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Articoli
No nuke. I numeri parlano chiaro
Fabio De Ponte, "il manifesto" del 22 Aprile 2006
Nucleare? «Costoso e impraticabile» Parola dell'esercito degli Stati Uniti
Sabina Moranti, liberazione, 21 marzo 2006
Bombe nucleari sul territorio italiano. Citati in tribunale gli USA -
Stefania Del Zotto, Gazzettino di Pordenone, Febbraio 2006
Norvegia boccia Finmeccanica: «Fabbrica bombe atomiche"
Liberazione, 11 gennaio 2006, di Fabrizio Salvatori
Disarma e riconverti i consiglieri regionali lombardi con la tua e-mail
No Dal Molin - Verso il 15 dicembre, se non ora quando?
I militari all'estero perchè. Parlano i documenti
Armi di distruzione di massa
Amnesty International
Commissione internazionale per le armi usate da Israele in Libano
Angelo Baracca, Paola Manduca, Monica Zoppè, su Social press

Reportage uranio
tratto da www.osservatoriobalcani.org - dicembre 2006
di Luisa Morfini e Ciro Cortellessa, Centro di Documentazione di San Donato Milanese
Le sfide della nuova commissione di inchiesta
Gigi Malabarba (già segretario della Commissione d’inchiesta)
su Guerre & Pace - Dicembre 2006
Basta basi, basta guerra - contro le servitù militari
Le nostra tasse per le basi USA
Angelo Mastrandrea, Il manifesto 11 Ottobre 2005
 

No nuke. I numeri parlano chiaro

Quanto costa il nucleare? Un miliardo di euro e dieci anni di cantiere per produrre appena lo 0,5% del fabbisogno nazionale di energia. Sono questi i numeri di un impianto nucleare, denuncia Sergio Carrà, professore di ingegneria chimica al politecnico di Milano.
«Io non sono un verde, ma i numeri sono numeri»: è lapidario». Sergio Carrà, parla con il tono di chi pazientemente deve spiegare una cosa ovvia. Alle spalle una carriera universitaria a Messina, Bologna e Milano, dove è stato anche preside del corso di ingegneria chimica, e diversi riconoscimenti internazionali per la sua attività di ricerca.
Il solare, dice, ci metterà qualche decennio a offrire un terzo dell'energia necessaria al paese. Ma non ci sono scorciatoie: per il nucleare i tempi sono lunghi e il risultato trascurabile, a meno di aprire almeno una ventina di impianti.

Mi pare di capire che vedete il futuro dell'energia nel solare.
Ho portato dei numeri chiari. Guardi che io non ho nessun pregiudizio, anche contro il nucleare.

In questo periodo sembra che entrambi gli schieramenti stanno riproponendo l'ipotesi di riaprire il capitolo del nucleare.
Su questo le do una risposta tecnica: supponga di partire con un programma nucleare in Italia. Un reattore nucleare, un impianto, credo che costi un miliardo di euro circa. Bene, con un impianto, la cui costruzione durerebbe una decina di anni - a parte poi i problemi sociali - lei produrrebbe si e no lo 0,5% dell'energia necessaria all'Italia.

Quali sono poi i costi annuali di mantenimento?
Tenga conto che oltretutto lei ha bisogno oggi di un grosso capitale di investimento, il cui ritorno è tra dieci anni almeno. Per cui un programma nucleare potrebbe avere senso se - e solo se - si costruissero una ventina di reattori. Ora io le chiedo: le sembra possibile che oggi in Italia, tenendo conto della situazione economica, tenendo conto della situazione sociale e politica si possa fare una cosa del genere?

Esiste però in Italia un problema con l'energia.
Il problema è un altro: devono riprendere le ricerche sul nucleare, soprattutto sui reattori futuri. Su questo io dico di sì, perché la ricerca non si deve smettere. Ma attualmente lo vedo molto problematico, perché basta fare questi conti. Sono due conti, sa. Poi le dico un'altra cosa. Si dice «l'Italia ha dismesso il nucleare perché c'è stato il referendum». Ora, il referendum è stato, a mio parere, una cosa sbagliata, perché questi problemi non si risolvono con il referendum. Ma in America dal 1973 non si costruisce un impianto nucleare. E in America non c'è stato il referendum. Mediti su questo.

Il problema dell'approvvigionamento energetico in Italia però è consistente.
Ma questo anche perché in Italia non abbiamo mai fatto nessun piano energetico.

Quindi come si affronta il problema?
Secondo me questo problema va affrontato gradualmente. Le energie rinnovabili hanno bisogno anche loro di venti o trenta anni per diventare significative. Qui il fatto è questo: il problema non è manicheo. I fossili non li butteremo via. Continueremo ad usarli, ma bisogna diminuire la loro incidenza. Bisogna produrre però una certa quantità di energia che sia carbon-free. Che vuol dire che bisogna accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili in modo che tra venti anni effettivamente arrivino incidenze diciamo intorno al trenta per cento. E adesso bisogna arrangiarsi, cosa vuole che le dica. Bisogna che accettiamo gli evaporatori, i gassificatori, che poi non sono la fine del mondo.

Quindi con gli impianti solari, tra trenta anni saremo in grado di produrre il 30 per cento del fabbisogno nazionale. Perciò secondo lei è inutile sprecare risorse per il nucleare.
"Questa è un'opinione mia. Guardi che io non sono un verde, né un ambientalista. Perché in America non li costruiscono più gli impianti nucleari?

Perché la Francia invece ce li ha?
Perché la Francia ha fatto una scelta. Però voglio vedere, adesso che i suoi vanno in rottamazione e li dovrà rinnovare, cosa farà. Tenga conto che se lei vuole distruggere un impianto nucleare, bonificare il terreno le costa come costruirne uno nuovo.

Un altro miliardo di euro?
Sicuro. Io ho visto quello che costa bonificare i terreni di impianti chimici. Vada a vedere cosa costa. Centinaia di miliardi . Le cifre sono da capogiro. Io non sono un verde, ma i numeri sono numeri.

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Nucleare? «Costoso e impraticabile» Parola dell'esercito degli Stati Uniti

Putin spera in «una sostanziale rinascita globale dell'industria nucleare», il ministro per l'Energia statunitense, Samuel Bodman, sottoscrive e rilancia a margine del vertice allargato dei ministri dell''Energia del G8 in corso a Mosca. Si apre la caccia agli investitori pubblici visto che quelli privati notoriamente non sono scemi. Sì perché bisognerebbe essere proprio degli idioti per impelagarsi nella costruzione di centrali destinate a rimanere inattive. Inaspettatamente il colpo di grazia alla lobby dell'atomo non arriva dai soliti ambientalisti arrabbiati ma dall'Us Army che, allarmata dall'esaurimento dei combustibili fossili e dell'uranio, intraprende una ristrutturazione radicale dei propri consumi energetici.

Da qualche tempo, lontano dalle telecamere, si svolge un acceso dibattito sull'esaurimento del petrolio. Nel 1956, quando Hubbert propose al mondo i suoi calcoli, fu preso per pazzo ma oggi la teoria secondo la quale la produzione petrolifera raggiungerà un picco massimo e dopodichè comincerà a calare fino al totale esaurimento, è stata accettata da tutti. Il dibattito si è spostato dal se al quando, con le grandi compagnie a fornire le stime più ottimiste e gli ambientalisti ad annunciare sventure molto prossime. Da qualche giorno, però, nella discussione è entrato però un pezzo da novanta: l'esercito statunitense che non si limita a lanciare l'allarme dando per buoni i dati più pessimisti ma si propone di abbandonare prima possibile la propria dipendenza dal petrolio imboccando decisamente le uniche due strade che considera percorribili, l'efficienza energetica e le fonti rinnovabili. Del nucleare nessuna traccia.

La vicenda della pubblicazione dell'Energy Trends and Their Implications for U. S. Army Installations (Tendenze energetiche e implicazioni per le istallazioni dell'esercito Usa) parte già tinta di giallo. Lo studio condotto dall'U. S. Army Engineer Research and Development Center e dall'U. S. Army Corps of Engineers e datato settembre 2005, è stato pubblicato sul sito dell'esercito statunitense per poche ore, per poi sparire inspiegabilmente nel nulla. Al suo posto una paginetta del Defense Technical Information Center che autorizza la diffusione del rapporto e rimanda a una serie di siti inattivi. Quel poco che se ne sa - qualche tabella, alcune citazioni e parecchi commenti - si deve all'interessamento dell'Energy Bullettin e di alcuni attivisti che ne hanno salvato significativi frammenti. Dai quali si evince perché l'argomento sia così incandescente proprio mentre la lobby nucleare tenta l'ultima disperata sortita.

Tanto per cominciare i due autori - la prima, Eileen Westervelt, è attualmente in forze all'US Army Corps of Engineers, il secondo, Donald Fournier, ha lasciato l'esercito ed è ricercatore all'Università dell'Illinois - liquidano come «eccessivamente ottimistiche» le stime fornite dagli esperti istituzionali perché si basano su di un incremento delle nuove scoperte considerato «decisamente improbabile» dai militari. Per loro i combustibili fossili - sia il petrolio che il gas - sono destinati a esaurirsi di qui a 40 anni, meno di mezzo secolo durante il quale l'estrazione sarà sempre più costosa e la competizione sempre più serrata. Con due o tre calcoli l'Us Army chiude anche sul nucleare visto che le riserve mondiali di uranio sono sufficienti per appena vent'anni, cosa che rende del tutto demenziale l'idea di resuscitare i reattori che gli esperti dell'esercito considerano troppo costosi e pericolosi in quanto possibili bersagli di attacchi terroristici.

La soluzione? L'esercito americano ovviamente pensa a sé, ovvero suggerisce, con un'urgenza di per sé allarmante, di "isolare al più presto l'esercito dalle conseguenze logistiche ed economiche legate ai problemi energetici che si presenteranno nel prossimo futuro" e prosegue affermando che "è necessaria una transizione verso sistemi energetici più sicuri ed efficienti e bisogna costruire tecnologie che siano sicure e rispettose dell'ambiente". Le migliori opzioni sono dunque "l'efficienza energetica e le risorse rinnovabili" considerando che, attualmente, non c'è un sostituto accettabile per il petrolio. Gli autori riconoscono però che "il sistema energetico mondiale soffre di un'inerzia eccessiva" che gli impedisce di invertire in tempi brevi una tendenza "decisamente insostenibile" e invitano gli alti gradi a non aspettare che lo Stato si muova prima di mettere in atto una strategia energetica atta a riformare radicalmente i consumi dell'esercito. Una strategia basata su cinque pilastri che, del tutto inaspettatamente, sono esattamente quelli proposti dagli ambientalisti più sfegatati: eliminare lo spreco di energia nelle istallazioni già esistenti, incrementare l'efficienza energetica nelle nuove costruzioni e nelle ristrutturazioni, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, conservare le risorse idriche e migliorare la sicurezza energetica.

Dimenticatevi quindi le grandi cattedrali del gas o dell'atomo. La strada più a portata di mano, secondo Westervelt e Fournier, è quella dell'efficienza energetica "il modo meno costoso, più immediatamente accessibile e meno inquinante per far durare più a lungo le nostre scorte" per dare il tempo "alla ricerca di fonti rinnovabili" di dare dei frutti. Non solo quindi l'esercito prende per buone le peggiori previsioni sull'approssimarsi del picco petrolifero ma vengono anche liquidate le soluzioni classiche che piacciono tanto alla grande industria ovvero il gas, il nucleare e il carbone cosiddetto "pulito". Non c'è da stupirsi che l'Energy Trends sia stato subito tolto dalla circolazione anche se, molto probabilmente, la riforma interna è destinata ad andare avanti. Lo dimostrano le misure già prese dal Pentagono che, allarmato dall'aumento del prezzo del greggio, ha ordinato alle basi militari di ridurre i consumi energetici del 2 per cento l'anno e di riconvertirsi alle energie alternative come il solare e l'eolico.

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Bombe nucleari sul territorio italiano. Citati in tribunale gli USA

Cinque pordenonesi citano in sede civile il ministro della difesa americano, Donald Rumsfeld, chiedendo la rimozione delle armi nucleari custodite nella base Usaf di Aviano e, anche, il risarcimento per danni.

La somma non è stata quantificata, anche perché secondo i promotori della clamorosa iniziativa, ogni cittadino residente vicino alla Base americana potrebbe chiedere il "suo".
Il documento è stato depositato sui tavoli del tribunale civile di Pordenone, con tanto di invito,
rivolto al ministro americano a comparire all'udienza che si richiede venga fissata per il prossimo 7 luglio.
(N.d.r.: questa data rappresenta la vigilia del decennale della sentenza con cui la Corte Internazionale di Giustizia ha stabilito che l’uso – o anche la semplice minaccia dell’uso – di armi nucleari è in contrasto con il diritto internazionali e che gli stati hanno l’obbligo giuridico di condurre negoziati in buona fede che conducano al completo smantellamento di tutte le armi nucleari.).

Sembrerebbe quasi una provocazione, ma i cinque firmatari del documento, Tiziano Tissino (Beati Costruttori di Pace), Giuseppe Rizzardo (Comitato unitario contro Aviano 2000), Michele Negro Rifondazione comunista), Carlo Mayer (Coordinamento No global di Pordenone) e Monia Giacomini (Democratici di sinistra) non scherzano e si faranno difendere da Joachin Lau, vicepresidente di Ialana, Associazione internazionale dei giuristi contro le armi nucleari, da anni impegnato nel combattere la presenza degli ordigni nucleari.
Insieme con lui ci sono anche altri cinque avvocati italiani, appartenenti all'associazione internazionale che hanno voluto sostenere la causa dei gruppi pacifisti pordenonesi.
"Questo è un atto che non ha precedenti ha spiegato Lau dal momento che mai nessuno prima d'oggi ha intrapreso una causa contro il governo americano per il disarmo nucleare. E questo perché a differenza degli altri Paesi europei dove sono stoccate armi nucleari della Nato, l'Italia è l'unico che a livello giuridico riconosce la possibilità di citare in giudizio uno Stato straniero. La violazione di una norma di diritto internazionale comporta che lo Stato straniero, ritenuto responsabile, sia soggetto alla giurisdizione del giudice nazionale territorialmente competente". Tra le clausole c'è quella che a impugnare l'atto devono essere delle persone residenti nell'area limitrofa a dove sono stoccate le armi nucleari.

Detto fatto. I gruppi pacifisti locali si sono immediatamente mobilitati dando la propria disponibilità a portare avanti l'iniziativa. "La struttura militare di Aviano ha commentato Vanni Tissino - esiste dal 1954 e secondo un recente rapporto del centro studi newyorkese Natural Resources defence council, detiene un deposito di 50 armi nucleari (con Ghedi che ne avrebbe 40, sono le uniche due basi Usaf in Italia a ospitare armi nucleari, ndr). Inoltre con la convenzione segreta del 60, l'Italia e gli Stati Uniti hanno concordato di mettere a disposizione delle forze armate americane l'aeroporto di Aviano per ospitare armi nucleari. Il trattato, simile a quello che gli Usa hanno con Belgio, Germania, Grecia, Olanda e Turchia, prevede la partecipazione dell'Italia (nuclear sharing) alla programmazione e progettazione della strategia nucleare della Nato".

Questo "cozza", secondo i firmatari con il Trattato di non proliferazione del '68 firmato e successivamente ratificato dal nostro Paese e dall'America, in quanto tale documento prevede da una parte l'obbligo degli Stati nucleari di non lasciare a disposizione di alcuno armi nucleari, dall'altra quello degli stati non nucleari di non acquisirne per pervenire a un totale disarmo.
"Nell'attuale sistema strategico si legge nel documento - il territorio italiano, e specificamente la zona di Aviano, è un bersaglio nucleare perché rappresenta una minaccia in un futuro potenziale conflitto. Ma come affermato dalla Corte internazionale di giustizia è un illecito perché le armi nucleari rappresentano un pericolo per la salute e la vita dei cittadini che vivono vicino alla base.
Già in passato si sono verificati, tra il 1960 e il 1995, cinque casi di "incidente", che hanno messo in pericolo la zona di Pordenone Aviano".

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Norvegia boccia Finmeccanica: «Fabbrica bombe atomiche" - Liberazione, 11 gennaio 2006, di Fabrizio Salvatori

In Norvegia su questo sono tutti d'accordo, destra e sinistra: le aziende che producono armi nucleari non hanno "diritto di cittadinanza" e quindi vanno in qualche modo sanzionate. A farne le spese è stata, tra le altre, una società italiana, la potentissima Finmeccanica.
La Finmeccanca risulta avere nel proprio portafoglio di azioni una bella fetta, circa il 25%, di Mbda, una sorta di consorzio in cui figurano anche altri nomi molto illustri del panorama della produzione militare mondiale come Eads e Bae Systems. Mbda sta producendo un missile nucleare aria-terra, l'Asmp-A che dovrà essere consegnato alle forze armate francesi entro il 2008. I norvegesi, per i quali l'etica in economia è un argomento da discutere poco e da praticare tanto (il ministro delle Finanze, la signora Kristin Halvorsen, ha sostenuto, per esempio, che le merci israeliane vanno boicottate, come fa lei, per solidarietà con il popolo palestinese) non appena hanno scoperto la cosa (del resto bastava documentarsi sul website, hanno sostenuto) hanno subito ordinato al loro fondo pensionistico governativo, il Petroleum Fund uno dei più grandi al mondo, di vendere la quota di partecipazione che ammonta a circa 290 milioni di sterline (423 milioni di euro). La cosa singolare è che il niet della ministra Halvorsen è stato possibile non in base a un umore del momento, ma grazie a una legge approvata dal precedente governo di centro-destra, appena mandato a casa dagli elettori.
Il mondo finanziario ha subito penalizzato Finmeccanica che dopo aver riportato nei giorni scorsi un a perdita del 22% recentemente ha perso un ulteriore 0,57%, nonostante l'intervento della Deutsche Bank.
La Norvegia non ha colpito solo Finmeccanica, naturalmente. L'ira del Consiglio etico del Petroleum si è scagliata anche contro Boeing, Noneywell, Northrop Grumman e United Technologies e Safran.
La scelta anti-nucleare è ormai una posizione che in Norvegia si va storicizzando. In quel paese non solo non ci sono armi nucleare ma anche dal punto di vista energetico viene considerata una modalità da bandire. Il partito della signora Halvorsen, i Laburisti di Sinistra, attualmente al governo in una coalizione rosso-verde, nella sua campagna elettorale definì il nucleare come «la maggiore minaccia alla pace nel mondo». Secondo gli analisti internazionali, la Norvegia sembra saldamente avviata nel solco di una politica che si muove tra business e scelte etico-sociale. Un punto, questo, da segnare nell'agenda dei lavori della coalizione di centro-sinistra in Italia.
C'è da notare che la decisione del fondo norvegese è stata presa non già sulla base di informazioni su un coinvolgimento diretto nella produzione dell'arma nucleare da parte di Fin meccanica ma tenendo conto della semplice partecipazione azionaria a Mbda, certamente con una quota di tutto rilievo. Giorgio Beretta, portavoce della Campagna di pressione alle "banche armate" afferma polemicamente: «Allora, qualcuno nel blindatissimo mondo dell'informazione italiana si decide a guardare a cosa fa Finmeccanica o dobbiamo aspettare che siano i norvegesi a dirci cosa succede in Italia?». «Il governo norvegese, che in fatto di scelta anti-nucleare è attentissimo, mentre nel nostro paese nel quale (secondo la legge 185/90, ndr) è vietata la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione e il transito di armi biologiche, chimiche e nucleare, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione o la cessione della relativa tecnologia tutti fanno finta di non sapere. Segnalo che il divieto si applica anche agli strumenti e alle tecnologie specificatamente progettate per la costruzione delle suddette armi», conclude Beretta.
Mbda è una joint venture tra Bae Systems (37.5%), Eads (37.5%) e Finmeccanica (25%) operativa dal dicembre 2001. In pratica raggruppa la quasi totalità delll'industria missilistica europea e si posizione al secondo posto nel mercato mondiale dopo la statunitense Raytheon. Mbda è il capo commessa del programma missilistico Meteor, che coinvolge 6 paesi. Meteor è un sistema di combattimento aria-aria, operante oltre la portata visuale (Beyond Visual Range, BVR), velocissimo e altamente manovrabile, in grado di operare sia di giorno che di notte, qualunque siano le condizioni atmosferiche e in ambienti in cui vengono impiegati intensamente altri sistemi elettronici di combattimento. I programmi missilistici in produzione sono attualmente circa 32 e altri 23 sono in fase di sviluppo.

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Disarma e riconverti i consiglieri regionali lombardi con la tua e-mail



Fonte: Una firma per disarmare la Lombardia www.disarmolombardia.org

La campagna   "Disarma e Riconverti"  i  consiglieri regionali con la tua e-mail è una campagna di pressione informatica sui Consiglieri regionali a favore della Proposta di Legge regionale per la promozione del disarmo e della riconversione dell'industria bellica in Lombardia.
Dopo aver depositato 15.000 firme di cittadini lombardi raccolte in favore della legge in oggetto,  siamo costretti, dal clima distratto che si registra in proposito in Regione, a far partire una "pressione informatica" sui Consiglieri Regionali per chiedere il loro appoggio ed il loro voto positivo sulla legge.
Dal sito della campagna  www.disarmolombardia.org   puoi accedere alla pagina per la pressione informatica sui consiglieri regionali dove inserendo il proprio nome, cognome, indirizzo mail, ed un eventuale aggiuntivo positivo messaggio, è possibile con un solo click del mouse inviare una mail già predisposta agli 80 consiglieri regionali lombardi .
Fallo ora!!! E' davvero importante!!! Questo è il periodo più delicato ed importante, se non otterremo l'approvazione della Legge potrebbero passare anni prima che si possa ridiscutere un intervento di questo livello...
Agisci ora, invia dal sito la tua mail ai consiglieri regionali. Inoltra questo messaggio ad amici e a tutti coloro che sei in grado di raggiungere, per continuare la campagna di sostegno alla legge per la riconversione dell'industria bellica in Lombardia.
Nota Bene: siccome i consiglieri regionali, causa numerosi e pressanti impegni, potrebbero risultare di memoria corta è consigliabile ripetere l'invio della mail più e più volte per molti giorni…
Informazioni più dettagliate sulla campagna, su chi la sostiene e sugli obiettivi li puoi visitare www.disarmolombardia.org oppure scrivere a info@disarmolombardia.org

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I militari all'estero perchè. Parlano i documenti
La presenza militare italiana all’estero è, spesso, il “nostro” piccolo contributo al mantenimento di una situazione di ingiustizia e forte squilibrio tra i nord e i sud del mondo, un contributo alla difesa di un sistema economico di rapina.

Premessa
A partire dai primi anni ’90 assistiamo ad un aumento della presenza all’estero delle forze armate italiane. Iraq, Kurdistan, Somalia, Albania. Ma anche Bosnia, Mozambico, Timor Est e Kossovo, fino agli intervento in Afghanistan ed Iraq di oggi.
Ci è sembrato un aspetto importante della critica all’attuale ideologia della guerra (umanitaria, globale o preventiva che dir si voglia) andare a cercare le origini di questo nuovo attivismo anche sui documenti governativi di pianificazione militare. Questo per rispondere a quella corrente di pensiero, presente nei principali organi di (dis)informazione, che vede qualunque invio di truppe all’estero come la risposta contingente a situazioni di emergenza.
Abbiamo scelto così una serie di documenti, pubblici, che coprono l’intero arco temporale che va dalla fine della guerra fredda a oggi.

Il “nuovo” Modello di difesa
Il primo documento è il Modello di Difesa per gli anni ‘90(1) . Esso è il documento più corposo e completo, in cui vengono definite tutte quelle operazioni di ristrutturazione dell’apparato militare che stanno rendendo oggi le forze armate uno strumento in grado di proiettarsi in giro per il mondo.
Il documento prende avvio dalla fine della guerra fredda, prendendo atto del mutato scenario internazionale e riconoscendone gli sviluppi positivi come, per i paesi europei, l’improbabilità di aggressioni militari(2) . Ma, sorpresa, da ciò non fa derivare alcun motivo di distensione. Infatti, per i militari estensori del documento, il problema non è più la difesa da un’aggressione militare, ma la difesa e la sicurezza delle economie dei paesi industrializzati.
Ecco quindi che il compito per le forze armate diventa “… la tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario. Tra essi, rivestono preminente rilevanza quegli interessi che direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo…“(3) .
Di conseguenza tra gli “interessi nazionali” da difendere, oltre ai classici quali i confini, lo spazio aereo, l’indipendenza e la sovranità nazionale, vi compaiono anche le fonti energetiche, gli interessi nazionali ovunque sia necessario, ruolo e credibilità del paese, presenza economica e influenza culturale, linee di rifornimento energetico.
In pratica per gli estensori del documento la difesa della patria implica la certezza della disponibilità di materie prime per permettere all’attuale sistema industriale di riprodursi, di conseguenza le forze armate devono ristrutturarsi per essere in grado di proiettarsi nei luoghi da dove vengono le materie prime e ovunque sia necessario.
Tale indirizzo viene confermato anche nei successivi aggiornamenti(4).

I bilanci della difesa
Ogni anno, dopo l’approvazione della legge finanziaria, il Ministero della Difesa pubblica la “Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la difesa”. In questo documento vi sono contenuti i dati economici riguardanti il bilancio della difesa, ma anche le indicazioni politiche per il dicastero.
Dalla lettura di questi documenti si assiste alla riconferma, anno per anno, delle linee guida espresse nel Modello di Difesa, sia attraverso un riferimento diretto ad esso(5), sia attraverso la scrittura in chiaro del ruolo delle forze armate.
I compiti delle forze armate risultano essere, oltre alla difesa dello Stato, la tutela del ruolo internazionale dell’ Italia e degli interessi nazionali intesi nella loro globalità geografica, come ad es. l’approvvigionamento delle risorse primarie(6) o la garanzia della libertà di esercizio delle attività economiche e di scambio(7).
Nulla è cambiato: il riferimento alla difesa degli interessi nazionali, intesi come interessi economici, rimane una presenza costante. Anzi, seguendo la lettura dei documenti, in ordine temporale, si assiste ad uno strano paradosso: meno le minacce, individuate dagli estensori dei documenti, hanno carattere di aggressioni militari, più vengono richiesti ampliamenti dei ruoli militari. Con ciò lo strumento militare viene indicato come strumento privilegiato di politica estera.

Il Libro Bianco della difesa
Il Libro Bianco(8) è un ampio volume che si da il compito di fotografare, nel dettaglio, lo stato dello strumento militare nazionale in tutte le sue componenti.
Già nelle prime pagine, dedicate al quadro strategico e alle missioni delle forze armate, viene riconfermato in poche righe quanto definito nel Nuovo Modello quasi un decennio prima. Infatti “le missioni delle nostre Forze Armate oggi si definiscono in un ampio spettro di azioni operative volte (…) alla tutela della sicurezza nazionale, dell’integrità politica territoriale, dei valori della nostra civiltà e del benessere e dello sviluppo economico e sociale”
Onde evitare dubbi viene in seguito esplicitato come la tutela della sicurezza nazionale comporti, oltre alla difesa della sovranità nazionale, la “salvaguardia e tutela dei nostri interessi”.
Viene inoltre riconfermata anche qui, semmai ce ne fosse bisogno, la scelta di militarizzare le relazioni internazionali, infatti “l’azione internazionale (…) fa sempre più ricorso allo strumento militare, divenuto uno degli indicatori essenziali della credibilità ed affidabilità del sistema paese nell’ambito delle relazioni internazionali.

E se nel Libro Bianco 2002 vengono identificate come minacce le azioni terroristiche, il crimine organizzato, la movimentazione di generi commerciali o di denaro, nella Direttiva Ministeriale per la politica militare 2002-2003 viene segnalata ancora l’esigenza di maggiori risorse per la proiezione delle forze armate all’estero.

Conclusioni
Dalla lettura dei documenti presi in esame si può vedere come nel corso degli ultimi dodici anni, pur variando l’ “elemento guida del momento” - il post-guerra fredda (1991-1994), piuttosto che il protagonismo dell’ONU (1996-1998), piuttosto che il nuovo attivismo della NATO (1999-2000) o per ultimo l’attenzione al terrorismo internazionale (2000-2004) - rimane costante l’indicazione degli interessi economici come oggetto principale dell’attività militare; arrivando a definire l’intervento di forze militari all’estero non come ultima scelta possibile di fronte all’insorgere di una crisi, ma bensì come strumento normale delle relazioni internazionali e della politica estera dell’Italia.
Ci sembra inoltre importante segnalare, come ulteriore elemento di forte preoccupazione, il fatto che alle forze armate venga sempre più affidato una presenza e un ruolo attivo anche all’interno del territorio nazionale, sia arrivando a individuare per le forze armate anche ruoli di tutela del benessere, dello sviluppo sociale e dei valori della nostra civiltà(9); sia prevedendo un maggiore addestramento per l’impiego in funzione di ordine pubblico(10)

note
1) Ministero della Difesa, “Modello di difesa – lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90”, ed. Ottobre 1991 e aggiornamenti.
2) Modello di difesa, 1991, pag. 19
3) Modello di difesa, 1991, pag. 30
4) “Aggiornamento del Modello di Difesa”, Stato Maggiore della Difesa, 1993; e il successivo “Modello di Difesa”, Stato Maggiore della Difesa, 1995
5) Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno 1999, pag.19, e Nota per l’anno 2000, pag I-5
6) Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno 2003, ed. Ottobre 2002, pag I-4
7) Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa per l’anno 2001, pag I-3
8) “La Difesa – Libro Bianco 2002” ed. Dicembre 2001.par. 1.1 Evoluzione nel quadro geostrategico.
9) “La Difesa – Libro Bianco 2002” ed. Dicembre 2001
10) Direttiva Ministeriale in merito alla politica militare 2002-2003, Ministero Difesa, marzo 2002

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Armi di distruzione di massa
Amnesty International - www.amnesty.it

Nel mondo in cui viviamo, sono in circolazione quasi 700 milioni di armi e altri 8 milioni vengono prodotte ogni anno. Ci sono aziende che le fabbricano, intermediari che le mettono in commercio, governi e privati che le acquistano e le vendono, persone che le utilizzano. E in fondo a questa catena, le vittime che ne muoiono, una al minuto. I dati sul traffico incontrollato di armi nel mondo sono sconvolgenti.

Occorre riflettere, innanzitutto, sui nomi degli stati che portano la responsabilità più grave di questa incontrollata proliferazione di armi nel mondo. Quasi il 90% proviene dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Usa, Russia, Cina, Francia e Regno Unito. I paesi in via di sviluppo sono i primi destinatari di questo commercio: circa il 70% del valore di tutte le armi commercializzate al mondo. Dal 1999 al 2003 Usa, Regno Unito e Francia hanno ricavato dalla vendita di armi ad Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina più di quanto hanno destinato in aiuti a queste stesse aree.

Anche l’Italia fa la sua parte: figura al secondo posto dopo gli Usa nella classifica dei paesi esportatori di armi leggere nel mondo ed è al settimo posto per valore complessivo di armi esportate. Nel 2003, ha venduto 1,3 miliardi di euro di armamenti, con un incremento rispetto al 2002 che sfiora il 40%. In un periodo generalmente caratterizzato da una crisi generale dei mercati, un solo settore ha mostrato capacità di performance incredibili: quello delle armi. Sono state esportate verso la Cina armi per 127 milioni di euro: prima ancora che il presidente Ciampi a dicembre si recasse a Pechino e, in nome degli interessi commerciali, annunciasse il vergognoso sostegno dell’Italia all’eliminazione dell’embargo sulle armi alla Cina, il nostro paese già aveva violato quell’embargo e la legislazione italiana./p>

Sono scandalose anche le cifre sul business delle esportazioni mondiali autorizzate: intorno ai 28 miliardi di dollari ogni anno. Si tratta di risorse che potrebbero essere sufficienti a ridurre la mortalità infantile ed eliminare del tutto l’analfabetismo in Africa, Asia, Medio Oriente ed America Latina; invece vengono utilizzate per sostenere le politiche sbagliate di governi che preferiscono ingigantire il loro debito estero nella corsa agli armamenti, piuttosto che sostenere programmi virtuosi, e spesso meno costosi, di sviluppo economico e lotta alla povertà. Non ci sono dubbi: la proliferazione delle armi acuisce la povertà del mondo. La metà dei paesi spende più soldi per la difesa che per la salute. Il 42% degli stati con il più alto budget destinato alla difesa figurano in fondo alla classifica dell’indice di sviluppo umano.

Ma le statistiche più difficili da raccontare sono quelle che davvero contano. Riguardano le conseguenze finali di questo commercio della morte. Un essere umano ogni minuto, 1.300 ogni giorno, almeno 500.000 all’anno. Le conseguenze, in termini di vittime, sono equiparabili a quelle di due Tsunami ogni anno.

Il traffico di armi colpisce in modo diretto o indiretto soprattutto i più deboli: le donne
e i bambini.

Per le donne, la presenza di un’arma tra le mura di casa è un fattore di rischio che aggrava a dismisura la portata della violenza domestica. In Francia e in Sudafrica una donna su tre che rimangono vittime di omicidio è uccisa dal proprio marito con un arma da fuoco; questo rapporto aumenta a due su tre negli Stati Uniti.

Le cifre sui minori accrescono la drammaticità del fenomeno. Non c’è solo l’imbarazzante dato dei 300 mila bambini soldato direttamente coinvolti in un conflitto, ma anche l’alto numero di minori che fa parte di bande criminali nelle tante periferie del mondo. In Brasile, ad esempio, le armi di piccolo calibro sono la prima causa di morte dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni: la gran parte delle pistole che vengono sequestrate giorno dopo giorno dalla polizia brasiliana proviene da una fabbrica italiana. Il nostro Made in Italy può davvero essere sempre un motivo di orgoglio nazionale?

Dalle gang di Rio de Janeiro e Los Angeles, alle guerre civili in Liberia e Indonesia; dalle crisi dei diritti umani in Sudan e Repubblica Democratica del Congo, alla violenza che ormai quasi non fa più notizia in Iraq e in Colombia. Siamo arrivati ad un punto critico: l’impatto della proliferazione incontrollata di armi ha conseguenze che sono diventate inaccettabili in termini di vite spezzate, di inasprimento del livello generale di violenza tra gli stati e all’interno degli stati, di opportunità perse nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze su scala globale.

Eppure invertire questa tendenza non è impossibile. In Canada nel 1995 è stata inasprita la legge sul possesso delle armi: nell’arco di 8 anni, il tasso di omicidi contro le donne è sceso del 40%. In Australia, cinque anni dopo la modifica di un’analoga legge, la percentuale si è addirittura dimezzata. Anche a livello internazionale i risultati ottenuti dalla campagna contro le mine antipersona dimostrano che il cambiamento è possibile: il trattato di Ottawa del 1997 non ha ancora portato al definitivo superamento del problema, ma da allora più nessun paese commercia apertamente questo tipo di armi.

"Control Arms" è un ultimatum ai governi, che autorizzano formalmente fino al 90% dei traffici di armi nel mondo. "Control Arms" è un richiamo alla loro responsabilità di disinnescare ora, subito le autentiche armi di distruzione di massa che circolano indisturbate:

attraverso un controllo statale più rigoroso sui trasferimenti, la disponibilità e l’uso delle armi, nel rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto umanitario; a partire dall’introduzione in Italia di una legge specifica sugli intermediari di armi e l’adozione di norme più restrittive sull’esportazione di armi leggere;
attraverso il rafforzamento dei meccanismi di controllo a livello regionale, a partire dalla revisione del Codice di Condotta europeo sull’esportazione di armamenti;
attraverso soprattutto l’adozione di un trattato internazionale sul commercio delle armi entro il 2006.

I principi alla base di questo trattato sono semplici e alla portata dei governi e della comunità internazionale. Intervengono sia sulla domanda che sull’offerta di armi e si propongono di:

- impedire il trasferimento di armi che sarebbero utilizzate illegalmente per violare i diritti umani, influenzare negativamente la sicurezza regionale o lo sviluppo sostenibile;

- subordinare qualsiasi trasferimento di armi all’autorizzazione di uno stato attraverso un meccanismo di licenze e alla registrazione degli intermediari e dei trasportatori;

- interrompere le forniture a quegli stati che sono sotto embargo o non hanno direttamente fornito il loro consenso al trasferimento stesso;

- garantire – come avviene per gli alimenti prodotti a partire da OGM o i bagagli negli aeroporti – il funzionamento di un sistema globale di marcatura e tracciabilità di armi e munizioni.

Parliamo di un trattato che ripropone obblighi già presenti nel diritto internazionale: possono sembrare norme minime di buon senso, ma riaffermarle in un testo solenne e vincolante dal punto di vista giuridico può realmente salvare milioni di vite.

Centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo hanno deciso di aderire a questa campagna. I governi di paesi come Brasile, Cambogia, Costa Rica, Finlandia, Kenya, Mali, Messico e da ultimo, a febbraio, il Regno Unito, hanno scelto di sostenere questa proposta. Amnesty International auspica che l’Italia faccia subito una scelta analoga.

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Commissione internazionale per le armi usate da Israele in Libano
Angelo Baracca, Paola Manduca, Monica Zoppè, su Social press<

Sono ormai numerose le testimonianze, raccolte da ospedali, testimoni, artificieri, giornalisti, che sollevano dubbi gravissimi su alcuni episodi dell’attuale offensiva Israeliana in Libano e Gaza. A parte la dispersione a tappeto di uranio impoverito, ed il grave danno ecologico derivato dalla dispersione di carburanti e sostanze chimiche in seguito ai bombardamenti su fabbriche e depositi, destano particolare preoccupazione i racconti e le immagini che mostrano “strani sintomi e sconosciuti” nelle vittime.

Si parla di corpi in cui i tessuti sono morti, ma che non mostrano ferite apparenti; corpi apparentemente ’rimpiccioliti’; feriti con le gambe semidistrutte, a cui vengono rapidamente amputate, e che nonostante cio` vanno incontro a necrosi diffusa e morte; sono stati descritti casi con ferite interne come da esplosione, ma senza traccia di scheggie; oppure di cadaveri anneriti, ma non bruciati, o altri apparentemente feriti, ma in cui non si riscontra traccia di sanguinamento (come se fossero prima morti e poi dilaniati)...

Tutto questo suggerice la possibilità che siano state utilizzate armi nuove: armi ad energia diretta, agenti chimici e biologici, in una specie di macabro esperimento di guerra futura, in cui non vi sia alcun rispetto per alcunchè: regole internazionali (dalla convenzione di Ginevra ai trattati sulle armi chimiche e biologiche), rifugiati, ospedali e croce rossa, per non parlare delle persone e del loro futuro, dei loro figli, dell’ambiente, che viene reso talmente velenoso da poter considerare una condanna il solo viverci.

Nonostante i problemi per i popoli palestinese e libanese siano molti ed immediati, diverse persone ritengono che questi episodi non debbano e non possano passare nell’indifferenza, anzi già diversi appelli sono stai rivolti ad e da esperti e scienziati perchè si faccia luce.

Abbiamo ritenuto di rispondere a questi appelli, e mettere a disposizione le nostre esperienze, conoscenze e capacità specifiche in risposta a queste richieste e alle domande che le immagini provenienti dai luoghi bombardati sollevano con forza.

Ci stiamo organizzando per essere in grado di offrire supporto alle istituzioni della salute Libanesi e Palestinesi che chiedono sostegno e verifiche. Stiamo esaminando tutte le testimonianze e le evidenze già raccolte, insieme ad altri esperti, per formulare ipotesi di investigazione che possano essere sottoposte a verifica.

Chiediamo un intervento da parte delle istituzioni scientifiche che ci rappresentano, e che hanno il dovere di vigilare e di intervenire in casi come questo.

Sosteniamo la richiesta che viene da più parti, in particolare dai medici delle zone di conflitto, perchè sia istituita dall’Onu una commissione internazionale ed indipendente dai Governi, che investighi sul campo le denuncie che implicano l’uso di armi di nuovo tipo e di distruzione di massa da parte di Israele nell’ attuale conflitto. Chiediamo fortemente che le procedure a questo scopo vengano attivate solertemente per garantire che i campioni biologici presi dai corpi delle vittime siano preservati in condizioni adeguate per studi scientifici.

Chiediamo che dunque questa commissione internazionale abbia accesso a livello a tutte le fonti disponibili, sia operativa e rispeti le procedure di controllo incrociato da parti di diversi laboratori che regolano la “scienza civile” e che quindi porti il caso di fronte alle autorita` competenti, inclusi il tribunale per i diritti umani, e le corti di giustizia internazionale.

Da parte nostra, ci riuniremo presto per dare forma operativa all’esame delle tutte le testimonianze ed evidenze, sin qui disponibili ed allargare il gruppo di lavoro ad altri esperti.

Come persone e come scienziate/i mettiamo a disposizione quanto possiamo per giungere alla conoscenza dei fatti, convinti che una prospettiva di giustizia, di equita` e di convivenza pacifica tra i popoli siano approssimabili solo con il rispetto delle regole che la comunità internazionale si è data sin ora per quanto riguarda i comportamenti delle parti nei conflitti. Ne chiediamo solo verifica.

Ci rivolgiamo a tutte/i le scienzate/i affiche` contribuiscano a questo lavoro portando le loro competenze specifiche ed un aiuto concreto. In particolare, tossicologi, chimici, farmacologi, anatomo patologi e medici esperti di ustioni/traumi sono invitati a mandare una mail all’indirizzo che abbiamo attivato a questo scopo: nuovearmi@gmail.com

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No Dal Molin

VERSO IL 15 DICEMBRE
LETTERA APERTA: SE NON ORA, QUANDO?

Non lo nascondiamo: siamo dei sognatori; vorremmo impedire alla più grande potenza militare mondiale di mettere casa nel nostro cortile.
E' vero, siamo anche un pò testardi; ce lo hanno detto in tutte le salse: «cari vicentini, mettetevela via, gli interessi della guerra saranno più forti dei vostri presidi» .Pazzi? Può darsi: del resto, chi avrebbe montatoun Festival-campeggio di 10 giorni?

Eppure, siamo ancora qui. In questi giorni raddoppiamo il nostro Presidio Permanente; tutto intorno, un silenzio assordante, fatto di quotidiani e telegiornali che, dopo aver assediato Vicenza in concomitanza con il grande corteo del 17 febbraio, ora non hanno più nulla da dire su un movimento che ha continuato a vivere di passione e determinazione. Un movimento che si esprime tra e con la gente di Vicenza, attraverso iniziative e manifestazioni continue: abbiamo tagliato i cavidotti funzionali alla nuova base Usa, occupato la Basilica Palladiana, piantato 150 alberi all'interno del Dal Molin; abbiamo bloccato, per tre giorni e tre notti, le bonifiche belliche – iniziate un mese fa – necessarie per iniziare la costruzione dell'installazione militare, e le donne del Presidio, sono andate a Firenze per boicottare l'ABC – azienda incaricata delle bonifiche – e proseguire la campagna dei blocchi.

Con i primi blocchi dei lavori abbiamo imparato, ancor di più, ad essere una comunità; e abbiamo sentito, da tante parti d'Italia, la solidarietà e la condivisione che tante donne e tanti uomini esprimono per la lotta vicentina.
Abbiamo chiesto, anche, che i 170 Parlamentari che si sono dichiarati contrari alla realizzazione della nuova base Usa mantengano la propria promessa: portare subito in Parlamento la moratoria sui lavori in attesa dello svolgimento della Seconda Conferenza sulle servitù militari e chiedere la desecretazione degli accordi militari bilaterali.
Questo, ad oggi, non è avvenuto: abbiamo già visto il Governo promettere di ascoltare la comunità vicentina e poi tradirla: c'è qualcuno che vuol seguire il solco tracciato da Prodi? Non portare subito in Parlamento la moratoria, infatti, significa comportarsi nello stesso modo del Presidente del Consiglio che, dopo aver promesso di voler considerare la vicenda alla luce della volontà della comunità locale, dichiarò dall'estero di non opporsi alle richieste statunitensi svendendo la nostra città.
Lo scorso 17 febbraio, insieme, abbiamo dimostrato quanto grande è il movimento che vuol battersi contro la guerra e la militarizzazione del territorio, per la difesa della terra e la costruzione di nuove pratiche di democrazia; ma Vicenza, da sola, è insufficiente a sostenere questa lotta che, pure, accomuna gran parte della popolazione locale: Vicenza è solo un villaggio nella grande comunità che crede in un altro mondo possibile. Abbiamo bisogno, ancora una volta, della vostra condivisione, della vostra partecipazione, della vostra solidarietà.
Abbiamo convocato, a dicembre, una tre giorni europea di confronto, contaminazione, approfondimento; vogliamo allargare i nostri orizzonti, conoscere nuove comunità, condividere altre lotte. Ma vogliamo, anche, dimostrare che la vicenda del Dal Molin è ancora aperta: per questo il 15 dicembre un grande corteo attraverserà le strade della nostra città. Abbiamo sempre detto che “se si sogna da soli è solo un sogno, se si sogna insieme è la realtà che comincia”: vi chiediamo di condividere il nostro sogno, ancora una volta, perché una terra senza basi di guerra possa diventare realtà.

Se non ora, quando? Vicenza chiama, ancora una volta: e noi siamo sicuri che risponderete in tanti. Perché Vicenza vive già al di fuori dei suoi confini.


Presidio Permanente contro la costruzione della nuova base Usa a Vicenza
Via Ponte Marchese - c.p. 303 36100 Vicenza

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Reportage uranio
tratto da www.osservatoriobalcani.org - dicembre 2006
di Luisa Morfini e Ciro Cortellessa, Centro di Documentazione di San Donato Milanese

Di fronte al fenomeno delle numerose morti dei soldati italiani che hanno preso parte alle diverse operazioni di decontaminazione del territorio bosniaco dopo la fine della guerra nella ex Jugoslavia, viene da domandarsi quale sia lo stato di salute della popolazione bosniaca che abita o abitava nelle stesse zone in cui hanno operato i nostri soldati. Non è solo una curiosità, è anche uno degli obiettivi della nuova Commissione d'inchiesta sull'uranio impoverito, recentemente istituita dalla Commissione difesa del Senato, la cui principale novità risiede nella possibilità di indagare non solo sui militari colpiti ma anche “sulle popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale”.

Un’analisi della diffusione delle patologie tumorali in Bosnia (in termini quantitativi e con riferimento alla provenienza geografica dei malati) potrebbe fornire elementi anche per verificare l’eventuale correlazione tra l’insorgere delle malattie e le condizioni ambientali che si sono create come conseguenza dell’esplosione di proiettili all’uranio impoverito. Come si evince dalla letteratura recente sull’argomento, a cui si rimanda, non è né dimostrato né negato il legame diretto tra l’insorgere dei tumori e la presenza di radioattività da uranio impoverito nell’ambiente; tuttavia alcuni ricercatori stanno verificando che lo sviluppo di numerosi tumori (linfomi e leucemie) che si riscontrano nei nostri soldati è correlabile all’inalazione e all’ingestione delle nano-particelle di metalli pesanti; si tratta dei metalli pesanti contenuti nei proiettili e che, alla elevata temperatura che si genera nell’esplosione proprio in virtù dell’uranio impoverito, si riducono alla dimensione di non-particelle cancerogene.

Verificare e denunciare con più evidenza il legame tra malattie e condizioni ambientali potrebbe servire alla causa della richiesta di decontaminare il territorio.

Attraverso le interviste realizzate abbiamo quindi cercato risposta alle seguenti domande:
- è aumentato in Bosnia il numero dei malati e dei morti per linfomi e leucemie, cioè per le stesse malattie di cui sono stati vittime i nostri soldati?
- dove vivevano le persone che si sono ammalate?
- l’ambiente bosniaco risulta contaminato ed eventualmente da che cosa (radiazioni e/o nano-particelle)?

Non è semplice trovare risposta a queste domande; o meglio, non è semplice trovare qualcuno che risponda. Per diversi motivi. Ma qualcosa emerge.

L’aumento della mortalità

Al Ministero della Salute della Bosnia Erzegovina non esistono registri dei malati prima della guerra confrontabili con i registri dei malati dopo la guerra. Questo è dovuto al fatto che, dopo gli accordi di Dayton della fine del 1995, una parte significativa della popolazione di origine serba si è spostata in altre zone e in particolare in Republika Srpska, dove è stata inserita nei registri delle relative istituzioni sanitarie; allo stesso modo in Federazione sono arrivate altre persone di origine bosniaca e croata che prima vivevano in altre zone. Dunque le Autorità sanitarie bosniache non possono verificare se tra le persone che abitavano le zone bombardate al momento delle esplosioni con l’uranio impoverito c’è stato un aumento della mortalità.

Questo per quanto riguarda il confronto tra dati raccolti prima e dopo le esplosioni. Ma, poiché l’ambiente potrebbe essere ancora contaminato (da radiazioni, ma anche da nano-particelle) sarebbe utile conoscere lo sviluppo dei tumori nella popolazione che ormai da 11 anni abita nelle zone bombardate (le zone sono abitate da bosniaci e anche un certo numero di serbi che hanno scelto di rimanervi). Ma anche questi dati non sono in possesso del Ministero della Salute. Goran Cerkez, assistente del Ministro, dice che questa specifica verifica non è stata fatta perché ci sono altre priorità di cui il Ministero si deve occupare per la Bosnia.

All’Ospedale Kosevo di Sarajevo, dove l’indicazione dell’eventuale aumento della mortalità per tumori dovrebbe poter essere accessibile, un appuntamento già concordato con la professoressa Nermina Obralic dell’Istituto di Oncologia, ci viene negato all’ultimo minuto; la professoressa dice che a novembre 2005 ha incontrato una Commissione medica italiana e che ha già detto tutto quello che aveva da dire.

In effetti durante tale incontro sono stati stabiliti contatti importanti tra alcuni medici di Sarajevo e dei ricercatori italiani. In particolare la dottoressa Antonietta Gatti dell’Università di Modena, colei che ha individuato la probabile responsabilità delle nano-particelle nell’insorgenza dei diversi tumori nei nostri soldati, sta collaborando con alcuni medici dell’Ospedale Kosevo che, in modo informale, le mandano i dati clinici di alcuni malati per un confronto con i dati dei soldati italiani. Le verifiche di analogie patologiche sono in corso. Ma questo tipo di collaborazione non è tra le attività prioritarie dell’Ospedale che è in forti difficoltà economiche e al momento ha altre priorità (la disponibilità di medicinali, ad esempio: fino a pochi anni fa erano forniti gratuitamente dagli americani, ma adesso scarseggiano).

Poniamo la stessa domanda relativa alla verifica dell’aumento della mortalità al professor Slavtko Zdrale dell’Ospedale Kasindo: l’ospedale si trova nella parte serba di Sarajevo (Sarajevo Est, che qualcuno chiama Srpski Sarajevo) e dovrebbe avere in cura malati prevalentemente serbi, quindi in teoria la parte maggiormente “lesa” dall’esplosione dei proiettili all’uranio impoverito. Il dottor Zdrale però è restio a fornire dati; gli interessa di più dire che a Belgrado i medici sono riusciti a curare con successo un uomo affetto dai tipici tumori legati all’esplosione di uranio impoverito.

Un interlocutore più disponibile a dare informazioni sull’aumento delle malattie è l’associazione “Il cuore per i bambini malati di cancro nella Federazione di Bosnia Erzegovina” (“Srce za djecu koja boluju od raka u FBiH”) e il suo presidente, Sabahudin Hadzialic. L’associazione è stata fondata a Sarajevo nell’aprile del 2003 e riunisce genitori e amici di bambini malati; essa ha verificato che dopo la guerra la situazione dei bambini malati di cancro ha assunto dimensioni molto maggiori rispetto a prima, per motivi diversi; in particolare nella Federazione la malattia è raddoppiata rispetto al periodo precedente alla guerra, cioè rispetto alla diffusione della malattia tra il 1990 e il 1992; è raddoppiata soprattutto nel periodo 2000-2004: in tale periodo nella sezione di Oncologia e di Ematologia della Clinica Pediatrica a Sarajevo sono stati ricoverati 230 bambini con forme varie di cancro: leucemie, linfoma, cancro delle ossa, eccetera.

Questo dato, nella sua drammaticità, è importante ma è troppo semplice, è incompleto e non consente di individuare un legame diretto tra tumori e presenza di uranio impoverito o di nano-particelle nell’ambiente; bisognerebbe sapere di quali tumori sono malati i bambini e in quali aree di Sarajevo vivevano per poter eventualmente mettere in relazione la malattia con la contaminazione da uranio impoverito. Ma all’Associazione non è stato possibile fare questa verifica. Sabahudin Hadzialic ha chiesto da anni al governo della Federazione di effettuare degli studi indipendenti, ma non gli sono stati concessi. Al momento l’informazione può essere accolta come un dato di fatto: nell’area di Sarajevo la mortalità dei bambini è aumentata dopo la guerra.

L’unico lavoro oggi disponibile di verifica dell’aumento della mortalità collegabile alle esplosioni di proiettili all’uranio impoverito è quello di Slavica Jovanovic, dottoressa della Dom Zdraljie di Bratunac, la Casa della Salute. Il suo studio riguarda la popolazione direttamente esposta alle esplosioni, poiché ha analizzato l’aumento di tumori tra i profughi che vivevano ad Hadzici. Hadzici è una località a 27 km da Sarajevo che durante la guerra era in mano ai serbi, i quali anche da tale postazione assediavano la città: la località, e in particolare una fabbrica di manutenzione di armamenti, è stata bombardata dalla Nato nel settembre del 1995 con proiettili all’uranio impoverito. Ora i profughi serbi di Hadzici si sono spostati a Bratunac, cittadina che gli accordi di Dayton hanno attribuito alla Repubblica Srpska.

La dottoressa Jovanovic ha analizzato i dati relativi alla mortalità nella popolazione proveniente da Hadžici (tra le 4.500 e 5.500 persone) e da altre regioni del Cantone di Sarajevo. In particolare ha analizzato e confrontato la percentuale di mortalità su tre gruppi di popolazione del territorio del Comune di Bratunac dal 1996 al 2000:

- popolazione residente a Bratunac già prima della guerra
- profughi arrivati a Bratunac da Hadzici
- profughi arrivati a Bratunac da altre zone della Bosnia Erzegovina.

L’analisi dimostra che la mortalità tra i profughi di Hadzici è 4,6 volte più alta rispetto a quella della popolazione di Bratunac, mentre la mortalità dei profughi che arrivano da altre parti della Bosnia è 2,2 volte maggiore rispetto a quella dei cittadini di Bratunac.

Ci sono diversi possibili motivi per spiegare l’alta percentuale di mortalità nella popolazione che si è spostata da una parte all’altra del territorio: lo stress durante e dopo la guerra, la perdita di familiari e di beni, la cattiva alimentazione, le cattive condizioni igieniche, ma anche la vita in un territorio contaminato da radiazioni o da nano-particelle di metalli pesanti. Dalla stessa analisi svolta dalla dottoressa Jovanovic è possibile estrapolare la percentuale di mortalità dovuta a tumori e verificare come la popolazione di Hadzici presenti la percentuale maggiore rispetto agli altri due gruppi. Purtroppo non viene fornito il dato di dettaglio circa la tipologia di tumori, dato che potrebbe confermare il legame con la contaminazione dell’ambiente da parte dell’uranio. Però intanto si registra che la mortalità da tumore di questa popolazione è più del doppio rispetto a quella della popolazione locale e supera di un terzo la mortalità per tumore degli altri profughi.
Dopo il 2000 l’analisi non è stata più proseguita perché il gruppo target di Hadzici non era più in condizione di essere seguito, avendo subito ulteriori grandi migrazioni.

Il lavoro della dottoressa Jovanovic indica che le persone che abitavano nelle zone dove è avvenuta l’esplosione dei proiettili si sono ammalati di tumore e sono morti in percentuale maggiore rispetto alla popolazione non esposta.

Invece, per quanto riguarda l’aumento della mortalità nella popolazione attualmente residente, l’unica segnalazione è quella proveniente dal dato del raddoppio della mortalità nei bambini che vivono intorno a Sarajevo.

Ma quali sono le condizioni ambientali attuali delle zone bombardate nel 1995?

La contaminazione dell’ambiente secondo l’Istituto di Igiene di Sarajevo

L’Istituto di Igiene della Facoltà di Medicina di Sarajevo ha svolto una ricerca nel corso della quale ha analizzato 37 luoghi in cui si sospettava la presenza di uranio impoverito; i ricercatori Suad Dzanic e Delveta Deljkic hanno trovato tracce di uranio impoverito solo ad Hadzici, in prossimità della fabbrica bombardata. La tabella che segue sintetizza i risultati delle rilevazioni a Hadzici.

I rilevamenti sono stati fatti a partire dal 2004 e per tutto il 2005. Non ci sono dati relativi agli anni immediatamente successivi ai bombardamenti. Il ritardo nelle analisi è dovuto - rispondono i ricercatori – al fatto che negli anni precedenti non c’erano i fondi per fare tale lavoro. La verifica è comunque importante perché sia nell’ipotesi che ad essere nociva sia la radiazione dell’uranio impoverito, sia nell’ipotesi che lo siano le nano-particelle di metalli pesanti, entrambe le possibili cause hanno durata nel tempo, non decadono.

Purtroppo l’Istituto di Igiene ha verificato la presenza di radiazioni solo nell’acqua; i ricercatori hanno analizzato l’acqua nei punti esatti delle esplosioni, subito a lato di tali punti e lontano da essi; e non hanno trovato tracce significative di radiazioni. Ma perché le verifiche sono state fatte solo nell’acqua? La risposta è che, siccome nell’acqua non hanno trovato tracce significative, non hanno analizzato il terreno. Questo anche perché, secondo i ricercatori e Goran Cerkez, il terreno attualmente non è contaminato. Non lo è, dicono, sia perché negli anni precedenti il governo federale ha dato dei fondi per decontaminare le aree, sia perché l’uranio impoverito si potrebbe essere diluito.
Vedremo che quest’ultima valutazione è in contraddizione con quanto rilevato da altre istituzioni.
Per quanto riguarda la possibile contaminazione dell’ambiente da parte di nano-particelle di metalli pesanti, vi ha lavorato un laboratorio all’Istituto di Sanità di Sarajevo: per il momento nell’acqua non sono state rilevate tracce di metalli pesanti; ma anche in questo caso non è stato analizzato il terreno; le ricerche, dati i fondi a disposizione, per il futuro andranno avanti solo per il rilevamento delle radiazioni, non delle particelle, e solo nell’area di Hadzici. Se in futuro dovessero essere segnalate altre località, anch’esse saranno analizzate.

La contaminazione dell’ambiente secondo la Commissione parlamentare

La Commissione parlamentare sull’uranio impoverito in Bosnia Erzegovina è stata istituita nel febbraio del 2005; essa era presieduta dalla serba Jelina Djerkovic e composta da medici, da fisici nucleari, da chimici e da veterinari.

La Commissione ha acquisito alcune informazioni sull’influenza delle radiazioni dell’uranio impoverito sulla salute delle persone e sull’ecosistema; in particolare ha collaborato con gli Istituti di Salute di Sarajevo, di Sarajevo Est e di Bratunac (si veda il citato lavoro della dottoressa Jovanovic) e ne ha assunto i risultati; ha poi collaborato con un Istituto di Ingegneria genetica di Sarajevo che è arrivato alla conclusione che la radiazione provoca modifiche genetiche.

Un altro degli obiettivi della Commissione è stato quello di individuare quali aree erano state decontaminate e quali restano ancora contaminate. Sono stati quindi raccolti i dati relativi al lavoro di decontaminazione delle istituzioni bosniache e della Republika Srpska, i rilievi che l’UNEP ha realizzato presso la fabbrica di Hadzici e presso altre località, e i dati che la Nato ha messo a disposizione circa le coordinate dei bombardamenti. I dati rilevati non sono completi: la Nato, per esempio, ha dato solo le coordinate di 16 località sul totale delle 21 bombardate. In ogni caso le tre località maggiormente colpite a oggi risultano Hadzici, Han Piesak in Repubblica Srpska e Kalinovik.

Di queste tre località solo una parte di Hadzici (non tutta la fabbrica) è stata decontaminata, le altre no. Così esse sono ancora minate e vi sono ancora i proiettili all’uranio impoverito nel terreno e negli edifici; gli esperti della Commissione hanno espresso il parere che per decontaminare queste località sia necessario togliere definitivamente questi proiettili perché, se è vero che dopo 10 anni la radiazione superficiale non è più presente nell’aria, essa permane nell’acqua e nel terreno. Inoltre i proiettili rimasti inesplosi nel terreno sono pericolosi perché, dice Jelina Djerkovic, nei prossimi 30-40 anni si possono ossidare e liberare le particelle di metalli pesanti che contengono e quindi inquinare terra e acqua ed entrare nella catena alimentare.

Anche Zijad Fazlagic, direttore della fabbrica di Hadzici bombardata, conferma che non tutto il terreno della fabbrica è stato decontaminato. C’è un rapporto UNEP che segnala i punti bombardati di Hadzici, ma i proiettili sono entrati a fondo nel terreno e, dice Fazlagic, “quando guardi con gli occhi non li vedi; ma ci sono”.

La Commissione ha concluso i lavori a novembre 2005 arrivando ad alcune raccomandazioni:

- ha suggerito che il governo della BiH crei un istituto per la sicurezza finalizzato ad affrontare a questo problema e che potenzi gli Istituti che si occupano di salute;
- ha suggerito un set di leggi per la protezione dalla radiazione nucleare in caso di nuova contaminazione per l’uranio non ancora esploso (per evitare di trovarsi impreparati come ai tempi di Chernobyl);
- ha chiesto che si completi in modo esaustivo il censimento delle località ancora minate da uranio e metalli pesanti.

Nel marzo 2006 l’Agenzia atomica europea ha messo a disposizione 60.000 euro per i problemi connessi con la decontaminazione da uranio. La Commissione ha chiesto che siano formulati precisi programmi per la decontaminazione e che siano formate squadre di esperti per utilizzare questi fondi per curare le conseguenze dell’uranio sull’ambiente e sulla salute.

Perché

L’impressione che si ricava dall’insieme di questi contatti è che le autorità bosniache non si possano ancora permettere di affrontare il problema in modo esaustivo. A tratti sembrano anche cercare di ridimensionarlo. Cerkez, per esempio, Assistente del Ministro della Salute, dice che “si fa troppa ricerca e si parla troppo di uranio mentre bisogna cercare anche altre cause”; in particolare, con riferimento alle morti dei nostri soldati, Cerkez domanda: “Cosa hanno mangiato i vostri militari quando erano qui? Io so che i cittadini della Bosnia per tutta la guerra hanno mangiato cibo in scatola per tre anni, con molti conservanti: questi sono fattori di rischio. Anche lo stress è un fattore di rischio, molto più dei bombardamenti. Secondo le nostre fonti ci sono altre cause per le numerose morti”

E’ vero che le cause dell’aumento della mortalità potrebbero essere diverse, è vero che non si può pretendere troppo da un Paese che sta lentamente riprendendosi dalla guerra tra mille difficoltà di natura economica e legate alle esigenze di ricostruzione. E’ vero che ci sono molti altri problemi prioritari da affrontare tutti i giorni (come la disoccupazione al 40%, tanto per dirne una). Però, negare la “responsabilità” della contaminazione ambientale correlata con l’esplosione dell’uranio impoverito ha conseguenze pericolose per la popolazione, e intralcia l’avvio del necessario percorso di ulteriore decontaminazione del territorio.

Intervista a Zvonko Maric

>Abbiamo raccolto il parere di Zvonko Maric, giornalista di “Bosnia-Hercegovina Federacija TV”; Maric lavora ad un programma televisivo che si occupa di quei problemi di cui nella stessa Bosnia si parla poco, di problemi che tanti hanno paura di affrontare, come il caso dell’uranio impoverito.

Perché le autorità bosniache non possono dedicare energie al problema dell’uranio impoverito? >

Uno dei motivi è il fatto che le Nazioni Unite non hanno controllato bene, non hanno avvisato bene ed hanno anche fatto una grande pressione presso il Parlamento bosniaco, presso la Commissione parlamentare, chiedendo di non parlare, di non mettere in evidenza questo problema. Anche il Parlamento bosniaco è sotto pressione.Un secondo motivo è l’intenzione di tenere la popolazione bosniaca più serena, perché se si cominciasse a parlare di questo problema, la popolazione si preoccuperebbe molto e forse ci sarebbe ancora un ulteriore spostamento di popolazione.Sarebbe necessario portare in tribunale i responsabili delle Nazioni Unite che hanno lasciato eseguire questi bombardamenti all’uranio impoverito. Qua potete parlare con i giornalisti che hanno coraggio e che vogliono che si scopra la verità e che qualcuno risponda per essa. Quelli che sono meno curiosi non parlano mai, cercano di evitare il problema perché temono di non resistere nel portarlo avanti.

Secondo lei qual è la vera dimensione del problema nei dintorni di Sarajevo e nei campi profughi serbi in Republika Srpska?

Il problema ha delle dimensioni che si cerca di nascondere. Solo quelli che non vogliono essere e non sono informati non sanno che pericolo esiste; ma tutti quelli che sono un po’ informati, non possono non vedere sia il dato del numero di soldati italiani che sono stati qua in missione di pace e che sono morti, come anche il dato dell’elevato numero di persone che abitavano a Hadzici, e che ora vivono nei campi profughi di Bratunac e che si ammalano e muoiono. Stanno morendo molti giovani. Ma si ammalano e muoiono tante persone che vivono ora a Hadzici.

Jelina Djerkovic ha detto che molti posti non sono ancora stati decontaminati...

E’ vero e non si può negare, ma la cosa peggiore è che nessuno fa qualcosa per decontaminare quei terreni che rappresentano ancora oggi un pericolo per le bombe ancora non esplose nel terreno. La Bosnia Erzegovina non è ancora uno Stato normale. Non voglio che si pensi che la popolazione non sia normale, sono i politici a non essere normali, non so se si arrabbiano a sentire dire questo, ma lo posso mettere per iscritto: non sono normali. Non hanno fatto proprio niente per proteggere la popolazione, per garantire il diritto alla salute.
L’unica loro preoccupazione è la criminalità, ma non per eliminare quel problema. Come giornalista ho verificato tante volte che non fanno niente per proteggere il diritto alla salute della popolazione, che è uno dei diritti più importanti.

Secondo lei, anche la Commissione parlamentare ha subito pressioni nei suoi lavori?

Sicuramente le commissioni che si formano in Bosnia hanno l’obiettivo specifico di non fare niente, vengono messe le persone che non vogliono fare niente.

Lei hai la libertà di dire queste cose nella sua televisione?

Io le dirò sempre queste cose; vivo da 4 mesi protetto da poliziotti perché ci sono delle persone che mi minacciano, ma io le dirò sempre.

Ma la sua trasmissione va in onda su questo argomento?

Sicuramente, sì. Vorrei però dire ancora una cosa sulla Commissione: essa è sempre sotto la pressione dei politici e delle Nazioni Unite e funziona sempre sotto quelle pressioni; la Commissione non ha tanta forza, tanta possibilità di trattare questo problema, di avere tutti i dati ma anche se li ha, non può pubblicarli. La Commissione è politica, non ha esperti.

Cosa pensa del lavoro di Slavica Jovanovic?

Lei ha provato ma il suo lavoro non è stato sufficiente. Non perché non sia preparata, ma perché anche lei è stata sotto pressione. In tutta la Bosnia non si trova nessuno che possa dimostrare la relazione tra malattie e presenza di uranio impoverito. Tutti fanno tentativi di fare qualcosa, ma sono quasi tutti sotto pressione.

Cosa pensa del lavoro di Slavtko Zdraje?

Lui ha alcuni dati, ma se ve li darà, lo farà in modo non ufficiale, perché non li può dare; magari ve li darà un po’ modificati. Davanti alla telecamera dirà qualcos’altro, un po’ meno di quello che è veramente; se gli dici che lo proteggerai e che non metterai il suo nome e cognome, i dati possono essere più importanti, più vicini alla verità.

Solo i giornalisti parlano e non hanno paura; hanno paura della loro sicurezza, ma non della loro carriera; sono minacciati, ma non rischiano il posto di lavoro; gli altri cercano di nascondere la verità perché proteggono il loro posto di lavoro. In Bosnia funziona tutto così: se tu intervisti qualcuno della Commissione e gli prometti di non dire il suo nome, ti darà più informazioni rispetto a quello che ti dirà di fronte ad una telecamera.

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Le sfide della nuova commissione di inchiesta
Gigi Malabarba (già segretario della Commissione d’inchiesta)
su Guerre & Pace - Dicembre 2006

Della “Sindrome dei Balcani” - così definita sull’onda della più nota Sindrome del Golfo, che colpì migliaia di soldati statunitensi dopo la prima guerra in Iraq – si parla ormai apertamente da almeno sei anni, ma ancora nessuna verità ufficiale ha potuto essere scritta sulle vere cause che hanno prodotto con certezza le patologie tumorali che hanno coinvolto dai trecento ai cinquecento militari italiani in missione, causandone la morte col tempo di oltre il dieci per cento.
La tradizionale omertà delle gerarchie militari si è combinata con le reticenze e i veri e propri boicottaggi politici dei governi di centrosinistra, responsabili diretti dei bombardamenti sulla Jugoslavia e dell’invio delle truppe italiane nei Balcani, ma anche di centrodestra, proprio perché tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti e sostenitori del ruolo della Nato come nuova force de frappe a livello mondiale.
Solo nel 2005 ha potuto essere avviata, infatti, una Commissione parlamentare d’inchiesta monocamerale al Senato, dopo anni di rinvii e al prezzo di rinunciare esplicitamente ad aprire indagini sulle popolazioni civili. In particolare l’allora Ministro della Difesa, Antonio Martino, ed il suo partito, Forza Italia, attivarono tutti gli strumenti per bloccare l’iniziativa parlamentare, con un ruolo decisivo del presidente del Senato, Marcello Pera, non a caso appartenente alla stessa formazione politica.
E pur tuttavia la scelta di percorrere anche in queste condizioni la strada istituzionale si è rivelata giusta: con il lavoro solo di alcuni mesi non si è potuto dimostrare il nesso causale tra i munizionamenti all’uranio impoverito e l’insorgere delle malattie, ma – grazie soprattutto ad un lavoro scientifico di notevole livello prodotto da alcuni dei consulenti - si è riusciti a dimostrare che l’ingerimento o l’inalazione di nanoparticelle di metalli pesanti prodotte dalle esplosioni belliche provoca quegli effetti cancerogeni su quei militari di età compresa prevalentemente tra i venti e i trenta-trentacinque anni, arrivati in Bosnia e in Kosovo dopo i bombardamenti.
Immaginiamoci quali possono essere gli effetti sulle popolazioni che lì ci vivevano e ci continuano a vivere. E soprattutto a morire!
Le ragioni dell’occultamento della verità sono numerose. Certo la non volontà di farsi carico del risarcimento dei militari colpiti e dei loro familiari. Ma soprattutto l’esigenza di voler continuare a utilizzare proiettili all’uranio impoverito in tutti i conflitti in corso, per i costi irrisori dovuti all’utilizzo degli scarti delle centrali nucleari (che peraltro non si sa come eliminare) e perché dotati di una particolare efficacia di penetrazione.
Comincia a delinearsi anche l’ipotesi che migliaia di giovani siano stati cinicamente mandati allo sbaraglio nei Balcani (e successivamente in Afghanistan e in Iraq), ossia senza protezioni e quindi a rischio di contaminazione, perché altrimenti si sarebbe dovuto riconoscere gli effetti devastanti dei bombardamenti ai danni di quelle popolazioni che la cosiddetta guerra umanitaria avrebbe dovuto aiutare…
La strada per la messa al bando della guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti passa da un’articolazione di iniziative su diversi piani, di cui è possibile tracciare un filo comune.
Le conseguenze disastrose in termini di devastazione ambientale e di danni irreparabili alla salute delle persone per generazioni, com’è possibile dimostrare, possono portare alla messa al bando degli armamenti più micidiali, rendendo nel contempo insopportabile nella coscienza delle persone la stessa guerra. E che ci sia bisogno di un lavoro permanente e sistematico lo dimostra la recente scoperta in Libano persino di uranio arricchito nei crateri provocati dai 34 giorni di bombardamenti israeliani, come denunciato dall’omologo "Comitato di sorveglianza sugli effetti dell’uranio impoverito" del Ministero della Difesa britannico. Tel Aviv avrebbe infatti fatto uso, tra l’altro, di minibombe nucleari sperimentali o di ordigni similari, in cui non si attuerebbe la tradizionale reazione atomica, ma un processo thermobarico basato sulle alte temperature di un’evaporazione rapida per ossidazione di uranio. Stiamo parlando di armi di distruzione di massa proibite dalla Convenzione di Ginevra, ma che ai suoi divieti sfuggono in quanto non ancora formalmente elencate nei registri ufficiali perché “sconosciute”.
Le particelle di ossido di uranio nell’atmosfera sono una minaccia gravissima per gli abitanti e si arriva a scoprirlo solo per il fatto che alcuni paesi hanno attivato strumenti di indagine sui rischi che possono correre i contingenti militari multinazionali della missione Unifil, italiani compresi.
L’urgenza dell’istituzione della nuova Commissione d’inchiesta del Senato che, grazie alla serietà del lavoro sviluppato nella passata legislatura, ha ottenuto di poter indagare non solo sui militari colpiti ma anche sulle “popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale” è motivata anche dalla controffensiva in corso da parte delle gerarchie militari e dall’ignavia finora dimostrata dal nuovo Ministero della Difesa.
Da una parte, a fronte delle prime cause intentate dai militari colpiti che non hanno accettato il ricatto del silenzio in cambio di promesse di risarcimento, la Difesa ha contrattaccato con la spregiudicatezza volgare e intimidatoria di chi sa di parlare con coperture politiche di ogni colore, arrivando persino a mettere sul banco degli imputati chi ha denunciato le negligenze dei vertici dell’esercito italiano.
Dall’altro lato, chi nella Sanità militare ha resistito al linciaggio personale, continuando a far funzionare laboratori come quello presso l’Ospedale militare di Padova, è stato brutalmente allontanato dal suo lavoro chissà perché proprio ora. Il tenente colonnello Ezio Chinelli, già consulente della Commissione d’inchiesta, ha pagato la sua coerenza personale con il licenziamento, senza che nessuno abbia mosso un dito in sua difesa.
Bisogna che le associazioni presenti sul territorio, a partire da quelle che si mobilitano contro le basi militari in Sardegna e non solo, tornino a far sentire la propria voce proprio in rapporto alla ripresa dell’inchiesta, in quanto costituiscono nei fatti il possibile perno oggi di un ricostruendo “movimento contro la guerra” in Italia.
Sarà particolarmente utile poi che la Commissione utilizzi un importante lavoro epidemiologico realizzato sui lavoratori della Zastava di Kragujevac in Bosnia, diretto prodotto della solidarietà operaia italiana nata durante la guerra alla Jugoslavia. Fulvio Perini, uno storico sindacalista torinese esperto di malattie professionali e di lotte per la salute e la sicurezza dei lavoratori, è riuscito a impostare un metodo d’indagine denominato “Dama di coorte” per monitorare 1500 lavoratori di questa azienda collegata alla FIAT e bombardata durante la guerra, dove si sono realizzati importanti lavori di bonifica e dove i casi di tumore tra gli operai sono cresciuti in maniera esponenziale.
Perini ha potuto verificare che le colonne portanti dei capannoni in putrelle d’acciaio erano state abbattute dalle esplosioni e risultavano attraversate da schegge, che avevano fuso il metallo in frazioni infinitesimali di secondo. Sulla fabbrica erano, infatti, stati sparati dalla NATO missili da crociera, bombe che esplodevano in aria una volta perforato il tetto per poter devastare la fabbrica e bombe che penetravano nel suolo prima di esplodere. Il servizio medico della Zastava dispone di tutti i dati degli operai che hanno lavorato alla bonifica e che si sono ammalati, diversamente da altri settori di popolazione di cui è difficile ricostruire le condizioni di salute nel corso del tempo, anche a causa degli spostamenti dovuti alla guerra e delle distruzioni degli archivi ospedalieri.
In ogni caso, la Commissione d’inchiesta dovrà cessare ogni atteggiamento subalterno nei confronti del Ministero della Difesa e attivare pienamente i suoi poteri inquirenti, pretendendo di avere a disposizione tutti i dati relativi ai militari e ai civili disponibili, e intervenire direttamente su settori di popolazione già individuabili in Italia e nelle zone di guerra.

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BASTA BASI - BASTA GUERRA - CONTRO LE SERVITU' MILITARI

Vicenza 2 dicembre,
riflessioni da Il Manifesto - 05 Dicembre 2006

«Nessuno può più ignorarci, gli americani non passeranno»

Dopo il successo del corteo di sabato contro la base Usa a Vicenza, parla il portavoce dei comitati Elsa Camuffo, Vicenza


Il meeting dell'assemblea permanente contro il Dal Molin questa sera sarà quasi una festa. Perché le trentamila persone che sabato sono scese in piazza per ribadire il loro no alla nuova base militare americana hanno certamente dato ragione a quanti, all'interno dell'assemblea, in questi mesi hanno costruito conoscenza, prima ancora che consenso, tra la gente. Che in
piazza è scesa informata e per questo ancora più decisa: Vicenza, hanno detto i trentamila di sabato, non vuole la base. Non la vuole al Dal Molin né da un'altra parte. Al governo Prodi chiede di dire no agli americani anche per segnare una svolta politica rispetto alla fase di guerra permanente globale di cui il governo Usa è promotore. Con Francesco Pavin, portavoce dell'assemblea permanente, facciamo un bilancio della manifestazione per capire le prospettive di questa nuova lotta.
Trentamila persone sono stata la risposta migliore a quanti gridavano al lupo al lupo alla vigilia, sia da destra che da sinistra.
E' così. Quello che è successo sabato è stato straordinario. E' stato messo in crisi il tentativo di criminalizzazione del movimento operato sia da destra che da sinistra. Non ci aspettavamo così tanta gente. E siamo doppiamente soddisfatti perché questo significa che il nostro lavoro nei
quartieri, nei mercati rionali, tra la gente, alla fine ha dato i suoi frutti. La gente di Vicenza è scesa in piazza in massa: non era scontato, visto che è difficile che la gente manifesti in questa città. Il lavoro dei comitati popolari è stato premiato e questo significa anche che il meccanismo, la formula dell'assemblea, dove le decisioni vengono prese collettivamente, dove ciascuno può portare il suo contributo che è uguale a quello degli altri, è la formula più democratica.
Anche i partiti dovrebbero interrogarsi su questo modo di fare politica che ormai va dalla val Susa alla Sicilia, dalla Calabria a Venezia, a Vicenza. In effetti la presenza dei partiti non ha inciso particolarmente nel corteo, a livello di numeri. Tanto è vero che nello spezzone dell'assemblea c'erano almeno diecimila persone ed erano soprattutto i cittadini di Vicenza. Non ci siamo appiattiti né sulla battaglia contro il comune di centrodestra né sulla questione del referendum. Abbiamo allargato le nostre richieste al governo di Roma. E non è un caso che dalla manifestazione sotto il Municipio a sabato siamo passati da due-tremila persone in piazza a trentamila. E sabato la gente scendeva in strada quando passava il corteo, in tutti i quartieri, non solo nei quartieri interessati dalla realizzazione del Dal Molin. Risposte le vogliamo dal governo e dal comune, come ribadivano molti dei cartelli scritti dai cittadini. Che hanno mutuato dalla val Susa anche lo slogan «sarà dura», trasformandolo in «resisteremo più di qualunque
governo».

Ora che succederà?
Intanto faremo un po' di assemblee. I comitati si stanno moltiplicando anche nei paesi e comuni vicini. Giovedì per esempio saremo a Longare, sede di un deposito ex nucleare ancora in attività. E poi vedremo che farà il governo. E' chiaro che Parisi è in difficoltà di fronte a una risposta così massiccia. Può darsi che per non dire un no secco agli americani il governo
decida di prendere tempo. Se cominciano a puntare sul referendum, passeranno almeno due mesi per avere l'approvazione del nuovo quesito. Prendendo tempo il governo spera che siano gli americani a rinunciare al Dal Molin. Anche perché ormai è chiaro che proporre un sito alternativo nella stessa Vicenza incontrerebbe la stessa resistenza. E poi agli americani serve la pista.

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BASI USA – Le nostre tasse per le basi USA.

ANGELO MASTRANDREA, il manifesto 11 Ottobre 2005

Si tagliano i fondi per gli enti locali, si sforbiciano il welfare e la cultura, perfino le Olimpiadi di Torino. Ma guai a toccare ciò che deve rimanere segreto. Cioè che con i soldi dei contribuenti italiani si pagano non solo le spese militari del nostro paese, ma addirittura i costi delle basi americane in Italia. Denaro liquido, per un totale del 37 per cento delle spese complessive, ma anche sgravi fiscali, sconti e forniture gratuite di trasporti, tariffe e servizi. In proporzione, siamo il paese Nato che versa di più agli Usa: il 37 per cento, contro il 27 della Germania. In valori assoluti, il rapporto è inverso: la Germania, nel bilancio 2001, ha stanziato 862 milioni di dollari, e l'Italia 324. Contributi diretti e indiretti «aggiuntivi rispetto a quelli della Nato», spiega lo statunitense Report on allied contributions to the common defense , rivelato ieri dal cronista del Giornale di Sardegna Marco Mostallino. Nell'anno successivo, è scritto nero su bianco in un rapporto della Commission on review of overseas military facility structure , trasmesso al presidente Bush e al Congresso Usa il 15 agosto scorso e in nostro possesso, la Germania ha aumentato i contributi a 1.563 bilioni di dollari, l'Italia a 366,54. Dunque nei primi due anni del governo Berlusconi, mentre si sforbiciava qua e là lo stato sociale e si approvavano condoni per fare cassa, lo stanziamento è aumentato, e tutto lascia presumere che nei successivi tre anni non sia diminuito. Ma non ci si lasci ingannare: nel 1999, infatti, governo D'Alema di centrosinistra, lo stanziamento fu di ben 480 milioni di euro.
Contributi necessari? Un inevitabile riconoscimento all'amicizia con gli Stati uniti e al loro ruolo di liberatori dal nazifascismo? Non parrebbe. A leggere i documenti ufficiali di Washington, la maggior parte dei pagamenti nascono da bilateral agreements , «accordi bilaterali», e solo una minima parte dipende dalla dovuta divisione delle spese tra i paesi della Nato. Le cifre sono ancora più istruttive. Il dossier dell'agosto scorso elenca infatti paese per paese le quote di quella che gli americani chiamano «condivisione dei costi», bilateral cost sharing , sia pur per pagare le proprie truppe. Ebbene, paesi «alleati» come Francia, Canada, Repubblica Ceca, Olanda, Norvegia e Polonia non sganciano un euro o dollaro che dir si voglia. Altri, come Spagna, Ungheria e Turchia, danno solo dei contributi «indiretti», e perfino gli inglesi, i più fedeli alleati degli Usa, pagano meno di noi, per la precisione 185,39 milioni di dollari.
Ma non finisce qui. I pagamenti agli Stati uniti non finiranno nemmeno se le basi dovessero essere chiuse e non ampliate, come sta per accadere alla Maddalena e a Camp Darby. Nei patti tra Washington e Roma, rigorosamente segreti, esiste una clausola chiamata Returned property - residual value , che prevede un indennizzo per le «migliorie» apportate. L'accordo è top secret , ma qualcosa filtra alla pagina 17 delle «osservazioni preliminari» che il Goa, l'ufficio della Casa bianca per la trasparenza, ha consegnato al congresso Usa nel luglio del 2004. Leggiamo: «Gli accordi bilaterali stabiliscono che se il governo italiano riutilizza le proprietà restituite entro tre anni, gli Stati uniti possono riaprire le trattative per il valore residuale». Che più o meno vuol dire: se i terreni vengono riusati entro quel periodo, il rimborso va aumentato. Unica clausola favorevole, quella che prevede per le nazioni ospitanti il rimborso dei danni ambientali. Peccato che a quantificarli paiono essere gli stessi americani, tanto che un rapporto della Commissione governativa per le basi militari, incurante delle tante denunce di inquinamento, li ha già definiti «limitati».
Sulla vicenda ha presentato un'interrogazione parlamentare il verde Mauro Bulgarelli, che ha anche preparato un progetto di legge per la desecretazione di tutti i documenti che sono segreto di Stato. «Ancora una volta ci troviamo di fronte ad accordi segreti che impongono, oltre alla presenza di basi straniere sul nostro territorio, anche l'onere di mantenerle a spese dei contribuenti italiani, che si ritrovano a loro insaputa a finanziare tariffe, trasporti e servizi gratuiti ai soldati americani e alle loro famiglie», dice il deputato verde, che considera il diritto di indennizzo una vera e propria «provocazione».

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