi morti in un'azione di guerra (seguiti ad alcuni attentati) alcuni giorni fa. La legge autorizza fino al 30 giugno 2006 la spesa di 13.437.521 di euro per la proroga di Enduring Freedom, Active Endeavour, Resolute Behaviour e quella di 148.935.976 per la partecipazione all'Isaf. Più altri 3.349.403 per le piccole spese. In totale 165.722.851 per sei mesi.

Secondo Martone la mancata discussione della missione fece passare sotto silenzio che un po' di cose erano cambiate: «Ci sono almeno tre punti in sospeso, e riguardano il cambiamento delle regole d'ingaggio in corso d'opera, il dibattito in sede europea e la dislocazione fisica della missione che di fatto è uscita da Kabul ed Herat. La discussione sulla fusione di fatto tra Enduring Freedom e Isaf non è mai stata considerata, mentre sollevava polemiche in Francia e Germania. Senza contare la questione dell'invio di forze di combattimento britanniche nel Sud o, per un altro verso, la sostituzione dei nostri caccia F16 con sei Amx che, in teoria, dovrebbero servire a sorvolare i campi di papavero. Di fatto potrebbero essere mezzi dissuasivi o di supporto tattico». Il senatore sottolinea come tutto ciò richieda, d'accordo o meno che si sia sulla missione, una discussione sui contenuti cui il parlamento non può sottrarsi.

La scadenza, inevitabilmente, è l'inizio dell'estate, quando il nuovo parlamento dovrà decidere il rifinanziamento delle spese. Che dovrà fare i conti anche col capitolo indennità sugli stipendi (giustamente riconosciuta a chi rischia la pelle all'estero), un'altra voce che, seppur indirettamente, gonfia la spesa totale delle nostre scelte di politica estera e va a incidere su altre voci del bilancio statale.

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IL GENERALE CHE GUIDO LA KFOR: "IN AFGHANISTAN C'E' LA GUERRA"
Enrico Piovesana, www.peacereporter.net, 22.06.06

La situazione in Afghanistan peggiora di giorno in giorno. Gli Usa e la Nato, che guida la missione Isaf, chiedono a tutti gli alleati un maggiore contributo militare. All'Italia, nello specifico, il segretario generale dell'Alleanza Atlantica Jaap de Hoop Scheffer ha chiesto un incremento del nostro contingente (attualmente di circa 1.300 uomini). Il governo italiano sta ora valutando l'invio di sei cacciabombardieri Amx, di elicotteri da combattimento e di un contingente di forze speciali. Il generale Fabio Mini è stato comandante della missione Kfor in Kosovo.

Generale Mini, non le pare che simili mezzi e forze siano poco compatibili con una missione "di pace"?
Il problema dell'ampliamento della missione Isaf-Nato, e quindi anche della partecipazione italiana, è di carattere giuridico prima che operativo. In quanto tale, esso diventa istituzionale e non può essere lasciato alla sola valutazione tecnico-militare. Il problema nasce dall'inserimento di Isaf in un contesto artificiosamente dichiarato post-bellico e dalla sottovalutazione della capacità dei guerriglieri talebani di costituire un'aperta minaccia nei riguardi delle forze Usa, del governo di Kabul e di chiunque lo appoggi.
Quindi secondo lei, generale, non è vero che la guerra in Afghanistan è finita, come tutti continuano a dire?
La guerra contro i talebani, parte essenziale di Enduring Freedom, non è mai finita. Gli Stati Uniti hanno ridotto le forze e altre nazioni hanno dato un modesto contributo, ma la guerra si è spostata laddove si spostavano i resti del precedente regime afgano. Queste forze si sono riorganizzate e, con l'aiuto esterno, stanno destabilizzando vaste aree del paese. Nessuno ha dichiarato la fine delle ostilità con i talebani. E' stata anche scartata l'idea di convocare i talebani a un tavolo della pace e imporre le condizioni dei vincitori perché così facendo si sarebbe riconosciuta la legittimità internazionale del loro governo, che non era stato riconosciuto dalle Nazioni uUnite, ma che era stato interlocutore ufficiale di tutti e perfino degli Stati uniti. Né nessuno ha pensato a trascinare ciò che restava della dirigenza talebana sconfitta davanti ad un tribunale internazionale. L'operazione Enduring Freedom, la guerra contro i talebani, continua ed è stata inserita nel quadro più vasto della «guerra al terrore». Il che significa che è destinata a durare ancora a lungo.
Una guerra che gli Stati uniti, impegnati altrove, vogliono lasciar combattere agli alleati Nato, Italia compresa, che però sono in Afghanistan nell'ambito di una missione che non è di guerra. Se la missione Isaf della Nato «eredita» la guerra Enduring Freedom degli Usa non si crea un cortocircuito, una sovrapposizione poco chiara tra due missioni diverse?
Oggi, le forze di Enduring Freedom non sono oggettivamente sufficienti a controllare militarmente il territorio minacciato, ed è per questo che gli Stati uniti hanno chiesto alla Nato un maggior coinvolgimento. Ma per giustificarlo, non si è chiesto di partecipare alla guerra e ampliare Enduring Freedom. Si è preferito rimanere ancorati al criterio iniziale di Isaf, ovvero al quadro di una missione che - come dice il suo stesso nome - è di assistenza al mantenimento della sicurezza in appoggio al governo di Kabul. Il progetto di Isaf, inizialmente concentrato solo nella capitale afghana, prevedeva che, mano a mano che l'autorità del nuovo governo veniva riconosciuta e che veniva negoziato lo scioglimento delle milizie personali dei signori della guerra locali, le forze di sicurezza afgane avrebbero progressivamente esteso il proprio controllo ad altri territori, con il sostegno di Isaf laddove necessario.
Quindi lo scopo originario della missione Isaf era solo quello di sostenere la graduale espansione dell'autorità del nuovo governo di Kabul nelle zone già «pacificate» dalla missione Enduring Freedom. Ma nella realtà non è questo che sta accadendo: Isaf si sta sostituendo a Enduring Freedom nella fase di «pacificazione» di un territorio. Non è così?
Le zone prescelte per l'ampliamento di Isaf, ovvero il sud dell'Afghanistan, non sono quelle pacificate da Enduring Freedom, ma anzi proprio quelle in cui la guerra contro i talebani continua con vere e proprie offensive militari, seppur di carattere asimmetrico. Chi assume la responsabilità della sicurezza in queste aree si deve predisporre per fare due cose: la guerra contro i talebani, al posto o al fianco degli Usa, o la repressione di una rivolta armata interna, al fianco o al posto del governo afghano - un governo che molti degli stessi signori della guerra che ne fanno parte considerano ininfluente, che molti ribelli considerano illegittimo e che i talebani considerano d'usurpazione.
Ma se Isaf è diventata una missione di guerra «ereditando» di fatto le funzioni di Enduring Freedom - il che spiega la necessità di mandare cacciabombardieri e forze speciali - non lo si dovrebbe dire chiaramente? Non ci dovrebbe essere una seria e franca discussione sul mutamento del mandato Isaf?
Il fatto che i contingenti Isaf dovranno farsi carico della guerra ai talebani, per conto di Washington o di Kabul, impone senza dubbio la necessità di un esame serio della situazione e lo scioglimento dei nodi giuridici. Non ci sono dubbi che in ambito Nato e in Italia ciò si possa fare serenamente. Se si decide per l'opzione militare, il vero impegno istituzionale diventa quello di calibrare lo strumento militare da costituire e le regole d'ingaggio in relazione alla reale situazione e a un nuovo mandato. La cosa peggiore che possa succedere è che si assumano nuovi impegni e nuovi rischi mantenendo i vecchi criteri d'impiego e le ipocrisie di sempre: fingendo che la situazione sia «normale», ignorando o negando l'evidenza della sovrapposizione di Isaf a Enduring Freedom, spacciando per ricognitori di campi d'oppio dei cacciabombardieri e per missionari di pace degli incursori e sabotatori superaddestrati all'infiltrazione in territorio ostile e alla guerra asimmetrica.

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GINO STRADA: KABUL, E' GUERRA. VIA LE TRUPPE
Il fondatore di Emergency Gino Strada racconta l'Afghanistan sotto occupazione e chiede il ritiro
Loris Campetti Il Manifesto, 10 maggio 2006

«A quei politici che oggi piangono per i nostri soldati morti a Kabul o a Nassiriya vorrei dire che si sarebbero risparmiati le lacrime se non avessero venduto quei ragazzi per un atto di servilismo all'amico George». Non fa sconti a nessuno, Gino Strada. Il fondatore di Emergency conosce bene l'Afghanistan. Non perché sia uno studioso di geografia ma perché da anni e anni - da guerre e guerre - opera come chirurgo in quel martoriato paese, sempre schierato da una parte sola: la popolazione civile, le vittime della guerra.

Forse siamo noi che non vogliamo capire. Forse è vero che noi siamo in Afghanistan con una missione di pace.
Queste sono le cretinate che dicono i potenti della terra e i loro cocchieri. Da più di trent'anni continua la guerra in Afghanistan che ha attraversato molte fasi e molte occupazioni, dai russi ai sauditi, dagli americani agli italiani tutti hanno giocato le loro carte sulla pelle del popolo afghano. Ora siamo in presenza di una nuova occupazione di un paese che come tutti gli altri paesi non sopporta occupazioni militari straniere. La prima avvenne, se non ricordo male, nel 1804 a opera di Pietro il Grande, per proseguire con le tre guerre inglesi. Quando un afghano vede passare un militare straniero non si chiede se è lì sotto l'egida dell'Onu, sa solo che è pronto a bombardare una casa con dentro vecchi donne e bambini perché forse lì abita l'amico di un talebano.

L'Afghanistan è cambiato, ci dicono, sta risorgendo dopo l'arrivo dell'esercito del bene.
Fuori Kabul non è cambiato nulla, anzi si rafforza la presenza non so dire se dei talebani o dei pashtun in tutto il paese. Certo, Kabul è molto cambiata. E' diventata una città più violenta, la criminalità comune è alle stelle. Non abbiamo mai curato nei nostri ospedali tanti accoltellati come ora. I prezzi delle case sono decuplicati, il costo della vita quintuplicato. L'inquinamento in città è tale che la gente gira con la mascherina come i medici in reparto. Poi, è scoppiata una guerra nascosta: ogni giorno una media di cinque bambini finisce sotto i mezzi militari. Per la prima volta, a Kabul, fa la sua comparsa la prostituzione.

Come a Belgrado dopo la guerra umanitaria.
La prostituzione è un corredo lasciato da ogni guerra.

Cosa fanno a Kabul le nostre truppe, e quanto ci costano?
In quasi 5 anni hanno operato sotto sigle diverse, ma sempre con un unico scopo: dare una mano alla missione d'occupazione americana. I nostri soldati girano in pattugliamento con i mitra pronti a sparare o restano chiusi nelle basi. Ci costano più di 300 milioni di euro solo per la parte militare della missione. Come Emergency abbiamo tre ospedali che ci costano 6 milioni di euro, pensa cosa si potrebbe fare con tutto quel danaro. Gli italiani sono a Kabul anche per motivi «pacifici»: con quel che ne è della giustizia in Italia stiamo disegnando la nuova giustizia afghana.

Però adesso le donne possono votare.
Sai come si vota in Afghanistan? Da noi in ospedale c'è stata una gara tra il personale afghano a chi riusciva a votare più volte. Ha vinto uno che ha messo nelle urne 17 schede. Il candidato arrivato secondo dopo Karzai, Qanouni, ora presidente del Parlamento, mi ha raccontato di mazzetti di 100 schede graffate insieme «per agevolare il conteggio». Le schede venivano trasportate a Kabul dai seggi di Kandahar dai marines.

Cosa ti aspetti dal governo dell'Unione?
Che faccia finalmente una scelta costituzionale. L'articolo 11 non lascia l'arbitrio a nessun politico di decidere se una guerra è buona, cattiva, giusta, umanitaria. L'Italia rifiuta la guerra punto e basta. Mi aspetto il ritiro immediato di tutte le missioni, nessuna delle quali rispetta lo Statuto dell'Onu. Che si smilitarizzi il territorio e la politica, che si abbattano le spese in armamenti e si investa in istruzione, cultura, sanità. Sai che in tutto l'Afghanistan, per 25 milioni di abitanti, ci sono solo sei letti per la rianimazione, quelli di Emergency? In Italia gli operai metalmeccanici debbono fare scioperi su scioperi per un aumento di 100 euro e poi ne spendiamo 300 milioni per tenere le nostre truppe in Afghanistan a fare la guerra.
Sarebbe da irresponsabili, ci dicono, abbandonare l'Afghanistan.

Sarebbe il caos.
Si rischierebbe il caos? Ma c'è un caos peggiore possibile in un luogo, che sia Kabul o Nassiriya, in cui un ragazzo si imbottisce d'esplosivo e si uccide per uccidere altre persone? Finché resterà un solo soldato straniero in Iraq o in Afghanistan la situazione non potrà che peggiorare. A Baghdad ci vorranno almeno 30, non per tornare alla normalità o alla democrazia, ma per tornare ai tempi di Saddam.

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PROMEMORIA:
"con 50 milioni, la metà di quelli spesi ogni mese per la guerra in Iraq e Afghanistan, qui si costruiscono 300 ospedali, 5mila scuole e 3mila edifici di servizi sociali per bambini, orfani e vedove"
Gino Strada parlando con il Ministro della Difesa Arturo Parisi durante la visita in Afghanistan

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L'ISAF CAMBIA PELLE, I NOSTRI IN PRIMA LINEA
Stefano Chiarini, Il Manifesto, 30/05/2006

l dispiegamento nel sud dell'Afghanistan «non sarà una missione senza perdite umane». È questo il parere del generale italiano Mauro del Vecchio, sino al 4 maggio scorso al comando della Forza Internazionale di assistenza e sicurezza in Afghanistan (Isaf), che ha appena passato le consegne al generale britannico David Richards. Dal mese di luglio l'Isaf, finora responabile della zona di Kabul, del nord e dell'ovest dell'Afghanistan, parteciperà alle operazioni militari anche nel sud dove sono in corso le azioni belliche condotte dalle forze americane contro i nuovi talebani e i loro alleati lungo i confini con il Pakistan nell'ambito della missione (Usa, senza alcuna copertura Onu) «Enduring Freedom». Per sostenere la nuova offensiva nel sud del paese il Canada ha già inviato 2.300 soldati nella zona di Kandahar mentre i britannici stanno fecendo lo stesso nella provincia di Helmand con 3.300 uomini e 1500 militari olandesi si trasferiranno in quella di Oruzgan. Ai primi di agosto le forze dell'Isaf passeranno così da circa 9.000 a circa 16.000 soldati.
Negli ultimi nove mesi - il periodo di comando del generale Del Vecchio - la missione in Afghanistan ha esteso il suo raggio d'azione nelle province orientali e preparato l'espansione al sud. La più pericolosa perché con essa si arriverà ad una totale identificazione tra la missione Isaf teoricamente di «stabilizzazione» e sotto il controllo delle autorità di Kabul e quella apertamente bellica di «Enduring freedom» per di più con gli Usa che tendono a mantenere il comando assoluto delle operazioni e allo stesso tempo a ridurre i propri effettivi ritirandone (per ora) oltre 3.000 (scendendo da 19.000 a 16.000 uomini) da trasferire in Iraq. Per la missione Isaf si profila così un'altra débâcle annunciata. La decisione di espandere ancora più a sud, in piena zona di combattimento (tra Kandahar e il confine col Pakistan,) l'area di responsabilità della missione Isaf - sia a livello militare che militare-civile con i famosi Provincial Reconstruction Team - venne presa nel consiglio Nato dell'8/12/2005 su insistenza degli Usa preoccupati per le difficoltà incontrate in Iraq.
Le forze italiane sono state protagoniste di questa manovra di allargamento con la costruzione, tra l'altro, della Base avanzata di Herat da cui dipendono i quattro Prt del nord-ovest. Ruolo riconosciuto con il conferimento al generale Umberto Rossi della responsabilità del Comando Regionale Alleato del nord-ovest. All'Isaf partecipano 36 paesi, tra cui tutti i 26 membri della Nato, che sino ad oggi hanno fornito oltre 9.094 soldati, soprattutto la Germania con 2188 soldati e l'Italia con 1850. Le nostre truppe non dovrebbero partecipare alle operazioni nel sud (che vedranno protagonisti i reparti britannici, canadesi, australiani, olandesi arrivati per l'occasione) ma su ciò incombono alcuni interrogativi: la responsabilità collettiva di quanto avverrà nel sud, il comando britannico in piena sintonia con i progetti Usa, il previsto invio di sei bombardieri Amx da parte dell'Italia, la possibilità che Bruxelles chieda a Roma di coprire eventuali mancanze di uomini nel sud e infine i maggiori rischi da affrontare in tutto il paese. In altri termini l'espansione al sud si configura come un tragico e disastroso cambiamento di pelle dell'intervento in Afghanistan.

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LA NATO E' A KABUL MA CHI HA VISTO IL MANDATO ONU?
Manlio Dinucci, il manifesto, 13 Giugno 2006

«La missione Isaf ha avuto dall'Onu un mandato robusto»: questo concetto, ribadito dal segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer nell'intervista al Corriere della Sera (10 giugno), è non solo il cavallo di battaglia dei sostenitori dell'intervento militare italiano in Afghanistan, ma un luogo comune diffuso anche tra gli oppositori: si dà per scontato che esista una «investitura Onu alla missione Nato Isaf». Ma quale risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato a condurre la missione Isaf?
La costituzione dell'Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza il 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l'autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l'art.7 della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell'Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l'Isaf resta fino all'agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda. Ma improvvisamente, l'11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell'Isaf, forza con mandato Onu». E' un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere il comando dell'Isaf. Anche nella risoluzione del 13 ottobre 2003, che autorizza l'Isaf a operare «in aree esterne a Kabul e dintorni», e nelle successive, la Nato non viene mai nominata. Eppure a guidare la missione, da questo momento, non è più l'Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell'Isaf. E poiché il «comandante supremo alleato» è (per diritto ereditario) sempre un generale Usa, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono.
Nella stessa catena di comando sono inseriti i mille militari italiani assegnati all'Isaf, insieme a elicotteri e aerei da trasporto. Ora la Nato chiede all'Italia di accrescere la sua partecipazione e di inviare anche cacciabombardieri per estendere l'area di operazioni, nel quadro della decisione (presa al Pentagono) di aumentare gli effettivi Isaf da 9 a 16mila così che gli Usa possano ridurre quelli dell'operazione Enduring Freedom (oggi 23mila). Contemporaneamente l'Italia viene chiamata ad assumersi maggiori compiti anche in questa seconda operazione sotto comando Usa. Qui ha una partecipazione numericamente minore (circa 250 uomini), ma non meno significativa. Otto ufficiali italiani sono già stati integrati nel quartier generale del Comando centrale statunitense a Tampa (Florida), che ha la responsabilità di Enduring Freedom. Lo stesso Comando ha deciso di mettere un ammiraglio italiano, dal 28 giugno alla fine di dicembre, a capo della Task Force 152 che opera nel Golfo persico. Per consentire «un adeguato periodo di ambientamento» - informa il Ministero italiano della difesa - la fregata Euro, che sarà affiancata da altre due unità, è passata sotto il «comando statunitense imbarcato sulla portaerei Ronald Reagan».
Il coinvolgimento italiano in Afghanistan non si può dunque misurare solo in termini numerici. Partecipando a questa come ad altre guerre sotto presunti «mandati Onu», le nostre forze armate vengono inserite in meccanismi sovranazionali che le sottraggono all'effettivo controllo del parlamento e dello stesso governo, legando sempre più il nostro paese al carro da guerra statunitense.

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AFGHANISTAN, LA GRANDE TRUFFA
Ricostruzione. Un business da 15 miliardi di dollari che rischia di ritorcersi contro Bush e i contingenti stranieri
Ida Rotano, aprileonline.info, n.169 del 25.05.06

Benvenuti nel paese della cuccagna, dove la fanno da padroni affaristi di ogni genere e false organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Ebbene si, siamo in Afghanistan, o sarebbe meglio cambiare il nome in “Afghanopoli”. Qui, da tempo, si svolge una delle più colossali truffe della storia, tanto più grave perché spacciata per opera di bene e compiuta sulla pelle di un popolo che è stato prima bombardato e invaso, e ora viene imbrogliato. Parliamo della ricostruzione post-bellica, un business da 15 miliardi di dollari in piena fase di espansione. Soldi dei contribuenti occidentali, che escono dalle casse degli Stati “donatori” (Usa in testa) per finire in appalti a multinazionali occidentali (soprattutto statunitensi) “ammanicate” con il potere politico, le quali, invece di spenderli per ricostruire e aiutare il paese distrutto dalla guerra contro Osama Bin Laden, se li intascano come profitti o li sprecano in fasulli progetti ad uso propagandistico e in “spese di gestione”, vale a dire stipendi stratosferici, alloggi e macchine di lusso.

“Qui in Afghanistan sono in corso sprechi e frodi di dimensioni enormi, un vero saccheggio condotto soprattutto da imprese private”, dice Jean Mazurelle, direttrice della Banca Mondiale a Kabul. Non è un caso che gli Stati Uniti, tramite USAID, siano il più grande donatore, con 3,5 miliardi di dollari. Non è altruismo, ma solo consapevolezza della convenienza a investire il più possibile in un business che rende molto sia in termini politici che economici. “La priorità non è il progresso dell’Afghanistan, ma l’apparenza di questo progresso”, ammette Peggy O’Ban, portavoce di USAID.

Peacereporter ha raccolto numerose denunce e altrettante prove di quelli che possono essere definiti, senza timore di smentita, i più chiari esempi di ladrocini mascherati dietro il paravento dell’aiuto allo sviluppo e alla ricostruzione.
Fra questi, il fallimento del fondamentale programma di ricostruzione di scuole, cliniche e strade, affidato (per 665 milioni di dollari) al Louis Berger Group, azienda del New Jersey vicina all’amministrazione Bush, che per questo è diventata il primo “contractor” di USAID. Termine di consegna: fine 2004, data delle elezioni presidenziali afgane che Washington voleva far vincere ad Hamid Karzai con la carta dei risultati della ricostruzione. “Era una scadenza politica”, ha dichiarato Marshall F. Perry, ex direttore del progetto. “Noi eravamo sotto pressione da parte di USAID, e loro lo erano da parte della Casa Bianca. Il risultato è stato che il progetto è finito nel caos”.
L’appalto era per 533 scuole e cliniche. Ne sono state consegnate solo 138, perché molte erano progettate sulla carta in zone impossibili: cimiteri, acquitrini, dirupi e zone sotto controllo talebano. In media queste strutture sono costate l’esorbitante cifra media di 250 mila dollari l’una, con punte di 600 mila dollari, come nel caso della scuola “modello” con 20 classi di Kabul. Nonostante questi costi esorbitanti, le strutture cadono a pezzi perché costruite con materiali scadenti, su terreni instabili, senza fondamenta. Tutto in barba alle regole, aggirate con il pagamento di mazzette alle società (sempre straniere) incaricate di certificare che i progetti siano a norma (realtà testimoniata in un video in cui viene pagata una tangente di 50 mila dollari ai controllori della CHF International).

E ancora, la scuola di Moqor, tra le montagne della provincia di Ganzi, è chiusa per il crollo del tetto che ha ceduto sotto il peso della neve: era un modello di tetto utilizzato solitamente per le costruzioni in California, dove nevica un po’ meno che sulle cime dell’Hundu Kush. Altre 22 scuole e 67 cliniche hanno avuto lo stesso problema. La clinica “modello” di Qala-i-Qazi, vicino a Kabul, ha solo quindici mesi di vita ma è già in rovina: soffitti sfondati dall’umidità e impianto idraulico completamente fuori uso. La clinica di Larkhabi, nella provincia settentrionale del Badakshan, è finita ma è chiusa perché verrà abbattuta per pericolo di crollo, essendo stata costruita su una frana in una regione altamente sismica. Stessa sorte toccherà alla clinica “modello” di Kabul, costata 324 mila dollari, ma costruita in barba alle norme antisismiche.
La strada Sar-e-Pol– Shebergan, costata 15 milioni di dollari, era stata promessa in campagna elettorale da Karzai. Le centinaia di operai afgani prendevano 90 dollari al mese per lavorare 10 ore al giorno 7 giorni su 7. Alcuni sono morti sul lavoro. Chi protestava veniva cacciato. Gli ingegneri della Berger prendevano invece 5 mila dollari al mese. Oggi le elezioni sono passate, ma lo scempio provocato dalla costruzione della strada è rimasto: canali di soclo e di irrigazione interrotti dall’asfalto in questa zona piovosa, hanno provocato allagamenti e crolli delle abitazioni di argilla costruite nelle vicinanze e distrutto l’agricoltura locale.

Ma non è solo il Louis Berger Group a rimestare nel torbido. Il programma di sradicamento delle piantagioni di papaveri da oppio era stato appaltato per 290 milioni di dollari alla compagnia, pure questa texana, DynCorp. L’obiettivo era distruggere 15 mila ettari di coltivazioni, ma l’impopolarità dell’operazione ha portato al suo sostanziale blocco per evitare che lo scontento popolare si ritorcesse contro il governo Karzai e la presenza straniera. Così, dopo aver distrutto solo 220 ettari in totale (al prezzo di decine di contadini uccisi dalla polizia impiegata nelle operazioni di sradicamento), alla fine del 2004 la DynCorp ha provato la strada delle fumigazioni aeree clandestine, abbandonate dopo aver prodotto malattie tra i contadini e il bestiame, distruggendo anche orti e piantagioni legali. In compenso, i 290 milioni di dollari sono finiti negli stipendi ai dipendenti stranieri della DynCorp (compresi tra gli 8 e 30 mila dollari al mese), nei loro lussuosi fuoristrada (da 120 mila dollari l’uno) e nei loro principeschi alloggi a Kabul, con tanto di catering diretto dagli Stati Uniti.

La ricostruzione del settore agricolo è invece stato affidato alla Chemonics International Inc. al costo di 273 milioni di dollari. I risultati sono questi: grandi serre all’americana crollate sotto il peso della neve, silos vuoti perché i contadini non si fidano a metterci dentro i loro prodotti per paura dei ladri, mercati agricoli deserti perché i contadini che dovevano usarli sono andati in rovina per colpa della stessa Chemonics, che aveva consigliato loro di produrre tutti verdure, con l’effetto di abbattere i prezzi nella regione e far fallire i coltivatori. Ma la vera “perla” è costituita dai canali d’irrigazione costruiti nella provincia di Helmand, dove il 90 per cento dei campi sono coltivati a papavero da oppio: dopo l’intervento della Chemonics, la produzione d’oppio in Helmand è sensibilmente migliorata.

Dulcis in fundo, i 56 milioni di dollari di “aiuti” americani all’Afghanistan andati al Rendon Gruop, azienda di Washington strettamente legata a Bush, incaricata di “promuovere l’immagine del governo Karzai e degli Stati Uniti sulla stampa afgana”, attraverso bustarelle pagate ai giornalisti locali perché pubblichino notizie positive e tralascino quelle negative e critiche.
Ma i soldi spesi meglio rimangono senza dubbio gli 8,3 milioni di dollari che USAID ha dato a Voice for Humanity, piccola azienda del Kentucky legata al presidente della commissione parlamentare che approva i bilanci di USAID, senatore Mitch McConnel, per finanziare la distribuzione nei villaggi afgani di 65.800 lettori mp3 da 50 dollari l’uno, contenenti messaggi volti a “promuovere la democrazia” e il sostegno al governo Karzai.

Per la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, l’Afghanistan è una grande gallina dalle uova d’oro, un posto dove venire, dare una mano di vernice su un muro marcio, presentare un conto gonfiato che nessuno controllerà mai e incassare. Ma gli afgani, che all’inizio si sono mostrati pazienti e fiduciosi, hanno capito che degli stranieri non c’è da fidarsi. E hanno cominciato quindi a guardare con occhi diversi la resistenza armata talebana. Quest’ultima, non a caso, diventa di giorno in giorno più forte.

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L'ITALIA IN AFGHANISTAN? UN FALLIMENTO COME IN IRAQ.
Gianni Rufini, Università di York - Post-war Reconstruction and Development Unit,
il manifesto 03/06/2006

Il rapido degradarsi della situazione afghana ha risvegliato il dibattito sulla presenza militare in quel paese e un editoriale del 31 maggio su la Repubblica sposava la tesi che l'intervento in Afghanistan fosse utile e necessario, al contrario di quanto vorrebbe un non ben identificato «pacifismo» che riunirebbe - oltre ai veri pacifisti - chiunque abbia dubbi sull'azione dell'Isaf o sostenga i principi umanitari.
In realtà, non c'è bisogno di essere pacifisti per constatare il fallimento dell'intervento in Afghanistan: il paese è ridotto alla disperazione, il livello della violenza e dell'insicurezza è il peggiore degli ultimi dieci anni, i talebani controllano una bella fetta del territorio e i warlord (i signori della guerra) e i ministri di Karzai si dividono il resto, mentre migliaia di milizie private dominano il terreno. Inoltre, la situazione dei diritti umani è al minimo storico, la condizione femminile non è migliorata e la produzione di oppio è allo zenit.
Sull'altro versante, gli aiuti ristagnano, i soldi promessi per la ricostruzione sono arrivati col contagocce e l'azione delle Ong oggi è esposta ad ogni tipo di rischio. Solo negli ultimi due anni si contano quasi 80 vittime dichiarate tra gli operatori umanitari, entrati ormai nel mirino dei warlord-ministri, oltre che in quello dei talebani.
Ma soprattutto, il costosissimo intervento internazionale non ha saputo migliorare in nessun modo le condizioni di vita degli afghani, stremati da un trentennio di guerra e disperatamente bisognosi di un po' di benessere. Continuare a dire che «comunque va meglio di prima», e che gli stessi afgani preferiscono vivere in questa situazione, significa voler chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un popolo che - paradossalmente - con i talebani aveva trovato almeno quella sicurezza e quella stabilità che ora rimpiange. Verità sgradevole, e in qualche modo mostruosa, ma purtroppo sostenuta anche dagli afgani più evoluti ed occidentalizzati: «Si stava meglio quando si stava peggio».
Piuttosto, sarebbe utile cercare di capire perché la comunità internazionale si trovi così disarmata di fronte a questi processi, incapace di gestire la crisi afghana come quella irachena, commettendo tutti gli errori di chi si trova al primo giorno di scuola. Eppure oggi sappiamo come fare, abbiamo tutti gli strumenti per gestire con intelligenza i processi post-bellici e le crisi croniche di tanti paesi. Purtroppo, molto si deve al dilettantismo di tanti leader politici, che credono di possedere una chiave di lettura (la politica, appunto) che può fare a meno degli «specialisti», delle esperienze fatte e delle lezioni apprese, e che il rispetto del diritto internazionale sia un'ingenuità.
Repubblica se la prende poi con Emergency perché, avendo aperto a Kabul un ospedale in pieno regime talebano, avrebbero inevitabilmente curato anche «i combattenti di un regime spaventoso». Questo è un errore gravissimo: chi fa aiuto umanitario non è «buono» ma compie il proprio dovere di salvare vite in pericolo e alleviare la sofferenza, svolge un servizio di pubblica utilità in modo imparziale ed equo, senza permettersi di giudicare chi «meriti» la salvezza e chi no, proprio perché gli umanitari non ritengono di avere il monopolio della verità o del Bene. Qui abbiamo a che fare con il minimo della dignità umana e del vivere sociale: con i diritti umani fondamentali. Sono sicuro che se l'autore dell'articolo (cui auguro ogni bene) si trovasse in pericolo, non gli farebbe piacere se, invece di correre a salvarlo, ci si chiedesse se questo sia politicamente opportuno, se i suoi meriti e demeriti giustifichino un salvataggio, o se non sia più umanitario tirargli una bomba.
Confondere i principi umanitari con pacifismo o interventismo, come con altre dottrine politiche, non è solo una distorsione della verità ma anche una negazione dell'universalità del diritto internazionale, della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948. E questa colpa, bisogna dirlo, ricade in parte anche sugli stessi pacifisti.
Infine è vero che in alcuni paesi ormai le organizzazioni umanitarie sono viste come un'espressione dell'Occidente. In sostanza, del «nemico». Voler mascherare tante azioni militari da operazioni umanitarie ha avvalorato questa tesi agli occhi degli afgani e degli iracheni, come degli italiani. Ad esempio, il lavoro dei Provincial Reconstruction Teams (gruppi misti militari-civili) in Afghanistan ha provocato una gravissima confusione tra le organizzazioni d'aiuto e i militari di quella che viene percepita come forza d'occupazione.
Non se ne sono giovati i civili, ormai esposti ad ogni tipo di aggressione e di ostilità, né i militari, occupati a proteggere con dispiegamento di autoblindo ed elicotteri l'umile lavoro dei muratori e dei geometri. Forse è arrivato per tutti, anche per le Ong, il momento di capire che in certi paesi la ricostruzione va lasciata fare ai diretti interessati. Basta dar loro le risorse per farlo.

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L'ITALIA NON SIA UN SEMPLICE STRUMENTO DELLA POLITICA USA
L’appello letto a Montecitorio dalla deputata afgana Malalai Joya: «La cruda realtà è che gli americani stanno commettendo oggi lo stesso errore che commisero finanziando i talebani»
Liberazione 1 giugno 2006, Traduzione Simona Castaldi (http://www.malalaijoya.com/joya.jpg)

Cari amici, mi auguro che le mie parole possano sollecitare il nuovo governo a lavorare sulle linee guida necessarie per costruire pace, stabilità e democrazia durature nella mia terra devastata, a partire da un’analisi rigorosa delle questioni centrali e vitali che sono alla base della tragedia dell’Afghanistan. Provengo da un paese che ancora brucia tra due fuochi, da una parte ci sono i criminali fondamentalisti dell’Alleanza del Nord sostenuti dal governo americano; dall’altra i talebani e i terroristi di Al-Qaida sostenuti da regimi, partiti e organizzazioni fondamentaliste e antidemocratiche provenienti da varie parti del mondo. (...)
Come avete potuto apprendere dai mass-media, il 7 maggio scorso sono stata fisicamente attaccata da alcuni signori della guerra e narcotrafficanti membri del parlamento per aver denunciato i crimini commessi dall’Alleanza del Nord. Donne e uomini fondamentalisti presenti in sala, che fino a pochi giorni fa parlavano e discutevano di democrazia, non hanno potuto sopportare le mie affermazioni e mi hanno aggredita e picchiata. Alcuni di loro mi hanno minacciata di morte, qualcuno ha anche gridato contro di me “è una prostituta, rapitela e violentatela! ”.

Questo singolo episodio è sufficiente per chiarire la natura della democrazia che gli americani ci hanno donato. Usa ed alleati hanno sostituito i terroristi misogini talebani ed i loro fratelli di Al-Qaida con i membri dell’Alleanza del Nord che sono più efferati ed antidemocratici dei talebani stessi. Non è un caso che secondo le Nazioni Unite l’Afghanistan si sta avviando a diventare un narcotraffico proprio a causa del governo dell’Alleanza del Nord. Oltre alle denunce del New York Times, del Los Angeles Times, del Washington Post ecc.. persino due ministri afghani hanno ammesso che grandi narcotrafficanti ricoprono importanti cariche istituzionali.
La mia terra sta affrontando un disastro umanitario peggiore dello tsunami: 700 bambini e 50-70 donne muoiono ogni giorno per mancanza di assistenza sanitaria e milioni di persone muoiono di fame e di freddo a solo pochi chilometri dal palazzo presidenziale. Non è necessario immaginare l’entità della tragedia fuori da Kabul, nelle province rurali.
Tutto questo, come per ironia, accade in un paese che ha ricevuto 12 milioni di dollari, e che ne riceverà altri 10 milioni secondo quanto stabilito dalla recente conferenza di Londra. Ma questi fondi andranno a riempire le tasche dei signori della guerra e contribuiranno a sopprimere la nostra nazione: in un paese che necessita di maggiori sforzi per la ricostruzione, il 40% dei lavoratori non sono assunti e la gran parte della popolazione vive in condizioni di povertà.

I crimini e le atrocità dei warlords fondamentalisti continuano a perpetrarsi nonostante la presenza delle truppe americane e della missione Isaf. Uomini armati dell’Alleanza del Nord hanno recentemente rapito Fatima, una giovane di quattordici anni, e sua madre, hanno rapito Rahima, di 11 anni, e sua nonna di 60 anni. Il mio paese è una terra dove la giovane trentenne Amina è stata lapidata per adulterio, dove Nadja Anjuman è diventata vittima della violenza di suo marito forte del sostegno della misoginia dei signori della guerra dell’Alleanza del Nord. Nonostante la presenza a Kabul di seicento unità Onu per le operazioni di peace-keeping, gli impiegati di organizzazioni non governative e delle agenzie umanitarie dell’Onu sono rapiti e assassinati in pieno giorno. La causa all’origine di questi crimini non è mai stata denunciata. Il governo americano promise che non avrebbe più ripetuto i suoi errori passati e che non avrebbe più supportato economicamente e militarmente i fondamentalisti. La cruda realtà è che gli americani stanno commettendo oggi lo stesso errore che commisero finanziando i talebani, anzi, il sostegno attuale al fondamentalismo è molto più generoso del passato. Ha restituito il potere all’Alleanza del Nord che, rea di aver gettato il paese in una infernale guerra civile dal 1992 al 1996, rappresenta oggi un ostacolo e una seria minaccia alla stabilità e alla pace.

Kathy Gannon, un’ esperta di Afghanistan, ha giustamente dichiarato che «gli Stati Uniti non hanno nessun interesse a ristabilire la pace nel paese. Le persone che hanno assassinato milioni di civili e che controllano il narcotraffico sono attualmente al potere». (...)
L’Afghanistan è un paese che ha a capo della Corte Suprema di Giustizia un uomo ignorante e ultraconservatore legato al partito islamico terrorista di Gulbattin Hekmatyar e di Sayyaf. Nella lista dei terroristi più ricercati dal governo americano figura anche il nome di Gulbuttin Hekmatyar, eppure oltre 34 uomini del suo partito politico sono membri del parlamento afgano. Gli Stati Uniti lavorano con i fondamentalisti filo-americani e si oppongono ai fondamentalisti che non appoggiano la loro politica.

Le elezioni per i componenti della Camera Bassa hanno rapprestato un affronto alla democrazia. (...)
Spero che da tutto quello che ho appena condiviso con voi, possiate capire che il mio paese è ancora in balia dei fondamentalisti. L’unica differenza rispetto al precedente regime talebano è che questi criminali godono dell’appoggio americano, che dà loro maggior libertà di fare quello che desiderano. (...)
Sono convinta che se l’Italia, al pari di qualsiasi altro governo, vuole aiutare la mia gente e contribuire alla realizzazione di cambiamenti positivi per il paese, deve necessariamente agire in maniera autonoma piuttosto che essere strumento degli interessi della politica estera americana.
Dovrebbe cercare di lavorare in sintonia con i desideri e le necessità del popolo afgano e cessare di fornire qualsiasi tipo di supporto ai signori della guerra e a tutti quegli elementi reazionari ed ignoranti che detengono il potere. Solo in questo modo può riconquistare la fiducia infranta del mio popolo e dimostrare concretamente amicizia e solidarietà al nostro disperato bisogno di aiuto.

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MESSAGGIO DI RAWA SULLE TRUPPE STRANIERE IN AFGHANISTAN
da RAWA, 11 maggio 2006

(R.A.W.A. Revolutionary Association of the Women of Afghanistan, associazione rivoluzionaria delle donne afgane) RAWA nasce nel 1977. Si E' battuta contro l'invasione sovietica, contro le violenze dell'Alleanza del Nord e contro il regime dei Talebani. E' un’associazione che si batte per la pace, la liberta, la democrazia e i diritti delle donne contro il fondamentalismo in Afghanistan. www.rawa.org

La questione che riguarda la presenza delle truppe straniere in Afghanistan non può essere separata dalla presenza degli USA nel nostro paese; dunque, per comprendere il nostro punto di vista vorremmo spiegare alcune cose riguardo alla politica degli USA in Afghanistan.
Siamo critiche nei confronti della politica portata avanti dagli USA in Afghanistan negli ultimi 23 anni, e in particolare di quella dell’ultimo decennio, soprattutto perché è stato il governo USA, e nessun altro, a creare, armare e sostenere i gruppi di criminali fondamentalisti e di mercenari arabi che si sono resi responsabili della terribile tragedia dell’11 settembre.
Dopo l’11 settembre sono iniziati i bombardamenti USA in Afghanistan ed è stato rovesciato il regime dei taleban, ma questo ha causato la morte di molti civili.
Il governo USA, nel passato, ha sostenuto tutte le sporche bande di fondamentalisti che ora sono il principale ostacolo a un processo di pace, libertà e stabilità in Afghanistan. Zalmay Khalizad, inviato speciale di Bush in Afghanistan ha dichiarato: “Abbiamo imparato dai nostri errori del passato e non sosterremo ancora dei fondamentalisti”. Di fatto il governo USA, nel nostro paese, continua a portare avanti la sua politica sbagliata. Stanno di nuovo dando fiducia all’Alleanza del Nord, una banda di terroristi leali al regime iraniano e ad alcuni pericolosi partiti fondamentalisti pakistani.
Oggi è un “segreto conosciuto” il fatto che tutte queste bande di terroristi islamici, dall’Alleanza del Nord ai taleban e al-Qaeda, sono creature del governo USA, hanno reso la vita una tortura per la popolazione afghana e sono diventati una minaccia anche per la popolazione statunitense.
Ora l’Alleanza del Nord, i cui appartenenti sono i più infidi assassini e violentatori, sta governando il paese sostenuta dagli USA. Sono peggiori dei taleban e dei terroristi arabi. Oggi tutti i leader dell’Alleanza del Nord sono al potere, e hanno in mano i posti chiave del governo. Solo per fare un esempio, Karim Khalili, un rappresentante di Karzai e membro del partito Whadat, è un leccapiedi del regime iraniano ed è responsabile di decine di migliaia di omicidi di innocenti. Ismail Khan, Sayyaf, Qanoni, Abdullah, Rabbani, Mujadidi, Mohaqiq e decine di altri criminali fondamentalisti sono ora al potere, hanno cambiato il loro aspetto e parlano persino di democrazia e diritti delle donne! Per sapere quale sia la loro vera natura e quali i loro crimini passati è sufficiente leggere i rapporti di Human Rights Watch o di Amnesty International.
La “guerra al terrorismo” ha rovesciato il regime dei taleban ma non ha rimosso il fondamentalismo religioso, che è la prima causa delle disperate condizioni delle donne afghane. Gli USA, portando di nuovo al potere i signori della guerra, hanno rimpiazzato un regime fondamentalista misogino con un altro e non capiscono che una forza reazionaria può essere sconfitta solo da una forza differente che prima di tutto deve credere nella democrazia.
La ragione per cui le cose non sono cambiate per il meglio nel nostro paese sono queste politiche del governo USA, a sostengo di fondamentalisti. Viviamo all’ombra di narcotrafficanti e dei peggiori nemici della democrazia e dei diritti delle donne che hanno ora imparato a parlare di democrazia e laicità. Molti afghani oggi dicono che al potere ci sono ancora i taleban, quei taleban che portano pantaloni e cravatta ma hanno la stessa mentalità.
Cari amici, il nostro popolo è stanco di queste politiche e oggi la maggioranza degli afghani detesta Karzai e i suoi padroni americani.
Dopo questa premessa si può entrare nel merito della questione delle truppe straniere.
Le truppe straniere sono nel nostro paese solo grazie alla pressione degli USA sui loro governi. Anche se hanno le migliori intenzioni di aiutare l’Afghanistan, sono sotto la leadership statunitense e agiscono solo a beneficio delle politiche degli USA e dei loro interessi politici e strategici. Questa è la ragione per cui le truppe che appartengono ad altri paesi non hanno una propria identità e la nostra gente dice che tutte le truppe straniere si trovano nel medesimo contesto.
Gli afghani considerano il governo USA un amico dei nostri nemici. Gli USA non sono visti come amici del popolo afghano perché nei tre decenni passati hanno appoggiato quegli elementi e gruppi all’origine delle nostre miserie, dei nostri problemi e della distruzione della nostra terra e purtroppo questa politica viene ancora perseguita. Il governo USA non dice la verità. L’amministrazione Bush sottolinea che gli USA sono venuti in Afghanistan per liberare la popolazione e portare la democrazia, ma questa è una bugia, sono qui per i loro interessi e per portare avanti la loro guerra con al Qaeda e i taleban in una sorta di guerra “in famiglia”; stanno punendo i loro figli prediletti di un tempo per aver disubbidito. La storia degli USA è costellata di invasioni ad altri paesi che hanno causato solo sofferenze e morte. Ma dobbiamo anche chiarire che c’è una grossa differenza tra il governo USA e il suo popolo. Noi di RAWA abbiamo potuto constatare di persona quanto il popolo americano sia amichevole, umano e compassionevole.
Se le truppe straniere volessero realmente aiutare il popolo afghano e contrapporsi alle aspirazioni del governo USA, dovrebbero opporsi alla politica a favore dei fondamentalisti e, prima di tutto, fidarsi della popolazione afghana e delle forze democratiche presenti nel nostro paese. Non dovrebbero farsi guidare dalla strategia USA ma avere una la loro linea, molto chiara; solo così la nostra gente li riconoscerà come amici e li vedrà in modo diverso da come vede le truppe americane.
Pensiamo che le truppe straniere siano state vittime delle politiche sbagliate degli USA e siamo realmente dispiaciute nel vedere gli attentati e i morti tra le file di questi militari; forse sono venuti con l’intento di aiutare il popolo afghano, ma, a causa delle ragioni esposte sopra, il risultato dei loro sforzi non è stato percepito dagli afghani.
Qualsiasi governo voglia giocare un ruolo positivo nell’aiutare l’Afghanistan deve agire in modo indipendente dalle politiche USA e dimostrare alla popolazione afghana di essere contro i taleban e al Qaeda ma anche contro i leader dell’Alleanza del Nord, che hanno commesso crimini indicibili ai danni della nostra nazione. I veri amici del popolo afghano si devono opporre sia ai terroristi ora vicini agli USA (Alleanza del Nord) sia a quelli che li osteggiano (taleban).
Pensiamo che nessuno stato possa portare libertà e democrazia a un altro stato; però un altro stato può aiutare un popolo a combattere contro i suoi nemici. Gli USA hanno sostenuto gli sporchi e potenti signori della guerra, coloro che hanno minacciato la stabilità del nostro paese; se gli USA smettessero di appoggiarli, questi criminali non sarebbero in grado di imporre la loro mentalità fascista al nostro popolo.
Se le truppe straniere fossero qui per loro iniziativa e non sottomesse ai voleri degli USA, certamente sentirebbero l’appoggio e la simpatia degli afghani; purtroppo, oggi, sono trattate come le forze USA e la maggior parte della gente non vede differenze tra le truppe di diversi paesi presenti in Afghanistan, perché non hanno fatto nulla di tangibile per far sì che la gente li tratti in modo differente.

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