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TURCHIA / KURDISTAN - BOMBE DI STATO. L'affaire di Semdinli imbarazza Erdogan
fonte associazione AZAD
GUERRA DEL VIETNAM - La NSA fabbricò l'incidente del Tonkino
Il Manifesto, 3 dicembre 2005, Marina Forti
La BOSNIA di Dayton
Claudio Mazzocchi - Osservatorio sui Balcani - 05.giugno.2004
La guerra contro la JUGOSLAVIA? Una guerra dienticata
di Alberto Tarozzi
   
 
 

TURCHIA / KURDISTAN - BOMBE DI STATO.
L'affaire di Semdinli imbarazza Erdogan.


Kurdistan turco In Turchia la collusione tra stato, pezzi dell'esercito, mafia, polizia è ancora una realtà:
la guerra sporca contro i kurdi non solo non è finita, ma viene combattuta dallo stato con ogni mezzo. Il caso degli attentati nella cittadina di Semdinli.

(fonte associazione AZAD)

Corpi dello stato scoperti a mettere bombe a Semdinli , una cittada kurda, per accusare il Pkk. L'hanno già chiamata la seconda Susurluk, in riferimento all'incidente stradale che nel 1996 portò alla casuale dimostrazione che la collusione tra stato, pezzi dell'esercito, mafia, polizia era una realtà.
Quello che sta accadendo in questi giorni a Semdinli, paesotto nel sud est della Turchia, ai confini con l'Iraq, mette anche i pochi che credevano che la collusione tra stato, esercito e criminalità fosse cosa del passato di fronte ad un fatto: la guerra sporca contro i kurdi non solo non è finita, ma viene combattuta dallo stato con ogni mezzo.
I fatti sono questi: il 1° novembre una bomba esplode davanti alla caserma di polizia di Semdinli. I feriti, tra i poliziotti, sono 23. Immediatamente l'indice viene puntato contro i guerriglieri del Pkk. Questo naturalmente giustifica l'ultra militarizzazione del territorio, le retate, le perquisizioni, gli arresti. Ma la gente non ci sta e continua a rumoreggiare. Così mercoledì scorso alle 4 del pomeriggio un'auto in corsa getta un ordigno all'interno della libreria Umut (speranza), nel centro di Semdinli. Il proprietario è Seferi Yilmaz, persona molto nota in città: faceva parte, infatti, del commando di guerriglieri del Pkk che sferrò il primo attacco armato contro l'esercito turco, il 15 agosto 1984.
Seferi Yilmaz è stato arrestato poco dopo quell'attacco e condannato a 15 anni di prigione (che ha scontato interamente) per essere membro del Pkk. Mercoledì scorso, come sempre, Seferi era nella sua libreria. L'esplosione è potente. E infatti subito si sparge la voce che Seferi sia rimasto ucciso e un'altra persona che si trovava nei locali, Mehmet Zahir Korkmaz, sia gravemente ferita (si saprà più tardi che Korkmaz è morto). Davanti alla libreria c'è parecchia gente. Immediatamente i passanti identificano l'auto da cui è stata lanciata la bomba, la circondano e cercano di far uscire le persone che si trovano all'interno. Per tutta risposta questi cominciano a sparare uccidendo una persona e ferendone altre 4. Arriva la polizia che si preoccupa di «trarre in salvo» gli occupanti dell'auto. Ma qualcuno tra la folla è riuscito ad entrare nella macchina: quello che trova sui sedili è uno shock per tutti.
Ci sono tre Ak-47 e una carta d'identità rilasciata dalla gendarmeria turca (un corpo dell'esercito). Il deputato della zona, Esat Canan (del partito d'opposizione, Chp) ammette che l'auto appartiene alla polizia di Semdinli. Gli eventi, da quel momento in poi, cominciano a dipanarsi ad una velocità incredibile. Giunge la notizia che Ali Yilmaz, la persona ferita dagli occupanti dell'auto, è morto in ospedale. Tra i feriti che sono dovuti ricorrere alle cure mediche, c'è anche il sindaco di Semdinli, Hursit Tekin. In serata sono già stati identificati i tre agenti del Jis (il corpo d'intelligence della gendarmeria): si tratta di un sergente e due luogotenenti.
Il governo, inizialmente rimasto in silenzio di fronte alla sequenza di eventi, deve parlare. Lo fa il primo ministro Recep Tayyp Erdogan che dichiara di aver ordinato una inchiesta su quanto accaduto e di volerla seguire personalmente. «Non mi interessa l'identità delle persone coinvolte - dice Erdogan - non ci saranno sconti per nessuno: i responsabili verranno identificati e dovranno rispondere davanti alla giustizia delle loro azioni». È chiaro però che per il governo si trova nell'imbarazzo totale. Intanto a Semdinli il proprietario della libreria Umut, creduto morto, viene invece ritrovato ferito sotto le macerie ma in vita.
Dalla stazione di polizia cominciano ad uscire le prime indiscrezioni sulle confessioni dei tre agenti segreti. Avrebbero ammesso, tanto per cominciare, di essere loro i responsabili dell'attacco del 1° novembre alla caserma di Semdinli. Ma tra i documenti trovati nell'auto gli abitanti hanno rinvenuto anche alcune carte che indicherebbero come in `congedo per un anno' almeno due dei tre agenti segreti della gendarmeria; poi c'erano mappe dettagliate di luoghi e una lista di un centinaio di nomi da colpire, sindaci kurdi, simpatizzanti della causa, sindacalisti. Da tre giorni ormai la città di Semdinli è in subbuglio: per le strade si susseguono manifestazioni di gente che chiede giustizia. Ai funerali dei due uomini rimasti uccisi mercoledì scorso c'è stata molta tensione. Il governo arranca deciso o incapace di fornire spiegazioni.

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GUERRA DEL VIETNAM - La NSA fabricò l'incidente del Tonkino

Il Manifesto, 3 dicembre 2005, Marina Forti

Nel 1964 la National Security Agebcy (NSA), il maggio ente di spionaggio degli Stati Uniti, ha manipolato le informazioni su un famoso incidente: l’attacco della marina nord-vietnamita contro due incrociatori della marina americana nel Golfo del Tonkino. Lo si deduce da centinaia di pagine di documenti della NSA a cui è stato tolto il segreto di stato, e in particolare dallo studio compiuto da uno storico della medesima agenzia statunitense Robert J: Hanyok, che ha rimesso insieme le informazioni di allora.
L’incidente del Tonkino è famoso perché segnò l’escalation della guerra del Vietnam: denunciando l’aggressione, l’allora presidente degli Stati Uniti, Lyndon B.Johnson, ordinò di bombardare il territorio del Vietnam del Nord e il Congresso autorizzò il dispiegamento di un imponente forza militare nel sud (la guerra, che ha causato la morte di 58 mila soldati USA e di oltre 2 milioni di civili vietnamiti, è finita dieci anni dopo con la sconfitta americana e la riunificazione del Vietnam).

L’aggressione del Tonkino però non è mai avvenuta: Molti storici lo sospettavano da tempo. Ora però la cosa è suffragata da documenti messi sul sito della NSA (www.nsa.gov/vietnam/index.cfm) insieme allo studio compiuto dallo storico della NSA, Hanyok:
Hanyok diuce che l’agenzia di spionaggio ha “deliberatamente”! manipolato le informazioni in modo da far credere che l’aggressione fosse avvenuta : La NSA intercetta le comunicazioni radio, telefono elettrobnniche, fax, e-masil compresa la decriptaz<ione di messaggi in codice: si chiamano signal intelligence o “sigint” . Hanyok scrive che in quel caso la NSA trattenne circa il 90% degli elementi di sigint di cui disponeva, passando alla Casa Bianca solo quelli che facevano pensare a un atto nord vietnamita.
Scrive lo storico: “La stragrande maggioranza delle informazioni , se usate, avrebbero detto che nessun attacco aveva avuto luogo.
Fare giustizia dei fatti del 1964 ha la sua importanza: Ma qui c’è di più: Hanyok ha consegnato il suo studio nel 2001 alla NSA che lo ha subito classificato “top secret” anche se parlava di fatti avvenuti 37 anni prima. Solo più tardi altri storici, esterni alla National Security Agency hanno avuto notizia che lo studio esisteva e nel 2004 hanno chiesto che fosse reso pubblico ai sensi della Freedon of Information: Ne dava notizia ieri (2.12.2005) il New York Times che avanza un’ipotesi “Alcuni funzionari dell’intelligence credono che la pubblicazione di quell’articolo sia stata ritardata perché l’agenzia temeva un confronto tra il ruolo che ebbero le informazioni manipolate nella guerra del Vietnam e nella guerra in Iraq”:
Un portavoce della NSA ieri ha negato : l’agenzia ha aspettato solo per poter rendere pubbliche anche tutte le fonti originarie usate dallo storico. L’ipotesi di New York Times però resta convincente.

(nota del “Paperotto pacifista”: sembrerebbe che la NSA abbia fatto tutto di sua iniziativa. Accertato che la storia del Tonkino è una palla, oggi bisognerebbe capire chi ha dato alla NSA gli ordini del caso, anche se… forse lo sappiamo)

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La Bosnia di Dayton

Appunti per un intervento di approfondimento per discutere della Bosnia di Dayton. Claudio Bazzocchi è ricercatore indipendente dopo molti anni trascorsi nel mondo della cooperazione internazionale. Collabora con Osservatorio sui Balcani fin dalla sua creazione. E' autore di “La balcanizzazione dello sviluppo”, edizioni Il Ponte. Qui di seguito pubblichiamo una sintesi del suo intervento presso il dibattito tenutosi lo scorso 11 giugno a Bologna, aperto ai partners e ai media che collaborano con la redazione di Osservatorio sui Balcani, su: “I protettorati internazionali in Europa: la Bosnia di Dayton”.
Di Claudio Mazzocchi - Osservatorio sui Balcani - 05.giugno.2004

Oltre la dottrina americana di risoluzione del conflitto
In Bosnia Erzegovina ho l'impressione si sia oltre il fallimento della cosiddetta ‘dottrina americana del processo di pace'. E cioè mettiamo i contendenti a firmare, più o meno forzatamente, un trattato di pace e poi il resto in qualche modo verrà da sé. C'è una nuova dottrina che si basa su quello che potrebbe essere definito come fondamentalismo dei diritti umani. Le guerre e le instabilità vengono interpretate come inadeguatezza e mancanza di cultura da parte dei popoli coinvolti.
Questo darebbe il diritto, appunto, alle famose coalizioni dei volenterosi di intervenire per imporre riforme. Dei sistemi giudiziari, dei sistemi istituzionali, della scuola, ecc. Proprio perché si crede che il conflitto, la guerra, l'instabilità esistano perché in qualche modo ci sono popolazioni inadeguate.
Questo darebbe il diritto di intervenire ed imporre… perché i diritti umani - si dice - sono assoluti, non devono tenere conto di nessun processo politico sottostante. Quando un diritto umano viene calpestato allora si può e deve intervenire. Lo si è fatto più volte nei Balcani, basti pensare al Kossovo.
Costruire o decostruire lo Stato?
Una prima contraddizione è quella da una parte di parlare di nation building - cioè di costruzione dello Stato – e contemporaneamente indebolirlo fortemente. Perché se ci si arroga il diritto di licenziare politici, giudici; se si rifanno completamente tutti i sistemi scolastici, economici ecc. non ha senso di continuare a parlare di nation building perché si sta indebolendo lo Stato.
Questa è una contraddizione fondamentale che è all'opera in Kosovo e in Afghanistan, e sarà all'opera in Iraq dopo il 30 giugno. Su questo mi permetto di consigliarvi un libro straordinario, scritto da un ricercatore inglese, si chiama David Chandler, From Kosovo to Kabul (ed. Pluto, 2002). Si tratta di questa scuola inglese di studiosi, tra cui possiamo annoverare anche Mark Duffield ( Guerre postmoderne. L'aiuto umanitario come tecnica politica di controllo . Il Ponte, Bologna 2004), Joanna Macrae ( Aiding Recovery?: The Crisis of Aid in Chronic Political Emergencies , Zed Books 2001), Vanessa Pupavac
(The End of Politics? Therapy against Politics , april 2001). Nel libro di Chandler si sottolinea questa contraddizione. Si opta per l'operazione politica di costruire lo stato ed allo stesso tempo si depoliticizzano tutte le questioni. E' un corto circuito straordinario.
Il Parlamento in Bosnia Erzegovina non decide nulla
Alcuni esempi. In Bosnia la Costituzione non è stata scritta dai bosniaci, le riforme economiche non sono state decise dal parlamento e via dicendo. Il messaggio che trapela più votle dai discorsi dell'Attuale Alto Rappresentante Paddy Ashdown sembra essere questo: alla politica ed alle riforme ci penso io, voi pensate a ratificarle. Se non lo fate? Lo faccio io, ne ho i poteri.
Penso per esempio alla questione delle privatizzazioni. Credo che la BiH, avrebbe tratto beneficio dalla discussione su questo tema da parte dei sindacati, dalle parti sociali, dal parlamento. Non è avvenuto. Queste sarebbero le grandi questioni politiche che permetterebbero di uscire dalle secche del nazionalismo. Ma questo non avviene perché c'è un giudizio quasi neocoloniale sulle popolazioni in oggetto. Personalmente mi sento anche a disagio ad essere qui a parlare di altri.
Uscire dai regimi etnici
Ritengo la questione fondamentale sia come uscire dai regimi etnici. Con una vaga idea di tolleranza, di multietnicità? Oppure passando attraverso questioni forti e politiche? Quella in Bosnia non è stata una guerra in cui erano popolazioni “naturalmente violente”, o classi dirigenti con una cultura inadeguata. Non è stata una guerra perché queste popolazioni non avevano gli strumenti per mediare i conflitti. Piuttosto ci si avvicina di più alle ragioni del conflitto se si pensa che la guerra nei Paesi balcanici sia stata una sorta di aggiustamento rispetto al nuovo quadro internazionale. In cui le classi dirigenti della Jugoslavia hanno individuato nella guerra uno strumento per realizzare forme alternative di statualità, forme alternative di economia, forme alternative di rapporto fra cittadini e potere. Allora, comincio a pensare che non siamo di fronte a folli dittatori barbari e potenti, e quindi il problema è politico. E comincerò a pensare che la retorica dei diritti umani, l'attenzione alle questioni etniche, i programmi di riforma affinché le popolazioni diventino “adeguate”, non funzionano, perché non rispondono a ciò che è successo in quel Paese.
Non è un caso che alle ultime elezioni, non solo in Bosnia, ma anche in Croazia, abbiano vinto i nazionalisti. Non è un caso perché rispetto a questa leggerezza, a questa ideologia dei diritti umani, il richiamo a determinati valori etnici è molto più forte. Perché rispondono non solo ad un bisogno di identità ma anche a determinati problemi economici e sociali. Attraverso i network affaristico- mafiosi, passa il welfare di queste popolazioni, passa lo stato sociale, passano i rapporti di vicinato, passa la sicurezza sia economica che sociale, cioè passa un sistema politico di rapporti fra cittadini e potere.
Perché non si ammette il deficit di bilancio?
Si parla di piccola e media impresa, di rapporto virtuoso fra società civile, impresa, e capitale sociale. Si parla anche di distretti industriali, e il modello sarebbero i distretti industriali italiani. Però, c'è una contraddizione. Il nostro modello di sviluppo economico dell'Emilia Romagna, ad esempio, ha funzionato perché c'era l'ammissione del deficit di bilancio, un cardine delle politiche socialdemocratiche. Cioè si sfora per costruire le infrastrutture ,per costruire un welfare forte, perché tutto questo ci ritornerà in termini di sicurezza sociale, coesione sociale, relazioni fra industria e sindacato corrette e non di tensione, ecc.
In BiH siamo alla più rigida politica monetarista e di inflazione zero, di parità tra moneta bosniaca e euro, questo non permette nessuna politica di deficit di bilancio. Allora siamo alla pura retorica ideologica, rispetto alla piccola media impresa, alla società civile, alla welfare comunity. Stojanov, economista bosniaco, è proprio questo che fa notare: “voi paesi occidentali e soprattutto europei vi siete costruiti su questo modello, perché non lo applicate a noi?
Non dimenticare la storia
Un'ultima cosa: io vedo che quando noi ci troviamo a parlare di queste cose, oltre a parlare sempre di questioni legate ai diritti umani, all'assetto territoriale, alle etnie, parliamo poco o quasi nulla, di quella che è stata la storia della Jugoslava. Non possiamo prescinderne. Non possiamo dire che il socialismo in Jugoslavia è stato un buco nero, per quasi cinquanta anni e adesso concentriamoci sulla ricostruzione, transizione, ecc. Perché, prima di tutto, non è stato un buco nero, nel senso che la Jugoslavia ha vissuto di grandi intellettuali, di grandi correnti politico filosofiche e di un dibattito, all'interno della lega dei comunisti che è stato straordinariamente fecondo, rispetto alla struttura dello stato, ai problemi del socialismo e via dicendo.
Pensiamo in questo senso anche alla visione che si ha delle guerre da noi vissute i prima persona. Su tutti i nostri libri di storia c'è scritto che vi erano delle cause economiche, politiche, sociali e così via. Perché noi non dobbiamo utilizzare questa chiave di lettura anche con la storia non occidentale, tanto più di Paesi vicini a noi che condividono la stessa cultura, gli stessi riferimenti, gli stessi valori?
Si può parlare di transizione?
Concludo dicendo che per questi motivi la nozione di transizione non mi convince. Se ritengo che la guerra e l'instabilità diffusa del dopo guerra siano alcuni degli strumenti per creare un sistema politico sociale alternativo, con una sua razionalità, non posso parlare di transizione. La Bosnia Erzegovina è un Paese dove non si produce niente, ma bene o male, si sopravvive. Si vive di economie sporche, illegali. La nozione di transizione deve essere tolta dal nostro vocabolario quando ragioniamo di questi Paesi ed in particolare della Bosnia Erzegovina.

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La guerra contro la JUGOSLAVIA? una guerra dienticata
di Alberto Tarozzi

La guerra contro la jugoslavia? una guerra dimenticata. ma alla periferia di belgrado, la citta' di Pancevo, il cui complesso petrolchimico venne bombardato dalla nato nel 1999, continua a rappresentare oggiil simbolo di una guerra chimica a due passi da casa nostra.
Messa in atto a suo tempo con armi convenzionali, che cadendo su un petrolchimico produssero gli stessi effetti di una bomba chimica. Con conseguenze a orologeria, perche in un paese con l'economia a pezzi se vuoi sopravvivere devi lavorare in un petrolchimico abberciato alla bella e meglio, che ti scarica, ancora oggi, una volta al mese, quantita' di benzene cancerogeno di oltre il MILLE per cento superiori al consentito. Nell'indifferenza generale.
buon anno pancevo hai bisogno di auguri.
buona notte movimento per la pace, ti sia maledetto il letargo.

SERBIA: GRAVE INQUINAMENTO, SECONDO IN DUE MESI A PANCEVO

(ANSA) - BELGRADO, 29 DIC - Un grave inquinamento al benzene ed allo zolfo, il secondo in due mesi, ha colpito la scorsa notte la citta' di Pancevo nei pressi di Belgrado. Lo ha reso noto l'agenzia Beta.
Sede di diverse vecchie industrie inquinanti jugoslave, Pancevo e' tornata di nuovo agli 'onori' della cronaca per una nuova fuoriuscita di benzene e zolfo dall'impianto petrolchimico.
La concentrazione del benzene e quella di zolfo la notte scorsa era fino a 14 volte oltre
la soglia considerata di sicurezza dalla normativa vigente. Tale concentrazione ha spinto le autorita' di Pancevo, citta' a 13 km al nord-ovest di Belgrado, a far scattare un allarme che e' durato quasi quattro ore. Pancevo e stata invasa da un odore molto sgradevole e
gli abitanti sono stati obbligati a restare nelle loro case.
Un mese fa le autorita' comunali di Pancevo avevano gia' fatto scattare un allarme sull'inquinamento chimico. Il rischio di una catastrofe ambientale a Pancevo e' stato evocato a piu' riprese negli ultimi anni. Gli abitanti della citta' hanno protestato molte volte contro l'emergenza ambientale in cui sono costretti a vivere da molti anni.
Una emergenza che si traduce in un tasso di incidenza di tumori tra i 100.000 abitanti della localita' fra i piu' alti dell'intera ex Jugoslavia. Secondo gli esperti serbi, l'inquinamento nella zona e' ormai endemico, mentre ulteriori effetti negativi sulla salute pubblica sono stati attribuiti alle conseguenze dei bombardamenti contro gli impianti cittadini compiuti dalla Nato nel 1999 durante la guerra per il Kosovo. (ANSA). COR
29/12/2006

 

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