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Articoli e interviste
BASTA CON LA GUERRA CIVILE
A Gaza Hamas ha sconfitto al-Fatah. Ma è la Palestina ad avere perso
Michele Giorgio di ritorno da Gaza 14 giugno 2007
L'UE ha diviso i palestinesi ora tratti con Hamas
Parla Luisa Morgantini, vicepresidente dell'Europarlamento
di Michelangelo Cocco, 19 giugno 2007

Il muro dell'apartheid
di Naomi Klein, The Nation, 14 giugno 2007


Il futuro della palestina dopo la vittoria di Hamas a Gaza
di Daniele John Angrisani 20 Giugno 2007
Elementi stranieri dietro la crisi di Gaza
Abu Mazen: elementi stranieri dietro la crisi a Gaza - L'Onu: nella Striscia si rischia la crisi umanitaria (Il Messaggero 20 giugno 2007)GAZA (20 giugno)
LABORATORIO PER UN MONDO FORTIFICATO
di Naomi Klein, The Nation, 14 giugno 2007
Cosa vuole Hamas?
di Ahmed Yousef, The New York Times, 20 giugno 2007
Tra Hamas e Fatha: quale destino per la Palestina?
Vittorio Strampelli, 19 giugno 2007 (fonte: Aprile on line)
Israele non vuole la pace
di Gideon Levy (giornalista israeliano)
Le colpe palestinesi e quelle USA e UE
Con Leila Shahid, ambasciatrice palestinese in Europa parliamo della tragedia della Palestina
Il mondo dice no all'occupazione israeliana
9 giugno 2007
Cercando disperatamente la sicurezza
Gila Svirsky, Common Ground News Service (CGNews), 17 maggio 2007
Viaggio in Cisgiordania tra i mille ghetti del muro
Umberto De Giovannangeli inviato ad Abu Dis, L'UNITÀ, 1 giugno 2007
40 anni di occupazione israeliani in Palestina
Ettore Masina (pacifista italiano)
Un'intera nazione prigioniera di Israele
di John Pilger 14 giugno 2007
La notte della Palestina
di Ali Rashid dal manifesto del 14 luglio 2007
Israele e gli omicidi mirati
di Mustafa al Barghouthi, 15-06-2007 Fonte Maan News
La lunga notte di Gaza
di Muim Masri 15/06/07
Uno scrittore palestinese racconta il dolore di un popolo, ora anche diviso
Hanno iniziato loro
di Gideon Levy (giornalista israeliano - Fonte: Ha’aretz, 13 luglio 2006)
Morire di cancro a Gaza. Storia di Fatma Barghouth che voleva vivere
di Luisa Morgantini - Parlamentare Europea - di ritorno da Gaza, 7 Gennaio 2006
Considerazioni sulle elezioni palestinesi
Milano, febbraio 2006 - Roberto Giudici e Piero Maestri
Domande sul dopo Gaza
Jamil Hilal - agosto 2005
Israele: scudi umani
fonte Misna.org e Cacao Elefante del 10/10/2005
 

Basta con la guerra civile
A Gaza Hamas ha sconfitto al-Fatah. Ma è la Palestina ad avere perso
Michele Giorgio di ritorno da Gaza 14 giugno 2007

Ieri sono scesi in strada a centinaia. Donne, anziani, giovani simpatizzanti del Jihad islami e del Fronte popolare, ma soprattutto persone comuni. Con l'unico intento di chiedere ai miliziani di Hamas e Fatah di smetterla con il bagno di sangue in cui sta affogando Gaza. C'era anche il generale egiziano Burhan Hammad che sta invano tentando di mediare tra le parti. Qualcuno ha portato alla manifestazione la sua bandiera verde islamica, molti altri quella con i colori della Palestina. In corteo hanno attraversato il centro di Gaza city e si sono diretti verso le zone più pericolose, incuranti dei cecchini piazzati sui tetti degli edifici più alti pronti a fare fuoco. «Basta con la guerra civile», «Siamo fratelli», ricordavano gli striscioni che stringevano tra le mani tremanti per la paura.Ma quelle parole di buon senso, dirette al cuore di chi spara, sono state portate via dal vento caldo di una Gaza dove la vita umana ora conta ben poco, dove coloro che fino a qualche tempo fa sorseggiavano il té e fumavano il narghilé assieme ora si sparano addosso.Quando il corteo ha raggiunto una via nella quale si scontravano i miliziani, una delle due parti ha aperto il fuoco contro i manifestanti uccidendone due e ferendone altri 16. Le telecamere di al-Jazeera hanno anche ripreso giovani e donne disarmati che a calci e pugni tentavano in ogni modo di separare gli armati cacciandoli dalla strada, nonostante alcuni dei combattenti avessero a più riprese aperto il fuoco contro di loro mirando in aria o ai piedi. I due morti della manifestazione pacifista hanno inevitabilmente richiamato alla mente la guerra civile in Bosnia. Una strage conclusasi solo nel 1995. I palestinesi rischiano di replicarla. Ieri a Gaza a cadere sotto il fuoco delle opposte fazioni sono stati anche due funzionari palestinesi delle Nazioni unite che ora intendono rallentare le operazioni di assistenza umanitaria. Nessun problema invece per i 4 dei 5 cooperanti di ong italiane rimasti bloccati per alcuni giorni a Gaza city. Grazie alla Croce rossa hanno potuto lasciare Gaza dove contano di ritornare non appena la situazione sul terreno lo consentirà, per continuare l'impegno in sostegno dei civili palestinesi. Indietro hanno però dovuto lasciare la loro collega ed amica Meri Calvelli (Associazione Yalla) alla quale non è consentito entrare in territorio israeliano e quindi non ha potuto raggiungere Gerusalemme. Sono stati 22 i morti di ieri, oltre cento i feriti, e Hamas, che ormai controlla tutta Gaza - Fatah limita il proprio controllo ad alcune postazioni isolate -, minaccia un'offensiva generale se entro domani alle 19 (le 18 in Italia) le ultime forze fedeli al presidente Abu Mazen non avranno consegnato le armi. E fa sul serio, come dimostra l'attacco contro il quartier generale della Sicurezza preventiva di Khan Yunis: militanti islamici hanno scavato una galleria sotto l'edificio facendovi esplodere un potente ordigno. Ieri sera si scavava ancora tra le macerie in cerca di superstiti. Se in passato i miliziani di Fatah si erano macchiati di crimini orrendi, ora sono quelli di Hamas ad apparire impegnati in una gigantesca resa dei conti che in molti casi assume le caratteristiche di una vendetta mafiosa che non fa onore ad un movimento che fino a qualche tempo sosteneva che non avrebbe mai puntato le armi contro altri palestinesi. La caccia all'uomo è spietata e talvolta prende di mira semplici poliziotti e attivisti di Fatah che hanno soltanto eseguito ordini dei «capi» che Hamas afferma di voler colpire. I dirigenti di Fatah sono irreperibili, a cominciare dall'ex «uomo forte» Mohammed Dahlan che se ne sta al sicuro in Egitto. I vari comandanti (fra cui Rashid Abu Shbak) sono scomparsi da giorni, forse avevano capito che la resa dei conti era vicina e hanno abbandonato i loro uomini. Contro Fatah, Hamas ricorre anche alla guerra psicologica. Il suo portavoce, Sami Abu Zuhri, ha fatto appello via radio ai genitori degli agenti affinché «vadano a riprendersi i figli, e salvino loro la vita». Membri delle Brigate al-Qassam hanno telefonato ai cellulari dei loro rivali politici e li hanno esortati a consegnarsi. Secondo una radio di Hamas, le defezioni sono state centinaia. A Rafah decine di agenti delle forze di Abu Mazen hanno preferito consegnarsi alle forze egiziane, per sottrarsi ai combattimenti. Decine di miliziani di Hamas per inseguirli hanno cercato di aprire una breccia con dell'esplosivo nel muro in una zona del corridoio «Philadelphi», il tratto di 14 chilometri di frontiera tra il Sinai egiziano e la Striscia di Gaza. Le forze di sicurezza egiziane hanno dovuto circondare l'area per impedire scontri a fuoco.Il senso di impotenza e di frustrazione nei vertici di al-Fatah è forte. In Cisgiordania i primi a reagire sono stati i miliziani delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, che hanno attaccato a Nablus decine di sostenitori di Hamas. In parte sono stati feriti, in parte sequestrati. L'offensiva di Hamas sta facendo materializzare un territorio palestinese «bicefalo»: la Cisgiordania in mano a Fatah, Gaza dominata dal movimento islamico. Una prospettiva che Israele non intende neppure prendere in considerazione e il rischio di un massiccio attacco militare contro la Striscia è molto concreto.

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L'UE ha diviso i palestinesi ora tratti con Hamas
Parla Luisa Morgantini, vicepresidente dell'Europarlamento
di Michelangelo Cocco, 19 giugno 2007

L'Unione europea, come primo donatore dell'Autorità nazionale palestinese, da anni svolge un ruolo importante nelle vicende politiche di Ramallah. Dell'atteggiamento apparentemente schizofrenico dell'Europa abbiamo discusso al telefono con Luisa Morgantini, vicepresidente dell'europarlamento L'Ue non ha riconosciuto né il governo Hamas risultato dalle elezioni del gennaio 2006, né l'esecutivo di unità nazionale varato un anno dopo, ma ora ha fretta di stringere rapporti col governo Fayyad.Voglio premettere che non bisogna assolvere Hamas: sparare su altri palestinesi è una cosa assolutamente imperdonabile. Detto questo, l'Europa ha sbagliato tutto. Prima ha spinto perché nel 2006 si svolgessero le elezioni e Hamas vi prendesse parte. Poi non ha riconosciuto l'esito di un voto democratico. Ancora, ha insistito affinché nascesse un governo d'unità nazionale, ma alla fine non ha accettato nemmeno quest'ultimo, che demandava il negoziato con Israele all'Olp e, in cui Hamas, assieme ai confini del 1967, riconosceva implicitamente lo Stato ebraico. Appiattendosi sulle posizioni statunitensi, l'Ue ha dunque, di fatto, operato per la divisione del popolo palestinese
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Sta per saltare la riunione del quertetto di mediatori (Usa, Ue, Russia, Onu) prevista per la prossima settimana. Temete che il peggio debba ancora venire?Credo che stia crescendo la consapevolezza, negli Usa come all'interno dell'Ue, che così non si può andare avanti. Che così s'infiamma tutto il Medio Oriente. Certo gli americani non sono pronti a cambiamenti sostanziali delle loro politiche, ma forse è arrivato il momento di un ripensamento, alla luce degli ultimi disastri.Il premier israeliano Olmert però ha prospettato al presidente Usa Bush l'irrigidimento dell'assedio contro Gaza. L'Ue cosa fa?Non può accettare in alcun modo l'assedio e deve trattare con Hamas. Se sono gli islamisti a controllare il territorio, non si può lasciare che 1.5 milioni di persone restano senza cibo o aiuti. Da parte di Hamas c'è la volontà di dialogare e di essere riconosciuta ed è la stessa Commissione europea che si sta mettendo in moto per instaurare un dialogo. Le posizioni di alcuni stati - penso soprattutto a Gran Bretagna, Olanda, Danimarca e Polonia - sono ancora rigide, ma credo che tutto debbano arrivare a questa conclusione: l'unica cosa da fare in questa situazione drammatica sia riprendere i negoziati. È questa la posizione che dobbiamo portare al Quartetto.Che fare del programma di aiuti?Gli aiuti umanitari sono necessari. Tuttavia con il cosiddetto Tim (varato dopo la sospensione degli aiuti diretti all'Anp) di fatto nell'ultimo anno noi abbiamo finanziato l'occupazione, permettendo a Israele di trattenere l'iva dovuta ai palestinesi e pagando noi i salari. Per la ripresa dei normali pagamenti all'Anp in Cisgiordania i tempi saranno lunghi, mentre per Gaza continuerà a funzionare il Tim.

Come vede le prossime settimane e i prossimi mesi?Escluderei le elezioni, anche perché in questo momento i palestinesi non hanno alcuna voglia di votare per Fatah né per Hamas. Lo scontro tra i due gruppi - che non è solo lotta per il potere ma incarna anche una visione di società differenti - non è ancora finito. L'ipotesi du una separazione tra due entità politiche differenti è ciò che vuole Israele. Hamas punta a prendere anche la Cisgiordania, ma per ora non ne ha la forza politica né militare. Ma se non si muove la Comunità internazionale lo scontro riprenderà presto.

Fatah, l'ora della resa dei conti
«Assassini e golpisti» grida in tv Abu Mazen ai rivali islamisti. Ma nella Striscia s'affrontano sostenitori del dialogo e oltranzisti. In ballo c'è il rinnovamento del partito. Raid israeliani anche in Cisgiordania, sei palestinesi uccisi
MICHELE GIORGIO (Inviato a Gaza del Manifesto) 20 giugno 2007Il dottor Zakaria al-Agha ieri sera ascoltava con attenzione il leader di Fatah e presidente palestinese Abu Mazen che, in diretta televisiva, ripeteva che non ci sarà «dialogo con i golpisti di Hamas, con gli assassini del loro popolo» che vorrebbero istituire «uno Stato a Gaza» e che avrebbero anche cercato di ucciderlo. Ha annuito quando Abu Mazen - che la prossima settimana incontrerà il premier israeliano Olmert - ha parlato della necessità di convocare una conferenza internazionale.

Pensava di godersi la pensione guardando le foto di quando, nel 1991, venne chiamato a rappresentare la sua terra alla Conferenza di Madrid, e invece al Agha si è ritrovato tra le mani una patata bollente. «Il presidente - racconta - mi ha chiamato per affidarmi l'incarico di ricostruire il nostro partito qui a Gaza, ha deciso così e io procedo». Come un bravo soldato al Agha ha risposto «obbedisco» ma sa bene che dovrà sudare per dare consistenza a un partito a pezzi, non solo per l'offensiva militare di Hamas ma anche per la spaccatura profonda che per mesi ha opposto i sostenitori del dialogo con il movimento islamico e coloro - l'ex ministro Mohammed Dahlan e i suoi uomini - che hanno fatto il possibile per boicottare e ostacolare in ogni modo il governo di unità nazionale. «La prima decisione è stata presa - mette in chiaro al Agha - nessun dialogo con Hamas dopo quanto è accaduto». A deciderlo non è stato lui, ma il Comitato centrale di Fatah dove domina la vecchia guardia fedele ad Abu Mazen.
Nella Gaza isolata, tenuta sotto pressione politica ed economica, dove, come avvertono le Nazioni Unite, tra qualche settimana verranno a mancare generi alimentari e medicine, non vivranno solo quelli di Hamas ma anche quelli di Fatah e, soprattutto, 1,4 milioni di civili. La posizione di molti attivisti di Fatah è quella espressa tre giorni fa dal «comandante dell'Intifada» Marwan Barghuti, dalla sua prigione in Israele: condanna della violenza di Hamas e dell'attacco alla democrazia palestinese ma anche pulizia ai vertici di Fatah, a cominciare da Dahlan che a Ramallah ha prontamente allestito una «sala operativa» per studiare come «recuperare Gaza» assieme ai suoi uomini. «L'interrogativo che abbiamo di fronte è: Fatah deve ritornare al suo programma politico nazionale o continuare a seguire persone che fanno solo i loro interessi e quelli di parti estere? - dice Ahmed Helles, autorevole membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah - la realtà è di fronte a tutti i palestinesi. Hamas non può vivere senza la Cisgiordania e Fatah non può rinunciare a Gaza. Non parlarci aiuta solo i nostri nemici». E monta anche la protesta delle milizie di Fatah per il comportamento dei comandanti dei servizi di sicurezza e di quei leader politici che hanno organizzato con Israele la loro fuga da Gaza, abbandonando migliaia di uomini. Potrebbe peraltro essere di nuovo Hamas, questa volta non in modo violento, a decidere il destino di diversi dirigenti di Fatah e capi militari. Il suo braccio armato, Ezzedin Qassam, ha messo le mani su «documenti scottanti» trovati nelle sedi della sicurezza preventiva e dell'intelligence a Gaza. Carte, dicono fonti ben informate, che riferiscono di «operazioni di sicurezza congiunte» fra «Stati stranieri» (anche arabi) e una parte di Fatah. Tra il materiale sequestrato ci sarebbe anche «un sofisticato sistema statunitense di ascolto». Quando saranno resi pubblici, i documenti potrebbero offrire a qualcuno in Fatah l'opportunità per mettere in difficoltà Dahlan e per chiedere, assieme a Fronte popolare, Fronte democratico, Fida, Fronte di lotta popolare, Partito del popolo e Mubadara, elezioni anticipare entro qualche mese. Ma da Ramallah giungono segnali ben diversi. Il Consiglio centrale dell'Olp che si è riunito ieri darà ampio sostegno alla linea di Abu Mazen e il quotidiano Al-Ayyam ha scritto che il governo di emergenza di Salam Fayyad rimarrà in carica ben oltre il mese di vita che prevede lo statuto palestinese, grazie al fatto che 44 deputati di Hamas sono in carcere in Israele e al-Fatah è in grado, con i suoi 41 seggi, d'impedire il raggiungimento del numero legale per convocare l'assemblea sul futuro dell'esecutivo nominato da Abu Mazen in opposizione a quello di Ismail Haniyeh a Gaza. Intanto l'ex ministro degli esteri di Hamas, Mahmud Zahar, ha affermato che la sua organizzazione vuole mantenere la calma a Gaza ma non «proteggerà» la frontiera con Israele se gli attacchi militari continueranno. Ieri l'esercito israeliano ha lanciato un attacco a sud di Gaza uccidendo tre militanti palestinesi di Hamas e dei Crp. Altri due palestinesi sono stati uccisi a Kufr Dan (Jenin), sempre in un raid israeliano.

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Il muro dell'apartheid
di Naomi Klein, The Nation, 14 giugno 2007
(Traduzione di Gianluca Freda)

Articolo originale: www.thenation.com/doc/20070702/klein)

Gaza nelle mani di Hamas, con militanti mascherati seduti sulla poltrona del presidente; la West Bank sull’orlo del collasso; accampamenti dell’esercito israeliano allestiti frettolosamente sulle alture del Golan; un satellite spia sopra Iran e Siria; la guerra con Hezbollah a un tiro di schioppo; una classe politica rovinata dagli scandali che fronteggia la totale perdita di fiducia da parte dell’opinione pubblica.A prima vista, sembra che le cose non vadano bene per Israele. Ma ecco l’enigma: come mai, in mezzo al caos e alla carneficina, l’economia israeliana cresce come se fosse il 1999, con un mercato azionario ruggente e tassi di crescita vicini a quelli della Cina?

Thomas Friedman ha recentemente esposto sul New York Times la propria teoria. Israele “coltiva e ricompensa l’immaginazione individuale” e perciò la sua gente produce in continuazione ingegnosi progetti ad alta tecnologia, a prescindere dai disastri provocati dai suoi uomini politici. Dopo aver analizzato i progetti degli studenti di scienze ingegneristiche e informatiche della Ben Gurion University, Friedman si produce in una delle sue azzardate enunciazioni: Israele “ha scoperto il petrolio”.

Questo petrolio, ovviamente, si troverebbe nelle menti dei “giovani innovatori e imprenditori israeliani”, che sarebbero troppo impegnati a fare grandi affari con Google per lasciarsi trattenere dalla politica.Ecco invece un’altra teoria: l’economia israeliana non sta crescendo a dispetto del caos che riempie i titoli dei giornali, ma proprio grazie ad esso. Questa fase di sviluppo risale alla metà degli anni ’90, quando Israele era all’avanguardia nella rivoluzione informatica, essendo tra le economie mondiali quella più dipendente dal settore tecnologico.

Dopo l’esplosione, nel 2000, della bolla delle dot.com, l’economia israeliana si ritrovò devastata, affrontando il proprio anno peggiore dal 1953. Poi arrivò l’11 settembre e d’improvviso nuove prospettive di profitto si dischiusero per qualsiasi compagnia che affermasse di essere in grado di identificare terroristi in mezzo alla folla, rafforzare i confini contro gli attacchi ed estorcere confessioni da prigionieri con le labbra serrate.Nell’arco di tre anni, gran parte dell’economia tecnologica israeliana era stata radicalmente riconvertita. Per dirla in termini friedmaneschi: Israele era passato dalla produzione di strumenti di connessione per il “flat world” alla vendita di reticolati per un pianeta ridotto all’apartheid.

Molti degli imprenditori di successo israeliani utilizzano la condizione del proprio paese di stato-fortezza, circondato da furiosi nemici, come una sorta di esposizione permanente, un esempio vivente di come si possa godere di relativa sicurezza anche nel mezzo di una guerra costante. Il motivo della supercrescita di Israele è che le sue compagnie stanno ora laboriosamente esportando questo modello nel resto del mondo. Le discussioni sul commercio di armamenti militari in Israele si focalizzano di solito sul flusso di armi che arriva nel paese.

Gli Stati Uniti fabbricano i Caterpillar usati per abbattere le case nella West Bank e le compagnie britanniche forniscono le parti per gli F-16. Si sorvola sul business delle esportazioni di Israele, che è enorme e in continua espansione. Israele fornisce adesso 1,2 miliardi di dollari in prodotti per la “difesa” agli Stati Uniti, un incremento gigantesco rispetto ai 270 milioni di dollari del 1999. Nel 2006 Israele ha esportato 3,4 miliardi di dollari in prodotti per la difesa, oltre un miliardo in più di quanto abbia ricevuto in sovvenzioni statunitensi. Ciò fa di Israele il quarto maggior esportatore di armi del mondo, superiore perfino all’Inghilterra.Gran parte della sua crescita è dovuta al cosiddetto settore della “sicurezza interna”.

Prima dell’11 settembre la sicurezza interna, come industria, esisteva a malapena. Entro la fine di quest’anno le esportazioni israeliane in questo settore raggiungeranno gli 1,2 miliardi di dollari, con un incremento del 20%. I prodotti e servizi più importanti sono le barriere ad alta tecnologia, i droni teleguidati, i sistemi d’identificazione biometrica, gli strumenti di sorveglianza audio e video, i sistemi di schedatura dei passeggeri dei voli aerei e d’interrogazione dei prigionieri. Precisamente gli strumenti e le tecnologie che Israele ha utilizzato per isolare i territori occupati.Ecco perché il caos a Gaza e nel resto della regione non rappresenta una minaccia per gli introiti di Tel Aviv e potrebbe anzi incrementarli.

Israele ha imparato a trasformare una guerra infinita in una fonte di reddito, presentando lo sradicamento, l’occupazione e la segregazione del popolo palestinese come un anticipo di mezzo secolo della “guerra globale al terrorismo”. Non è un caso che i progetti dell’Università Ben Gurion, che tanto impressionano Friedman, abbiano titoli come “Nuova Matrice di Covarianza per il Rilevamento di Bersagli in Immagini Iperspettrali” e “Algoritmi per il Rilevamento e l’Aggiramento di Ostacoli”. Trenta nuove compagnie che producono articoli per la sicurezza interna sono state aperte in Israele solo negli ultimi sei mesi, grazie in buona parte a generosi sussidi governativi che hanno trasformato l’esercito israeliano e le università del Paese in incubatrici di progetti per nuove armi e sistemi di sicurezza (una cosa da tenere a mente nei dibattiti sul boicottaggio accademico).

La settimana prossima le più solide fra queste compagnie verranno in Europa per l’Esposizione Aeronautica di Parigi, che per l’industria degli armamenti è l’equivalente della Settimana della Moda. Una delle compagnie israeliane che partecipano all’esposizione è la SDS (Suspect Detection Systems) che presenterà il suo Cogito1002, una specie di chiosco bianco, dall’aspetto fantascientifico, che chiede ai passeggeri dei voli aerei di rispondere a una serie di domande generate da un sistema computerizzato, tarate sul paese di provenienza, facendo loro tenere la mano su un sensore di “biofeedback”. L’apparecchio rileva le reazioni del corpo alle domande e un certo tipo di reazioni servono a etichettare il passeggero come “sospetto”.

Come accade per centinaia di altre aziende di sicurezza israeliane, la SDS si vanta di essere stata fondata da veterani della polizia segreta d’Israele e di aver testato sul campo i propri prodotti sui palestinesi. Non solo la compagnia avrebbe sperimentato i terminali di biofeedback ai checkpoint della West Bank; essa afferma anche che “il progetto è sostenuto e arricchito dalla conoscenza acquisita e assimilata dallo studio di migliaia di casi di attentati suicidi in Israele”. Un’altra star dell’Esposizione Aeronautica di Parigi sarà il colosso della difesa militare Elbit, che ha in programma di presentare i suoi velivoli senza pilota Hermes 450 e 900.

Stando a ciò che riferisce la stampa, in maggio Israele avrebbe utilizzato questi droni in missioni di bombardamento su Gaza. Una volta testati sui territori, essi vengono esportati all’estero: l’Hermes è già stato utilizzato al confine tra Arizona e Messico; alcuni terminali Cogito1002 sono all’esame di un ignoto aeroporto statunitense; e la Elbit, una delle compagnie che hanno contribuito a progettare la “barriera di sicurezza” intorno a Israele, si è associata alla Boeing per costruire, su richiesta della Homeland Security americana, una barriera di confine “virtuale” intorno agli Stati Uniti per la cifra di 2,5 miliardi di dollari.

Da quando Israele ha iniziato a segregare i territori occupati con muri e posti di blocco, gli attivisti per i diritti umani hanno spesso paragonato Gaza e la West Bank a delle prigioni a cielo aperto. Ma nel corso della mia ricerca sull’esplosione dell’industria per la sicurezza interna in Israele (argomento che affronterò in maggior dettaglio nel mio prossimo libro The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism [La Dottrina dello Shock: l’Ascesa del Capitalismo del Disastro, NdT]), mi ha colpito il fatto che essi siano anche qualcos’altro: laboratori nei quali i terrificanti strumenti dei nostri stati di polizia vengono testati sul campo.

I palestinesi, che vivano nella West Bank o in ciò che i politici israeliani chiamano già “Hamasistan”, non sono più semplici bersagli. Sono cavie. Perciò, in un certo senso, Friedman ha ragione: Israele ha trovato il petrolio. Ma il petrolio non è l’immaginazione dei suoi imprenditori tecnologici. Il petrolio è la guerra al terrorismo, la condizione di paura costante che crea una domanda senza fine di apparecchi per sorvegliare, spiare, contenere e identificare i “sospetti”. La paura, a quanto sembra, è l’ultima arrivata fra le risorse rinnovabili.

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Il futuro della palestina dopo la vittoria di Hamas a Gaza
di Daniele John Angrisani 20 Giugno 2007

Dopo la sanguinosa battaglia che ha consegnato la Striscia di Gaza nelle mani di Hamas, a Gaza City regna una calma irreale. La bandiera verde del movimento integralista palestinese sventola su tutti gli edifici più importanti della città e la quiete è interrotta solo da alcuni episodi di violenza residuale. Tra questi, il saccheggio della villa del defunto leader di Fatah, Yasser Arafat, e di Mohammed Dahlan, il suo braccio destro nella Striscia di Gaza. Di Dahlan in particolare, il nemico numero uno delle forze di Hamas a Gaza, non si sono sapute più notizie per alcuni giorni: qualcuno affermava si trovasse già all'estero per alcune cure, ed invece è notizia fresca che pare si trovi tra i circa 500 combattenti di Fatah che sono scappati dalla Striscia di Gaza, per rifugiarsi a Ramallah, ovvero nel cuore di quella Cisgiordania ancora nelle mani dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il presidente Abu Mazen ha ricevuto il sostegno pressoché unanime della comunità internazionale ed ha ricambiato respingendo qualsiasi offerta di dialogo da parte di Hamas, che, dopo la conquista di Gaza, ha dichiarato la sua disponibilità a voler trovare una soluzione pacifica alla crisi. Anzi, in Cisgiordania Hamas è stata dichiarata organizzazione illegale ed Abu Mazen ha provveduto a sciogliere il governo di unità nazionale, presieduto dall'esponente di Hamas, Ismael Haniyeh, per nominare come nuovo primo ministro, l'ex ministro delle Finanze Salam Fayyad, personalità molto stimata in Occidente. Nei circoli della diplomazia internazionale si fa strada l'ipotesi di levare l'embargo nei confronti della Cisgiordania, come ulteriore segnale di supporto nei confronti di Abu Mazen nella sua lotta contro Hamas. Si tratterebbe senza dubbio di un segnale molto importante che, tra le altre cose, potrebbe servire per alleviare, almeno in parte, la sofferenza del popolo palestinese. Sta di fatto, comunque, che al momento non si intravede alcuna soluzione in vista se non il mantenimento almeno per un po’ dello status quo attuale, ovvero la divisione de facto del territorio dell'ex ANP tra la zona sotto controllo di Fatah (Cisgiordania) e quella sotto controllo di Hamas (Gaza).Stando a quel che affermano fonti militari israeliane, da parte delle forze armate dello Stato di Israele non vi sarebbe per ora alcun piano di ulteriore intervento militare a Gaza, cosa che è stata anche negata in maniera abbastanza chiara da parte di Meir Sheetrit, ministro per gli Alloggi e le Costruzioni dello stato ebraico. "Non c’è alcuna intenzione di rientrare in quella palude, Gaza, in questa situazione", queste le sue parole. Alle Nazioni Unite si mormora della possibilità dell'invio di una forza multinazionale di pace nella Striscia di Gaza, ma nessuno sembra particolarmente convinto dell'opportunità di tale scelta. "E' un'idea che dobbiamo esplorare ma bisogna studiare più in dettaglio quali sono i Paesi interessati", ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, mentre il ministro degli esteri russo, Lavrov, ha affermato che la Russia è favorevole a tale decisione solo se verrà presa con l'accordo di tutte le parti in causa. Hamas, dal canto suo, ha invece fatto conoscere la sua contrarietà a tale ipotesi ed ha affermato anzi che qualsiasi forza multinazionale sarà considerata come una forza occupante a tutti gli effetti. Inoltre per diversi Paesi, che sono già impegnati militarmente in Iraq ed Afghanistan, risulterebbe alquanto difficile inviare truppe in una zona così calda come la Striscia di Gaza, senza rischiare che esse vengano sottoposte ad un vero e proprio tiro al bersaglio da parte dei guerriglieri palestinesi. Il risultato è quindi che, almeno per ora, di tale proposta non si farà nulla. Il tutto in attesa di vedere quale potrebbe essere la reazione israeliana ad un eventuale attacco missilistico proveniente dal territorio della Striscia di Gaza, cosa considerata, purtroppo, molto probabile da tutti gli analisti.La crisi in atto è comunque il risultato di molti anni di politiche disastrose, sia dal da parte israeliana che da parte palestinese. E' cosa ormai abbastanza nota che Israele abbia finanziato, o quantomeno aiutato indirettamente, Hamas fino dall'inizio degli anni Novanta, in funzione anti Fatah ed anti Arafat. Cosa confermata nel dicembre 2001 dall'ex ambasciatore americano in Israele, Daniel Kurtzer, durante un seminario sulla religione e la politica che si è tenutosi a Gerusalemme, sponsorizzato dall'organizzazione anglo americana a favore della pace, Oz V'Shalom-Netivot Shalom. Anche fonti israeliane hanno più volte ammesso la responsabilità di Israele nella crescita del movimento islamico Hamas, non ultimo nel caso della liberazione dello sceicco Yassin nel 1996, durante il governo Netanyahu, che ha contribuito non poco al definitivo consolidamento e poi all'affermazione di Hamas nella Striscia di Gaza. Nel corso degli anni, dall'accordo di Oslo del 1993 (mai riconosciuto valido da Hamas) ad oggi, la destra israeliana e il movimento integralista palestinese hanno infatti sempre giocato "di sponda", con l'obiettivo comune di far saltare i negoziati di pace, tra attacchi kamikaze da parte palestinese e relative repressioni violente da parte israeliana nei Territori Occupati. Quando poi, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, i negoziati di pace si sono arenati definitivamente e Sharon è potuto salire al governo, a seguito della famigerata "camminata sulla Spianata delle Moschee" che ha dato inizio alla seconda intifada ed alla fine del governo di Arafat, Hamas ha avuto l’occasione che attendeva da tempo per dimostrare che aveva ragione a dubitare degli accordi di Oslo, ed iniziare così la sua più forte e insistente campagna di reclutamento da quando era nata.Mentre Israele giustificava il suo intervento militare contro il governo di Arafat con la necessità di far salire al potere una nuova dirigenza palestinese più malleabile e propensa alla pace, a 4 anni di distanza dall'inizio della seconda intifada, nei territori dell'Autorità Nazionale Palestinese distrutti dai bombardamenti israeliani e senza la presenza di un vero governo, visto che Yasser Arafat era tenuto de facto prigioniero nella sua sede di Ramallah circondata dagli israeliani, si sono tenute le elezioni municipali, che hanno visto l'ascesa di Hamas anche come movimento politico, in particolare nel territorio della Striscia di Gaza. L'anno successivo, dopo la morte di Arafat e l'ascesa al potere del meno carismatico Abu Mazen, alle elezioni politiche Hamas ha ottenuto la maggioranza dei voti popolari ed ha quindi avuto la possibilità di governare il Paese con la nomina a primo ministro di Ismael Haniyeh, il leader politico di Hamas. La reazione della comunità internazionale e di Israele a questa vittoria democratica di Hamas alle elezioni, è stata pesantissima: embargo totale nei confronti dei territori palestinesi - già in preda ad una crisi economica pesantissima - e ripetute dichiarazioni di rifiuto al dialogo con Hamas per la ripresa del processo di pace.Il resto è storia dei giorni nostri. Con il passare del tempo tra Hamas e Fatah la situazione è divenuta sempre più delicata e da questo sono derivati i primi scontri settari tra le due fazioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Dopo diversi tentativi, infruttuosi, di raggiungere un accordo di coalizione tra Hamas e Fatah per un governo di unità nazionale che permettesse, quantomeno, l’allentamento dell’embargo internazionale e dopo le minacce del presidente Abu Mazen di sciogliere il governo di Hamas, nel febbraio di quest’anno, alla Mecca, si era finalmente trovato un accordo tra le due fazioni palestinesi. Questo prevedeva, tra le altre cose, il rispetto di Hamas degli accordi finora raggiunti con lo Stato di Israele, compreso dunque, anche se non esplicitamente affermato, l'accordo di Oslo del 1993. Inoltre, era stata delegata l'OLP, organizzazione nella quale Fatah è in maggioranza, come unico rappresentante del popolo palestinese per eventuali negoziati di pace con Israele. Ma questo non era bastato per abbassare la tensione: Israele ha continuato a rifiutare qualsiasi trattativa con il nuovo governo a meno che non avesse rispettato esplicitamente le condizioni poste dal Quartetto (Stati Uniti, Onu, Russia, Ue) che prevedevano il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla violenza come forma di lotta. Nulla di questo è avvenuto ed anzi in breve tempo sono ripresi, in maniera sempre più violenti, gli scontri tra Hamas e Fatah. La tensione è aumentata fino a raggiungere l'apice con il vero e proprio colpo di Stato dell'altro giorno con la conquista militare di Gaza da parte di Hamas e il susseguente scioglimento del governo di unità nazionale da parte di Abu Mazen, che però ora controlla solo la Cisgiordania. Molti osservatori, sia all'interno che all'esterno di Israele, considerano ciò che è avvenuto in questi ultimi giorni, come la controprova che non esista nessuno tra i leader palestinesi, con cui si possa realmente intavolare una trattativa di pace. Il tutto mentre anche Israele vive una delle sue peggiori crisi politiche con il movimento Kadima del premier Olmert, al minimo storico di popolarità dopo la sconfitta in Libano e con la prospettiva, suggerita dai sondaggi di opinione, che il prossimo premier possa tornare ad essere quel Benjamin Netanyahu, esponente dell'ala più intransigente del Likud e della destra israeliana contraria agli accordi con i palestinesi. Ciononostante, la storia avrebbe dovuto già insegnare che ogni qualvolta Israele ha rifiutato di sedersi al tavolo delle trattative, Hamas ha aumentato sempre di più il proprio potere nella società e nel governo palestinese. Per cui è vitale ora che la comunità internazionale faccia sentire ancora di più ora il proprio peso per ottenere, quantomeno, la ripresa dei negoziati di pace, se non l’ottenimento di un accordo di pace vero e proprio. Sarebbe il miglior modo per dimostrare l'appoggio internazionale nei confronti del presidente Abu Mazen ed allo stesso tempo sarebbe forse l'unica possibilità per Olmert di presentarsi alle prossime elezioni evitando una sconfitta che tutti prevedono bruciante e allo stesso tempo disastrosa per le speranze future di un qualsiasi accordo di pace. Purtroppo però la ragione non sempre ha successo in politica. La storia recente delle tantissime, troppe occasioni perdute, anche in situazioni molto più promettenti di quella attuale, lascia ben poco margine di ottimismo. Sempre che non sia già troppo tardi ormai per evitare altri, ulteriori, massacri di gente innocente in quella terra, il Medio Oriente, che da cinquanta anni a questa parte non pare conoscere altro che sangue. Quasi sempre, in maggioranza innocente.

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Elementi stranieri dietro la crisi di Gaza
Abu Mazen: elementi stranieri dietro la crisi a Gaza - L'Onu: nella Striscia si rischia la crisi umanitaria (Il Messaggero 20 giugno 2007)GAZA (20 giugno)

Sono almeno sei i palestinesi uccisi a Gaza e in Cisgiordania nel primo scontro con le truppe israeliane da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia. Dopo l'incursione dell'esercito si registra anche il primo raid dell'aviazione israeliana compiuto questa mattina contro basi di Hamas e della Jihad islamica nella Striscia di Gaza per cercare di colpire i responsabili del lancio di un razzo Qassam caduto sulla città israeliana di Sderot. Da parte palestinese si era risposto all'incursione con il lancio di razzi anticarro. Intanto oggi è tornato a parlare il presidente palestinese Abu Mazen, che nella sua prima uscita pubblica dopo la presa della Striscia da parte di Hamas ha dichiarato che la crisi è stata «premeditata» e fomentata da «elementi regionali» d'intesa con Hamas. Per Abu Mazen non ci sarà nessun dialogo con Hamas. «Non parleremo - ha detto - con questi terroristi, assassini e golpisti». Abbas ha assicurato inoltre di aver cercato di prevenire il conflitto "attraverso un dialogo continuo". «Quella in atto nella Striscia - ha continuato il presidente - è una guerra fra il progetto nazionale e il piccolo reame che vogliono istituire a Gaza, fra chi usa l'assassinio per raggiungere i suoi obiettivi e chi invece usa la legge». Le parole di Mahmud Abbas fanno l'eco a quanto aveva dichiarato appena questa mattina il ministro degli Esteri egiziano Ahmed Aboul Gheit che aveva accusato l'Iran di avere incoraggiato Hamas a impossessarsi della Striscia di Gaza, minacciando così la sicurezza in Medio Oriente e del confinante Egitto in particolare. Il presidente palestinese Abu Mazen ha poi accusato il movimento estremista islamico Hamas di aver tentato di assassinarlo di recente. «Ho ricevuto informazioni provenienti da Gaza secondo cui volevano assassinarmi. Ma sono andato comunque a Gaza. In seguito ho visto un video di Hamas. Nel filmato, sei persone di Hamas parlavano di 250 chilogrammi di esplosivo. Tre di loro ripetevano: questa bomba è per Abu Mazen».Emergenza umanitaria. E' forte il rischio che nella Striscia di Gaza possa scattare una vera a propria emergenza alimentare nel giro di un mese, quando cominceranno a scarseggiare farina, riso, olio e altri viveri di base. A lanciare l'allarme è l'Onu, secondo cui, a meno che Israele non riapra il valico commerciale di Karni, le riserve cominceranno ad essere insufficienti nelle prossime 2-4 settimane.Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia, sono stati chiusi tutti i valichi, quello di Rafah a sud, quello al centro di Karni e quello a nord, verso Israele, di Erez. Secondo il consigliere personale di Abu Mazen Erekat si rischia la «catastrofe» per i 1,5 milioni di abitanti nella Striscia che hanno bisogno di 450 tonnellate di cibo al giorno ed al momento hanno scorte per circa nove giorni.Visto lo stato dei fatti avere accesso agli alimenti di base sta diventando sempre più difficile per chi vive a Gaza, considerato inoltre che l'87 per cento degli abitanti vive al di sotto della soglia povertà, con meno di 2,40 dollari (meno di due euro) al giorno. Secondo il programma alimentare mondiale (Pam), il prezzo della farina nell'area è già salito del 40 per cento. Il Pam, che assiste 275mila abitanti, ha riserve di cibo immagazzinate a Gaza solo per sette giorni, mentre l'agenzia dell'Onu che assiste i rifugiati (850mila) ha riserve di farina per dieci giorni. Il rapporto dell'agenzia Onu denuncia ancora che le scorte di carburante utilizzate dai generatori degli ospedali e dalle ambulanze si esauriranno nel giro di una settimana, a meno che non vengano saldati i pagamenti con i fornitori israeliani. Mancano anche le medicine: gli ospedali della zonna hanno bisogno di 33 tonnellate al giorno di farmaci, ma l'Oms al momento riesce a fornirne solo 8.

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LABORATORIO PER UN MONDO FORTIFICATO
di Naomi Klein, The Nation, 14 giugno 2007

(Traduzione di Gianluca Freda)
Articolo originale: www.thenation.com/doc/20070702/klein)

Gaza nelle mani di Hamas, con militanti mascherati seduti sulla poltrona del presidente; la West Bank sull’orlo del collasso; accampamenti dell’esercito israeliano allestiti frettolosamente sulle alture del Golan; un satellite spia sopra Iran e Siria; la guerra con Hezbollah a un tiro di schioppo; una classe politica rovinata dagli scandali che fronteggia la totale perdita di fiducia da parte dell’opinione pubblica.A prima vista, sembra che le cose non vadano bene per Israele. Ma ecco l’enigma: come mai, in mezzo al caos e alla carneficina, l’economia israeliana cresce come se fosse il 1999, con un mercato azionario ruggente e tassi di crescita vicini a quelli della Cina?

Thomas Friedman ha recentemente esposto sul New York Times la propria teoria. Israele “coltiva e ricompensa l’immaginazione individuale” e perciò la sua gente produce in continuazione ingegnosi progetti ad alta tecnologia, a prescindere dai disastri provocati dai suoi uomini politici. Dopo aver analizzato i progetti degli studenti di scienze ingegneristiche e informatiche della Ben Gurion University, Friedman si produce in una delle sue azzardate enunciazioni: Israele “ha scoperto il petrolio”.

Questo petrolio, ovviamente, si troverebbe nelle menti dei “giovani innovatori e imprenditori israeliani”, che sarebbero troppo impegnati a fare grandi affari con Google per lasciarsi trattenere dalla politica.Ecco invece un’altra teoria: l’economia israeliana non sta crescendo a dispetto del caos che riempie i titoli dei giornali, ma proprio grazie ad esso. Questa fase di sviluppo risale alla metà degli anni ’90, quando Israele era all’avanguardia nella rivoluzione informatica, essendo tra le economie mondiali quella più dipendente dal settore tecnologico.

Dopo l’esplosione, nel 2000, della bolla delle dot.com, l’economia israeliana si ritrovò devastata, affrontando il proprio anno peggiore dal 1953. Poi arrivò l’11 settembre e d’improvviso nuove prospettive di profitto si dischiusero per qualsiasi compagnia che affermasse di essere in grado di identificare terroristi in mezzo alla folla, rafforzare i confini contro gli attacchi ed estorcere confessioni da prigionieri con le labbra serrate.Nell’arco di tre anni, gran parte dell’economia tecnologica israeliana era stata radicalmente riconvertita. Per dirla in termini friedmaneschi: Israele era passato dalla produzione di strumenti di connessione per il “flat world” alla vendita di reticolati per un pianeta ridotto all’apartheid.

Molti degli imprenditori di successo israeliani utilizzano la condizione del proprio paese di stato-fortezza, circondato da furiosi nemici, come una sorta di esposizione permanente, un esempio vivente di come si possa godere di relativa sicurezza anche nel mezzo di una guerra costante. Il motivo della supercrescita di Israele è che le sue compagnie stanno ora laboriosamente esportando questo modello nel resto del mondo. Le discussioni sul commercio di armamenti militari in Israele si focalizzano di solito sul flusso di armi che arriva nel paese.

Gli Stati Uniti fabbricano i Caterpillar usati per abbattere le case nella West Bank e le compagnie britanniche forniscono le parti per gli F-16. Si sorvola sul business delle esportazioni di Israele, che è enorme e in continua espansione. Israele fornisce adesso 1,2 miliardi di dollari in prodotti per la “difesa” agli Stati Uniti, un incremento gigantesco rispetto ai 270 milioni di dollari del 1999. Nel 2006 Israele ha esportato 3,4 miliardi di dollari in prodotti per la difesa, oltre un miliardo in più di quanto abbia ricevuto in sovvenzioni statunitensi. Ciò fa di Israele il quarto maggior esportatore di armi del mondo, superiore perfino all’Inghilterra.Gran parte della sua crescita è dovuta al cosiddetto settore della “sicurezza interna”.

Prima dell’11 settembre la sicurezza interna, come industria, esisteva a malapena. Entro la fine di quest’anno le esportazioni israeliane in questo settore raggiungeranno gli 1,2 miliardi di dollari, con un incremento del 20%. I prodotti e servizi più importanti sono le barriere ad alta tecnologia, i droni teleguidati, i sistemi d’identificazione biometrica, gli strumenti di sorveglianza audio e video, i sistemi di schedatura dei passeggeri dei voli aerei e d’interrogazione dei prigionieri. Precisamente gli strumenti e le tecnologie che Israele ha utilizzato per isolare i territori occupati.Ecco perché il caos a Gaza e nel resto della regione non rappresenta una minaccia per gli introiti di Tel Aviv e potrebbe anzi incrementarli.

Israele ha imparato a trasformare una guerra infinita in una fonte di reddito, presentando lo sradicamento, l’occupazione e la segregazione del popolo palestinese come un anticipo di mezzo secolo della “guerra globale al terrorismo”. Non è un caso che i progetti dell’Università Ben Gurion, che tanto impressionano Friedman, abbiano titoli come “Nuova Matrice di Covarianza per il Rilevamento di Bersagli in Immagini Iperspettrali” e “Algoritmi per il Rilevamento e l’Aggiramento di Ostacoli”. Trenta nuove compagnie che producono articoli per la sicurezza interna sono state aperte in Israele solo negli ultimi sei mesi, grazie in buona parte a generosi sussidi governativi che hanno trasformato l’esercito israeliano e le università del Paese in incubatrici di progetti per nuove armi e sistemi di sicurezza (una cosa da tenere a mente nei dibattiti sul boicottaggio accademico).

La settimana prossima le più solide fra queste compagnie verranno in Europa per l’Esposizione Aeronautica di Parigi, che per l’industria degli armamenti è l’equivalente della Settimana della Moda. Una delle compagnie israeliane che partecipano all’esposizione è la SDS (Suspect Detection Systems) che presenterà il suo Cogito1002, una specie di chiosco bianco, dall’aspetto fantascientifico, che chiede ai passeggeri dei voli aerei di rispondere a una serie di domande generate da un sistema computerizzato, tarate sul paese di provenienza, facendo loro tenere la mano su un sensore di “biofeedback”. L’apparecchio rileva le reazioni del corpo alle domande e un certo tipo di reazioni servono a etichettare il passeggero come “sospetto”.

Come accade per centinaia di altre aziende di sicurezza israeliane, la SDS si vanta di essere stata fondata da veterani della polizia segreta d’Israele e di aver testato sul campo i propri prodotti sui palestinesi. Non solo la compagnia avrebbe sperimentato i terminali di biofeedback ai checkpoint della West Bank; essa afferma anche che “il progetto è sostenuto e arricchito dalla conoscenza acquisita e assimilata dallo studio di migliaia di casi di attentati suicidi in Israele”. Un’altra star dell’Esposizione Aeronautica di Parigi sarà il colosso della difesa militare Elbit, che ha in programma di presentare i suoi velivoli senza pilota Hermes 450 e 900.

Stando a ciò che riferisce la stampa, in maggio Israele avrebbe utilizzato questi droni in missioni di bombardamento su Gaza. Una volta testati sui territori, essi vengono esportati all’estero: l’Hermes è già stato utilizzato al confine tra Arizona e Messico; alcuni terminali Cogito1002 sono all’esame di un ignoto aeroporto statunitense; e la Elbit, una delle compagnie che hanno contribuito a progettare la “barriera di sicurezza” intorno a Israele, si è associata alla Boeing per costruire, su richiesta della Homeland Security americana, una barriera di confine “virtuale” intorno agli Stati Uniti per la cifra di 2,5 miliardi di dollari.

Da quando Israele ha iniziato a segregare i territori occupati con muri e posti di blocco, gli attivisti per i diritti umani hanno spesso paragonato Gaza e la West Bank a delle prigioni a cielo aperto. Ma nel corso della mia ricerca sull’esplosione dell’industria per la sicurezza interna in Israele (argomento che affronterò in maggior dettaglio nel mio prossimo libro The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism [La Dottrina dello Shock: l’Ascesa del Capitalismo del Disastro, NdT]), mi ha colpito il fatto che essi siano anche qualcos’altro: laboratori nei quali i terrificanti strumenti dei nostri stati di polizia vengono testati sul campo.

I palestinesi, che vivano nella West Bank o in ciò che i politici israeliani chiamano già “Hamasistan”, non sono più semplici bersagli. Sono cavie. Perciò, in un certo senso, Friedman ha ragione: Israele ha trovato il petrolio. Ma il petrolio non è l’immaginazione dei suoi imprenditori tecnologici. Il petrolio è la guerra al terrorismo, la condizione di paura costante che crea una domanda senza fine di apparecchi per sorvegliare, spiare, contenere e identificare i “sospetti”. La paura, a quanto sembra, è l’ultima arrivata fra le risorse rinnovabili.

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Cosa vuole Hamas?
di Ahmed Yousef, The New York Times, 20 giugno 2007

Gaza City – Gli avvenimenti degli ultimi giorni a Gaza sono stati descritti in Occidente come un colpo di Stato. Di fatto, sono stati il contrario. Diciotto mesi fa, il nostro partito Hamas ha vinto le elezioni parlamentari palestinesi ed è entrato in carica con il primo ministro Ismail Haniye, ma non ha mai ricevuto il passaggio reale dei poteri da parte di Fatah, il partito sconfitto. Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, adesso ha tentato di rimpiazzare il governo vincente di Hamas con uno proprio, riportando Fatah al potere mentre molti dei nostri membri eletti del Parlamento languiscono nelle prigioni israeliane. Questo è il vero colpo di Stato.

Dal giorno in cui ha vinto le elezioni generali nel 2006, Hamas ha offerto a Fatah l’opportunità di unire le forze e formare un governo di unità. Ha tentato di coinvolgere la comunità internazionale per spiegare il suo piano di pace. Coerentemente ha offerto un cessate-il-fuoco di 10 anni con gli israeliani per tentare di creare un atmosfera di quiete nella quale comporre i nostri contrasti. Hamas ha anche aderito a un cessate-il-fuoco unilaterale di 18 mesi allo scopo di normalizzare la situazione sul terreno. Nessuno di questi punti sembra essere stato riconosciuto nella copertura mediatica degli ultimi giorni.Né è sembrato evidente a molte persone in occidente che le agitazioni a Gaza e in Cisgiordania sono state accelerate dalla politica americana e israeliana consistente nell’armare elementi dell’opposizione di Fatah che vogliono attaccare Hamas e costringerci ad abbandonare l’incarico.

Per 18 mesi abbiamo tentato di trovare il modo per coesistere con Fatah, entrando a far parte di un governo di unità, concedendo anche ruoli chiave nell’esecutivo a loro e alle richieste internazionali, negoziando fino all’ultimo momento per tentare di assicurare la sicurezza a tutto il nostro popolo nelle strade di Gaza.Tristemente, è divenuto evidente che non tutti I funzionari di Fatah stavano negoziando in buona fede. La scorsa settimana ci sono stati attentati alla vita di Haniya, e alla fine siamo stati costretti a tentare di prendere il controllo di una situazione molto pericolosa allo scopo di assicurare la stabilità politica e ristabilire la legge e l’ordine.Le strade di Gaza adesso sono calme per la prima volta dopo molto tempo.

Abbiamo iniziato a disarmare alcuni narco-trafficanti e le bande armate, e speriamo di restituire un senso di sicurezza e stabilità ai cittadini di Gaza. Vogliamo riportare I bambini a scuola, rimettere nuovamente in funzione i servizi di base, e assicurare miglioramenti economici a lungo termine per il nostro popolo.Il nostro intento dichiarato quando abbiamo vinto le elezioni era di realizzare le riforme, mettere fine alla corruzione e portare la prosperità economica al nostro popolo. Il nostro unico obiettivo è costituito dai diritti dei palestinesi e dal buon governo.

Adesso ci auguriamo di creare un clima di pace e tranquillità all’interno della nostra comunità che spianerà la strada per la fine del conflitto interno e determinerà il rilascio del giornalista britannico Alan Johnston, il cui rapimento a marzo da parte di membri che non facevano parte di Hamas rappresenta una macchia sulla reputazione del popolo palestinese.Respingiamo i tentativi di dividere la Palestina in due parti e di far passare Hamas per una forza estremista e pericolosa. Continuiamo a credere che esiste ancora una possibilità di stabilire una tregua di lungo termine.

Ma ciò non accadrà senza il pieno coinvolgimento della comunità internazionale con Hamas.Ogni ulteriore tentativo di metterci ai margini, costringere per fame il nostro popolo alla sottomissione o attaccarci militarmente proverà che gli Stati Uniti e i governi israeliani non sono sinceramente interessati ad assistere alla fine delle violenze. Osservatori imparziali nelle prossime settimane saranno in grado di farsi un’opinione autonoma sulle reali intenzioni di ogni parte.*Ahmed Yousef è il consigliere politico di Ismail Haniye, che lo scorso anno è divenuto Primo Ministro palestinese.

(Traduzione di Carlo M. Miele)

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Tra Hamas e Fatha: quale destino per la Palestina?
Vittorio Strampelli, 19 giugno 2007 (fonte: Aprile on line)

Due Stati per un solo popolo, Il terremoto innescato qualche giorno fa dalla conquista armata della Striscia di Gaza da parte dei miliziani di Hamas sembra, in effetti, aver diviso a metà i destini dei palestinesi. Da una parte il fondamentalismo dell'"Hamastan", come è stato subito chiamato il mini-Stato palestinese autoproclamatosi nella Striscia, dove aleggia l'incombente imposizione del diritto islamico della Sharia e da cui i fedeli di Abu Mazen continuano a fuggire; dall'altro la terra di Fatah, in Cisgiordania, dove il presidente dell'Anp si è affrettato a dichiarare disciolto il governo di unità nazionale - in carica da appena tre mesi e composto da esponenti di entrambe gli schieramenti - e ha nominato un esecutivo di emergenza guidato dal moderato Salam Fayyad. Al centro, reciproche accuse di golpe e, soprattutto, tanta violenza tra gli stessi membri di un popolo che sembra aver dimenticato la causa comune per cui combatte da oltre mezzo secolo.
Un muro contro muro, in cui il Comitato centrale di Fatah decide di rompere tutti i rapporti con l'avversario, mentre Hamas respinge tutti i provvedimenti adottati nei giorni scorsi dal moderato presidente dell'Anp, rifiutando di uniformarsi al decreto con cui questi ha posto fuori legge la cosiddetta Forza Esecutiva, il corpo di polizia parallelo creato l'anno scorso dal gruppo radicale in contrapposizione all'apparato tradizionale della sicurezza dell'Anp, rimasto largamente sotto il controllo di al Fatah. Gli integralisti si rifiutano di riconoscere l'esistenza stessa del governo Fayyad, ribadendo che l'unico primo ministro rimane Ismail Haniyeh, il loro dirigente formalmente destituito, ma al contempo si dichiarano pronti a intavolare colloqui con gli avversari per cercare un compromesso: "Siamo dispiaciuti e sorpresi dal sentire le voci che proibiscono ogni discussione con noi ma che parlano invece con Israele", è stato l'ironico commento di un parlamentare di Hamas, mentre a Gaza era in corso la prima riunione della dirigenza del movimento islamista.
La Striscia è infatti rinchiusa in un isolamento totale, stretta dai carriarmati israeliani che da nord sono penetrati fino agli insediamenti di Beit Hanoun, dove da giorni sono intrappolati almeno centocinquanta civili intenzionati a raggiungere la Cisgiordania, allo scopo di garantire la sicurezza nell'area adiacente al valico di Erez, dove nella serata di lunedì era scoppiata una sparatoria mentre in gruppo di palestinesi tentavano di entrare in Israele. Abu Mazen, dal canto suo, incassa invece il sostegno della comunità internazionale, dall'Unione europea - che ieri ha annunciato l'intenzione di sbloccare gli aiuti economici dopo oltre un anno di embargo - agli Stati Uniti di Bush, che con il premier israeliano Ehud Olmert dichiarano il loro appoggio al governo d'emergenza dell'Anp e la loro disponibilità alla ricerca di una soluzione definitiva alla questione israelo-palestinese.
E proprio mentre Olmert si trova in visita ufficiale a Washington, il nuovo leader laburista Ehud Barak assume formalmente l'incarico di ministro della Difesa del governo di Tel Aviv. Spetterà a lui, il soldato più decorato dello Stato ebraico, eletto alla guida del Labour con le primarie dello scorso 12 giugno, cercare di recuperare consensi là dove il governo Olmert ha fallito: la politica di difesa. Il neoministro ha ottimi rapporti con le Israeli Defence Forces (Idf) e si accinge ad accogliere il piano elaborato per l'emergenza Qassam. La città di Sderot e la regione del Negev continuano infatti ad essere esposte ai missili lanciati dal nord di Gaza, che non si sono fermati neppure durante gli scontri tra Fatah e Hamas per il controllo della Striscia. Barak è quindi chiamato a mettere in sicurezza le cittadine del sud d'Israele, cercando di minimizzare al tempo stesso le occasioni di frizione tra le Idf e le milizie islamiche di Gaza. A meno che il dispiegamento di una forza internazionale nella Striscia da ipotesi diplomatica - avanzata tra gli altri anche dal ministro degli Esteri Massimo D'Alema - non diventi una possibilità concreta. In quel caso c'è da aspettarsi che i caschi blu, europei o islamici che siano, vorranno operare su di un terreno già bonificato e chiederanno agli israeliani, che conoscono il territorio, di fare il lavoro sporco.

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Israele non vuole la pace
di Gideon Levy (giornalista israeliano)

l momento della verita' e' arrivato e va detto: Israele non vuole la pace.
L'arsenale di scuse e' finito, il coro di rifiuto suona ormai a vuoto.

Fino a poco tempo fa era ancora possibile accettare il ritornello del "non abbiamo un interlocutore" per la pace e del " non e' ancora tempo" di negoziare con i nemici. Oggi, la nuova realta' di fronte ai nostri occhi non lascia spazio a dubbi e lo stancante ritornello "Israele e' per la pace" e' caduto in frantumi.

E' difficile determinare quando c'e' stata la rottura. E' stato l'assoluto rigetto dell'iniziativa saudita? Il rifiuto di riconoscere quella siriana? Le interviste di Pasqua del primo ministro Olmert? La ripulsione alle dichiarazioni rilasciate a Damasco da Nancy Pelosi, la portavoce della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, che presumevano che Israele fosse pronto a rinnovare il dialogo di pace con la Siria?

In Israele intere generazioni sono state svezzate nell'illusione enell'incertezza della possibilita' di realizzare la pace con i nostri vicini.

Nei nostri giorni piu' verdi, David Ben-Gurion ci diceva che avrebbe portato la pace, se solo gli fosse data la possibilita' di incontrare i capi arabi. Israele ha chiesto negoziazioni dirette per una questione di principio e gli israeliani ne hanno tratto grande orgoglio per il fatto che il loro quotidiano impegno per la pace celava le piu' alte ambizioni dello Stato. Ci era stato detto che non c'erano interlocutori per la pace e che la piu' grande ambizione degli arabi era di distruggerci. Abbiamo bruciato i ritratti del "tiranno egizio" nei nostri falo' del trentatreesimo giorno dell'Omer ed eravamo convinti che tutte le colpe per la mancanza di pace erano dei nostri nemici.

Dopo arrivo' l'occupazione, seguita dal terrorismo, Yasser Arafat, il secondo summit di Camp David fallito e l'ascesa di Hamas al potere, ed eravamo sicuri, sempre sicuri, che era tutta colpa loro. Neppure nei nostri sogni piu' feroci avremmo potuto credere che sarebbe venuto il giorno in cui l'intero mondo arabo ci avesse teso la mano in segno di pace e che Israele avrebbe voltato le spalle al gesto. Sarebbe stato ancora piu' pazzesco immaginare che Israele si tirasse indietro adducendo come scusa quella di non volere fare arrabbiare l'opinione pubblica domestica.

Il mondo e' stato capovolto ed ora e' Israele che sta in prima linea nel rifiuto. Quella che era la politica di rifiuto di pochi, una avanguardia degli estremisti, e' ora diventata la politica ufficiale di Gerusalemme.
Nelle sue interviste di Pasqua, Olmert ci ha detto che " i palestinesi sono di fronte al bivio di una decisione storica ", ma la gente ha smesso di prenderlo sul serio da tempo. La decisione storica e' nostra e siamo noi che stiamo scappando dal bivio e da queste iniziative, come dalla morte stessa.

Il terrorismo, usato da Israele come l'ultima scusa per il suo rifiuto, serve solo ad Olmert per fargli recitare, ad nauseum, "Se i palestinesi non cambiano, non combattono il terrorismo e non ottemperano a nessuno dei loro obblighi, allora non usciranno mai dal loro perenne caos".
Come se i palestinesi non avessero preso dei provvedimenti contro il terrorismo, come se fosse Israele a dovere determinare quali sono i loro obblighi, come se Israele non fosse responsabile per il perenne caos che soffrono i palestinesi sotto occupazione.


Israele considera importante fissare prerequisiti e credere di averne l'esclusivo diritto. Ma il tempo passa e Israele continua a evitare il piu' basilare dei prerequisiti per una pace giusta, quello di porre fine all'occupazione. Di tutte le domande fatte durante le interviste di Pasqua, nessuno si e' disturbato di chiedere a Olmert perche' non ha reagito con entusiasmo alla recente iniziativa araba, senza precondizioni. La risposta e' una: il controllo delle colonie.

Non e' solo Olmert che fa resistenza. Una figura di primo piano del Labour party ha detto la scorsa settimana che " ci vorranno da cinque a dieci anni per riprendersi dal trauma ". Ora la pace e' niente di piu' che una minacciosa ferita, e nessuno che ne parli ancora in termini di benefici sociali di massa che essa apporterebbe allo sviluppo, alla sicurezza e alla liberta' di movimento nella regione e nell'istituire una societa' piu' giusta.

Come una piccola Svizzera, oggi ci stiamo concentrando piu' sul tasso di cambio del dollaro e sulle dichiarazioni di malversazione sollevate contro il Ministro delle Finanze che sulle fatidiche opportunita' che svaniscono ai nostri occhi prima di riconoscerle tali.

Mai abbiamo mai avuto un'opportunita' come questa. Anche se non e' sicuro che le iniziative siano davvero solide e credibili, o che siano basate sull'inganno, nessuno ha fatto un passo avanti per sfidarle ne' tanto meno riconoscerle. Quando Olmert sara' un nonno anziano, che cosa dira' ai suoi nipoti? Che ha fatto di tutto in nome della pace? Cosa diranno i suoi nipoti?

(Traduzione di Nicola Flamigni)

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Le colpe palestinesi e quelle USA e UE

Intervista a Leila Shahid, rappresentante dell'Olp in Europa, ci parla della tragedia che sta insanguinando Gaza e cancellando le speranze di uno stato della Palestina
di Geraldina Colotti

D: A Gaza continuano gli scontri.

Quel che succede è molto grave, non si tratta solo di uno scontro in più. L'offensiva di Hamas distruggerà il governo di unità nazionale,forse il presidente Abu Mazen opterà per un governo di emergenza che metta di fronte alle loro responsabilità sia Hamas che una comunità internazionale colpevole di aver lasciato marcire la situazione. Hamas era stato eletto in mododemocratico e trasparente, ma quel risultato elettorale è stato respinto sia dagli Usa che dall'Unione europea, e la situazione ha covato il dramma: privata del diritto di decidere, la popolazione è stata messa all'angolo, ricacciata verso spinte radicali. Ismail Hanyeh è stato un uomo pragmatico, anche se nel suo partito vi erano forze più radicali contrarie al suo governo, e la cecità della comunità internazionale le ha favorite. Israele ha preteso di negoziare con Abu Mazen, ma senza portare risultati concreti per la vita delle persone, contribuendo anzi a indebolire il presidente. Per i palestinesi questa è forse la situazione più grave in 40 anni di occupazione: due terzi della popolazione vive sotto la soglia della povertà, con meno di 2 dollari al giorno, la disoccupazione nella Striscia di Gaza arriva al 70%, in Cisgiordania al 60%. Sul territorio ci sono oltre 500 barriere e check point. Il muro divide i palestinesi da altri palestinesi. L'assenza di circolazione di persone, capitali e merci è totale. La popolazione civile non aveva più i mezzi per resistere all'esplosione di violenza: che è responsabilità palestinese, ma soprattutto è dovuta all'occupazione, all'interesse specifico degli Usa, e all'atteggiamento della comunità internazionale. L'unione europea, sebbene contraria a una soluzione militare, ha sbagliato a boicottare il governo e a sospenderegli aiuti diretti: così ha punito la popolazione civile, che viveva solo di quegli aiuti.

D: E quali sono le responsabilità da parte palestinese?

Riguardano sia Hamas che Fatah. Hamas, sorpreso dall'ampiezza del successo elettorale, non era pronto ad assumere il potere. Doveva sapere che, persistendo nel rifiuto di riconoscere Israele e continuando a propugnare la lotta armata, per l'Unione europea - principale finanziatore di servizi sociali e assistenza economica -, non sarebbe stato un interlocutore. Anche con Arafat l'aiuto europeo era subordinato a un'intesa sull'esistenza di due stati. Neanche Fatah, d'altronde, aveva previsto un voto di sfiducia di così grandi proporzioni. Persino regioni cristiane hanno votato Hamas. Alcune componenti di Fatah, però, hanno voluto risolvere la questione con la forza, rifiutando ogni proposta, procrastinando la formazione di un governo di coalizione, boicottando Hamas con un atteggiamento antidemocratico. Certo, sia nel campo di Hamas che in quello di Fatah ci sono forze interessate a far cadere il governo di coalizione. Certo, le correnti di Hamas ricevono armi dai loro alleati, ma le armi nelle mani di Fatah, da chi vengono? Usa e Israele permettono l'arrivo di armi a tutte le parti.

D: Come vede le cose dal suo osservatorio europeo?

Il programma del governo di coalizione nazionale, che ha incluso Hamas, Fatah e gli indipendenti, era simile a quello di Fatah. L'Ue avrebbe potuto negoziare con la corrente più pragmatica di Hamas, invece ha spinto la popolazione alla guerra civile, avallando la strategia degli Usa nella regione: dall'Iraq alla Palestina, passando per il Libano, favorire guerre civili per giustificare la propria presenza militare in Medioriente. Ma oggi, al parlamento europeo c'è una maggiore consapevolezza del fallimento delle sanzioni. Tutti i gruppi di sinistra hanno chiesto di ristabilire le relazioni dirette col governo di coalizione.

Lei è stata con Arafat dal '69. Non crede che il vuoto lasciato dal rais sia parte di questa crisi?
Il vuoto si è determinato quando il mondo ha rifiutato di riconoscere il risultato di 3 elezioni, organizzate dopo la morte di Arafat, esemplari per maturità democratica e pluralismo. Quando ha trasformato la volontà di un ricambio democratico in caos e guerra civile.

D: Ma non c'è anche una crisi politica e morale di Fatah?

Il fallimento elettorale di Fatah è legato a quello del processo di pace. Nel '93, Fatah ha presentato gli accordi di Oslo come la soluzione dell'occupazione militare, ha promesso uno stato palestinese per il '99, deludendo e facendo infuriare la popolazione. Poi ha rinviato troppo il processo di rinnovamento. L'ultimo congresso è dell'89: da 18 anni non c'era vita democratica nel partito, e tantomeno quindi in una gestione di governo. Più della corruzione, è stata l'assenza di democrazia a deludere i cittadini. Il loro è stato un voto di protesta, che hanno pagato caro.

D: Bisogna sciogliere l'Anp?

Sarebbe irresponsabile. Anche se è molto indebolita e confrontata alla crisi più grave dalla sua fondazione, l'Anp è frutto di un lungo percorso storico-politico del movimento nazionale palestinese: ci sono voluti 59 anni per costruirla. Piuttosto, occorre un'assunzione di responsabilità. Magari, si può pensare all'invio di una forza internazionale (non di interposizione), che protegga la popolazione civile.

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Cercando disperatamente la sicurezza
Gila Svirsky, Common Ground News Service (CGNews), 17 maggio 2007

In Israele, il concetto di «sicurezza» è un concetto potente.
Serve a giustificare ogni attività militare, compresa l'occupazione dei territori palestinesi, e budget importanti le sono attribuiti. Effettivamente, una mistica si è sviluppata intorno alla sicurezza - «la sicurezza nazionale» è una frase che evoca non solo l'aumento dei budget militari ma fa tacere la critica e impedisce la trasparenza. Recenti sforzi per impedire la pubblicazione di testimonianze sulla seconda guerra del Libano sono stati giustificati in nome della «sicurezza». Una volta la sicurezza aveva un significato molto più ampio della sua definizione militare. Talvolta è difficile ricordarsi di quest'uso più vecchio della «sicurezza», ma in questi ultimi anni sono stati fatti degli sforzi per riattivarlo. Si parla di «sicurezza umana» che comporta dei settori di attività come:
*la sicurezza economica (avere un lavoro, una casa, l'accesso alle cure sanitarie);
*la sicurezza personale (una sicurezza contro la violenza di genere, una protezione contro la criminalità, avere i figli al sicuro dalla droga);
*la sicurezza ecologica (sapere che l'acqua del rubinetto è pulita e pura, avere accesso a spiagge pulite, poter respirare aria pura).

Per molte generazioni però, né i Palestinesi né gli Israeliani hanno conosciuto la sicurezza, né in senso stretto né in un'accezione più ampia.
Le due società hanno vissuto in una condizione di paura e di insicurezza permanenti da molti anni. E benché i Palestinesi abbiano pagato un prezzo molto più alto che gli Israeliani in questo conflitto, è perfettamente chiaro che gli Israeliani vivono in una continua situazione di paura e insicurezza.

Tuttavia, se voi parlate con degli Israeliani dell'occupazione, molti vi diranno che Israele non può lasciare i territori occupati per ragioni di «sicurezza». Diranno che c'è più sicurezza restando in Cisgiordania, costruendo un'alta «barriera di sicurezza» e assediando la Striscia di Gaza. Stranamente, pochi Israeliani si fermano a riflettere se queste misure militari portino una sicurezza cercata da tempo o se in realtà non siano state controproducenti, approfondendo solo la paura e l'insicurezza.

Noi cerchiamo di dimostrare agli israeliani che la sicurezza non deriva dall'avere un esercito forte e aggressivo, ma è piuttosto il prodotto di un ampio ventaglio di attività, che includono il vivere in una società che si preoccupi dei suoi poveri, che riduca la violenza, protegga le sue risorse naturali e coesista in pace con i suoi vicini.
In effetti «la pace è il modo migliore di promuovere la sicurezza». Partecipando a questa campagna, noi invitiamo degli Israeliani a fare dei «tour di realtà» per mostrare loro il Muro di separazione. Li conduciamo nelle case dei Palestinesi che sono stati separati dalla loro terra, dal loro lavoro e dalle loro scuole dal Muro, e diamo ai Palestinesi un'opportunità di raccontare la loro vita e come il Muro l'abbia cambiata. Per la maggior parte degli Israeliani, è la prima volta che parlano con dei Palestinesi. Portiamo gli Israeliani ai checkpoint perché osservino come i soldati trattano i Palestinesi che cercano di passare. Li portiamo anche a vedere parti d'Israele trascurate dai dirigenti politici - le bidonville, i rifugi per donne maltrattate, la tratta delle donne, i centri sanitari insufficienti, le scuole attrezzate male. Questi tour sono esperienze forti. Vanno aldilà di quel che gli Israeliani vedono nei media, mostrando loro una fetta di realtà che non hanno mai visto prima. E poi chiediamo: Pensate che la politica del nostro governo abbia favorito la nostra sicurezza? O non l'ha piuttosto compromessa? Speriamo che le vecchie idee lascino gradualmente il posto ad una nuova comprensione: che Israele non sarà mai in grado di assicurare i bisogni della nostra popolazione fin quando non sarà realizzato un accordo giusto con i nostri vicini.

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Viaggio in Cisgiordania tra i mille ghetti del muro
Umberto De Giovannangeli inviato ad Abu Dis, L'UNITÀ, 1 giugno 2007

AD ABU DIS primo sobborgo arabo «murato» all’uscita di Gerusalemme. Un inferno di cemento e filo spinato. Abu Dis, Ramallah, Tulkarem, Qalqilya, qui vive il popolo dei senza speranza, ostaggio di Israele ma anche delle bande armate palestinesi che dettano legge nei Territori

Il ragazzo invalido fa fatica a superare il muro. Si arrampica, annaspa, lancia un grido di dolore. E poi si lascia cadere nelle braccia degli infermieri della Mezzaluna rossa palestinese. Il tutto sotto lo sguardo distratto di un giovane soldato israeliano in assetto di guerra. Scene di vita quotidiana ad Abu Dis, primo sobborgo arabo «murato» all'uscita di Gerusalemme, in direzione della Cisgiordania. Walid - è il nome del ragazzo infermo - ci racconta in lacrime la sua storia: «Due anni fa, una pallottola di gomma sparata da un soldato israeliano durante una manifestazione a Ramallah mi ha colpito alla gamba. Da allora faccio fatica a muovermi. Devo essere trasportato in carrozzella e per avere le cure necessarie oggi devo superare questo maledetto muro per raggiungere l'ospedale. Mi creda, è un inferno». Un inferno di cemento e di filo spinato che si snoda per centinaia di chilometri. Per gli israeliani è una barriera di difesa dagli attacchi dei kamikaze; per i palestinesi è il Muro della sofferenza e dell'umiliazione. «Dietro questo Muro - ci dice l'anziano Mahmud, venditore ambulante di spezie - un popolo sta morendo. «Siamo consapevoli dei patimenti della popolazione palestinese, ma essi vanno imputati ad una dirigenza succube dei gruppi terroristi. Israele ha il diritto e il dovere di difendere i suoi cittadini, a questo e solo a questo serve la barriera di sicurezza», sottolinea Avi Panzer, portavoce del premier Ehud Olmert. «Senza quella barriera - aggiunge - lo stillicidio di attacchi terroristici contro civili inermi non si sarebbe arrestato».

Ma un viaggio lungo il Muro che divide la Cisgiordania dallo Stato ebraico è innanzitutto un viaggio, angosciante, nella sofferenza dei senza speranza. A un muro già innalzato si accompagnano tratti di un muro in via di edificazione. E laddove non vi sono barriere di cemento e di filo spinato, ci pensano i ceck-point istituiti dall'esercito israeliano a spezzare in mille frammenti territoriali le città e i villaggi della Cisgiordania. Percorrendo il tratto di strada che collega Abu Dis ai ceck-point di Ramallah, Tulkarem, Qalqilya, assistiamo a scene che toccano il cuore: un'anziana donna che cerca, non riuscendoci, di scavalcare il muro. Cade e si rialza più volte, spargendo sul terreno i sacchetti con la frutta e verdura. Accanto a lei, un bambino di non più di quattro-cinque anni piange e prova a sorreggere l'anziana palestinese. I segni di una quotidiana violenza li ritrovi nelle macerie delle case rase al suolo dai bulldozer israeliani, in ciò che resta delle auto sventrate dai carri armati di Tsahal. I segni di un presente che non lascia spazio alla speranza li leggi negli sguardi smarriti, impauriti, dei bambini che affollano i ceck-point chiedendo l'elemosina o vendendo acqua e tè alla menta. I segni del degrado li respiri dalle montagne di rifiuti che affiancano la barriera israeliana. La rabbia si mischia al dolore, l'umiliazione alla dignità della povera gente, ostaggio di Israele ma anche delle bande armate palestinesi che dettano legge nei Territori. Villaggi-fantasma, strade dissestate, fogne a cielo aperto. E ancora: reticolati che circondano intere città, aree un tempo agricole spianate dai bulldozer. E poi le scritte sui lastroni di cemento armato, che raccontano sofferenza e dignità di un popolo. Scritte come: «resistere vuol dire esistere». Sono queste le immagini che rimangono impresse nella mente in un viaggio al di là del Muro. Un viaggio in una terra divisa, espropriata, «insediata».
Oggi sono oltre 245mila i coloni in Cisgiordania; nell'ultimo anno il numero delle abitazioni negli insediamenti è cresciuto di oltre 1885 unità-alloggio, e per altre 6mila il governo di Ehud Olmert ha dato il via libera. In aggiunta, sulle terre espropriate si sono costruiti quattrocento chilometri di strade private per i soli coloni. Queste strade - che si sviluppano a vista d'occhio - percorrono la Cisgiordania come una griglia che accerchia e interrompe le enclave palestinesi. Se Gaza è una enorme prigione a cielo aperto, la Cisgiordania è una terra frantumata in mille ghetti. L'angoscia è compagna di viaggio, e cresce di chilometro in chilometro, perché questo Muro sembra davvero non finire mai. Nahalin, Hussan, Batir, Walaja: sono quattro villaggi nel cosiddetto Triangolo Cristiano a sud di Gerusalemme. I quattro villaggi sono circondati dal Muro, intrappolati da tutti i lati. Attraversare ciascuna delle enclavi , da un muro all'altro, richiede 10-20 minuti di cammino. Ogni abitante di questi villaggi non è mai lontano dal muro più di un chilometro. Non solo i terreni agricoli, ma le scuole, gli ospedali, le cliniche, i mercati, i negozi, i luoghi di lavoro, sono tutti fuori. Per uscire bisogna passare un cancello, attraverso un ceck-point dell'esercito israeliano. Il cancello sarà probabilmente chiuso, perché è aperto solo un paio di ore al giorno, o perché qualche autorità ha deciso di dichiarare lo stato di massima allerta, o perché è una festività ebraica, o più banalmente perché il soldato incaricato non si è svegliato in tempo. E se accade che il cancello è aperto, racconta Faisal, 21 anni, il soldato potrà lasciarti passare (se hai il permesso necessario), oppure no (per qualsiasi motivo, o senza alcun motivo). Ci sono dozzine di villaggi accerchiati in questo modo in tutta la Cisgiordania. Villaggi come Faqqua, vicino a Jenin: il Muro non solo separa i contadini dalla maggior parte della propria terra, ma circonda tutto il villaggio.

Suor Marie Dominique Croyal è la direttrice della Casa di Riposo per anziani di N.S.dei Dolori., a Gerusalemme Est. A pochi passi dall'entrata, è stata eretta la «barriera difensiva». Questa è la sua testimonianza: «Questo muro l'hanno già scavalcato migliaia di persone: studenti, mamme con i bimbi in braccio e persone anziane… Numerose sono state le cadute a volte mortali. Alcuni mesi fa abbiamo chiamato l'ambulanza per soccorrere un uomo di circa 65 anni, che era caduto dal muro a capofitto ed aveva perso conoscenza». « L'ambulanza - prosegue Sr Marie Dominique - è arrivata dopo mezz'ora e all'andata, al crocevia di Betania, è stata perquisita dall'esercito, che ha fatto scendere la moglie del ferito, ritardando le cure. Quello che succede ai piedi di questo muro è divenuto intollerabile…». Neanche la più fertile mente diplomatica può immaginare, oggi, di ricomporre questa miriade di puzzle territoriali in uno Stato. Da Qalqilya a Tulkarem, da Ramallah a Nablus: sono decine i racconti che ho ascoltato di nuclei familiari divisi dal Muro, di malati impossibilitati a raggiungere gli ospedali e i luoghi di cura all'interno della Cisgiordania. La barriera di cemento armato che «avvolge» Gerusalemme è alta 8 metri, il doppio del muro di Berlino, sovrastata ogni 300 metri da torri di controllo, potenziata da trincee profonde due metri: costeggiarla dà un senso di asfissia. Laddove attraversa aree urbane - il 10% del percorso, ma con la più alta densità di popolazione - il Muro è composto da blocchi di cemento armato alti dai 6 ai 9 metri. Nelle aree rurali, invece, il Muro assume la forma di una barriera larga dai 50 agli 80 metri e composta da vari elementi: filo spinato, trincea, rete metallica, sensori di movimento, pista di pattugliamento, e striscia di sabbia.

Non soltanto il Muro non segue la «Green Line» del 1967, ma esso ripiega su se stesso creando 22 enclavi. La crescita del Muro violenta la memoria: a Tulkarem c'era un mercato fatto di baracche e prefabbricati: era un punto di incontro per noi giornalisti che ci addentravamo nei Territori: quel mercatino era famoso per i suoi deliziosi panini caldi al sesamo. Adesso c'è il Muro: È alto otto metri e da una parte e dall'altra corre il filo spinato e un fossato, e dove c'erano campi coltivati ora i contadini vedono, impotenti, l'erba che cresce selvaggia e le olive che cadono nelle reti. Qalqilya, città a nord-ovest della Cisgiordania, è il maggior comune palestinese. Con una popolazione di più di 42mila abitanti, essa è anche il centro di riferimento per 32 villaggi vicini, cioè altre 90 mila fanno affidamento sulla città per i servizi sanitari e l'istruzione. Un affidamento che si fa sempre più etereo, perché Qalqilya è stata completamente circondata da una barriera lunga 14 km.
Il Muro trasforma decine di villaggi in vere prigioni a cielo aperto: è il caso di Rafat, a sud di Ramallah: le quattro vie che collegano Rafat ai paesi vicini sono state chiuse dal muro, che qui si presenta con una recinzione di filo spinato con elettricità a cui è impossibile avvicinarsi: i soldati israeliani, infatti, ogni mattina e sera controllano che non ci siano impronte sulla sabbia che è stata messa attorno alla recinzione. A pochi chilometri da Rafat c'è il villaggio di Anatan: qui il muro ha tagliato in due la scuola pubblica. Ad Anatan vive Khaled. Ha 23 anni e sei mesi fa ha spostato Layla, una ragazza di un villaggio vicino. Però il muro li ha separati e la ragazza non ha il permesso di venire a casa sua, nella sua famiglia, da suo marito perché Layla abita in quel villaggio che è stato separato da quel muro. All'ombra del Muro quella che prende sempre più corpo, giorno dopo giorno, è la politica dei fatti compiuti, delle scelte irreversibili, unilaterali, che svuotano di ogni significato concreto un (ipotetico) negoziato. La realizzazione del Muro ha significato, tra l'altro, questo: lo sradicamento di 108.474 alberi di ulivo e limoni palestinesi; la demolizione di 324 kmq di serre e 43 km. di condutture; almeno 121 città e villaggi palestinesi sono stati, finora, danneggiati dal Muro, che li ha privati della loro terra e delle proprie risorse.
Dei 51 villaggi e città palestinesi che si trovano lungo il percorso della prima fase di costruzione del muro, 29 sono stati separati da più della metà della loro terra. Una volta completato il Muro circonderà circa il 57% della Cisgiordania. E sancirà la fine di ogni speranza (o illusione) di una pace fondata su due Stati. «È il tracciato a svelare la finalità vera del Muro: l'annessione di fatto a Israele di una parte della Cisgiordania», ci dice Mustafa Barghuti, ministro dell'Informazione dell'Anp. E così, nell'impotenza della politica, nella latitanza della diplomazia internazionale, la Cisgiordania è un puzzle di mille ghetti e Israele «cementifica» la sua sicurezza. Cementifica, nel senso, per nulla metaforico, di cemento armato. Quello che dalla Cisgiordania si vorrebbe estendere a Sderot - la cittadina ai confini della Striscia di Gaza bersagliata quotidianamente dai Qassam palestinesi - e magari anche a Netivot e alla vicina Ashqelom (110mila abitanti) che Hamas minaccia di colpire con una pioggia di razzi. «Che fare allora? - si è interrogato il ministro Benjamin Ben Eliezer -. Fortificare tutto? Fortificare magari anche la Galilea, perché è esposta ai razzi Hezbollah? Fortificare con cemento mezzo Israele?». Quel cemento potrà servire per innalzare nuovi Muri, ma di certo affonderà ciò che resta di un sogno chiamato convivenza.

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40 anni di occupazione israeliani in Palestina
Ettore Masina (pacifista italiano) Nurit Peled-Elhanan (pacifista israeliana)

Noi vecchi siamo testimoni della storia e, in quanto tali, scomodissimi a noi stessi.
Una tragedia che accompagna la mia storia è quella della Palestina. Ne ho studiato le cause e ne ho visto con i miei occhi gli effetti: non solo le immagini che la televisione ci mostra, accompagnate (parlo del TG1) da informazioni così unilaterali nel loro favoreggiamento della propaganda governativa israeliana che nessun telegiornale di Tel Aviv le metterebbe in onda: ma il pianto dei bambini e delle donne accanto alle case demolite dai bulldozers, gli ulivi abbattuti, gli uomini che raccolgono le vittime innocenti del killeraggio missilistico israeliano, la vergogna dei check-points. Oggi, più che mai, questa ferocia nei confronti dei palestinesi celebra il suo trionfo: fosse ancora davvero vivo Sharon, come gioirebbe di questa guerra civile fra palestinesi. Chi ha a cuore la pace, la giustizia, la grandezza dell’ebraismo e della sua cultura sente le sue speranze messe a durissima prova. Ma non dobbiamo tradirle: grandi scrittori, da Grossman a Yehoschua, pacifisti, giornalisti israeliani vedono ormai chiaramente come non sia possibile costruire un futuro sulla violenza dei forti. Sono voci che risuonano nel cuore del popolo israeliano e sembrano diventare sempre più solenni, che in mezzo alle rovine annunziano l’imperiosa necessità della pace. Vi propongo una di queste voci, quella di Nurit Peled-Elhanan, premiata, anni fa, dal parlamento europeo con il Premio Sacharov per i diritti umani e la libertà di pensiero. Sua figlia Smadar, 13 anni, è stata uccisa da un terrorista palestinese. Nurit ha visto in questa ferocia i segni della disperazione di un popolo soggetto a una spietata occupazione e non ha ceduto alle tentazioni dell’odio. Il discorso è stato pronunziato proprio in occasione di una cerimonia per ricordare i quarant’anni dell’occupazione


Nurit Peled-Elhanan (pacifista israeliana)
E’ un grande onore per me stare su questo palco accanto al mio amico e fratello Bassam Aramin, palestinese,, uno dei fondatori dei Combattenti per la Pace, gruppo di cui sono membri due dei miei figli, Alik e Guy. La scorsa settimana, martedì ad Anata e giovedì a Tul Karem, il movimento dei Combattenti per la Pace è riuscito ad organizzare due imponenti incontri e a reclutare 10.000 palestinesi alla propria causa – una lotta non violenta e congiunta contro l’occupazione, nella stretta collaborazione tra Israeliani e Palestinesi. Se non fosse per le leggi razziste dello Stato di Israele, tutte quelle migliaia di persone potrebbero essere qui con noi questa sera per provare una volta per tutte che abbiamo un seguito. Bassam e io, siamo tutti e due vittime dell’occupazione crudele che continua a corrompere questo Paese. Tutti e due questa sera veniamo a piangere il destino di questo paese che ha seppellito le nostre due figlie – Smadar, germoglio del frutto, e Abir, profumo di fiore,- assassinate a dieci anni di distanza, dieci anni che questo Paese ha riempito del sangue dei bambini: e il regno sotterraneo dei bambini su cui noi camminiamo, giorno dopo giorno, ora dopo ora, è cresciuto tanto da straripare.

Ma quello che unisce Bassam e me non è solo la morte a cui l’Occupazione ci ha condannato. Quello che ci unisce è soprattutto la fede e la volontà di crescere i figli che ci sono rimasti in modo che essi non permettano mai più che politici corrotti, avidi e affamati di potere e generali assetati di sangue e conquiste, abbiano dominio sulle loro vite e li mettano gli uni contro gli altri. Non permetteranno più che il razzismo, che si è diffuso in questo Paese, li conduca fuori dal sentiero della pace e della fratellanza. Perché solo quella fratellanza può abbattere il muro di razzismo che si sta costruendo davanti ai nostri occhi. Da quarant’anni il razzismo e la megalomania tiranneggiano le nostre vite. Quarant’anni durante i quali più di quattro milioni di persone non conoscono il significato di “libertà di movimento”. Quarant’anni in cui i bambini palestinesi nascono e crescono da reclusi nelle loro case, che l’Occupazione ha trasformato in prigioni, privandoli fin dall’inizio di tutti i diritti a cui gli esseri umani hanno titolo in quanto esseri umani. Quarant’anni durante i quali i bambini israeliani sono stati educati al razzismo di un tipo che, nel mondo civile, era rimasto sconosciuto per decenni. Quarant’anni durante i quali hanno imparato ad odiare i vicini soltanto perché sono i vicini, a temerli senza conoscerli, a vedere un quarto dei cittadini dello Stato come un pericolo demografico e un nemico interno, e a relazionarsi con gli abitanti dei ghetti creati dalla politica di occupazione come con un problema che deve essere risolto.

Solo sessant’anni fa gli ebrei erano gli abitanti dei ghetti ed erano visti dagli occhi dei loro oppressori come un problema che doveva essere risolto. Solo sessant’anni fa gli Ebrei erano rinchiusi dietro orrendi muri di cemento elettrificati - in cima ai quali stavano torrette vigilate da uomini armati - e privati della capacità di guadagnarsi da vivere o di crescere i propri figli con dignità. Solo sessant’anni fa il razzismo esigeva il suo prezzo dal popolo ebraico.
Oggi nello stato ebraico governa il razzismo, che calpesta la dignità delle persone, le priva della libertà e condanna tutti noi a vite d’inferno. Da quarant’anni il capo ebraico si è incessantemente inchinato in adorazione del razzismo, mentre la mente ebraica stava escogitando i modi più creativi per devastare, demolire e distruggere questo Paese. Questo è ciò che rimane del genio ebraico, ciò che è diventato Israele. La compassione ebraica, la pietà ebraica, il cosmopolitismo ebraico, l’amore per l’umanità e il rispetto per l’altro sono stati da tempo dimenticati. Il loro posto è stato preso dal razzismo.

E’ stato il razzismo che ha motivato un soldato a premere il grilletto dall’interno del suo mezzo corazzato per sparare alla testa di Abir, mentre lei si addossava a un muro, impaurita dal blindato piombato nel cortile della scuola.

E’ solo il razzismo che spinge i guidatori dei bulldozer a demolire le case con i loro abitanti dentro, a distruggere campi e vigne, a sradicare olivi centenari. Solo il razzismo può inventare strade la cui circolazione è stabilita in base alla razza, ed è solo il razzismo che motiva i nostri figli ad umiliare donne che potrebbero essere le loro madri e a fare violenza a persone anziane ai diabolici check-point, a picchiare giovani della loro stessa età che, come loro, vogliono portare la famiglia a fare il bagno al mare, e a guardare impassibili una donna partorire il proprio bambino sulla strada. E’ solo il puro razzismo che motiva i nostri piloti migliori a scaricare bombe da una tonnellata su edifici residenziali ed è solo il razzismo che permette a questi criminali di dormire bene la notte.

Perché il razzismo elimina la vergogna. Questo razzismo ha eretto per se stesso un monumento a propria immagine – il monumento di un brutto muro di cemento, rigido, minaccioso e invasivo. Un monumento che proclama al mondo intero che la vergogna è stata bandita da questo Paese. Questo muro è il nostro muro della vergogna, esso è la testimonianza del fatto che noi ci siamo trasformati da luce per le nazioni “ad un oggetto di disgrazia per le nazioni e il dileggio per tutti i paesi”

E questa sera dobbiamo domandarci: cosa ne abbiamo fatto della nostra vergogna? Come allontaneremo la disgrazia? Ma per prima e più importante cosa, come è che la vergogna non ci impedisce di dormire la notte? Come è che permettiamo che metà dei nostri salari vengano usati per compiere crimini contro l’umanità? Come è che siamo riusciti a ridurre la vergogna a due colonne sul quotidiano e a non dedicarle più dei pochi minuti che destiniamo ad una lettura frettolosa degli articoli di Gideon Levy e Amira Hass, come quando uno legge la cronaca di uno scenario già noto in precedenza? Come è successo che siamo riusciti ad impacchettare l’infinita sofferenza quotidiana, la fame, la denutrizione, i traumi dei bambini, l’invalidità, la condizione di orfani e il lutto in una parola alienante: “politica”?
Com’è che i nostri figli camminano tronfi e fanno gli spacconi nell’uniforme della brutalità che indossano quando servono nell’esercito delle distruzioni e dei massacri?

Com’è che tutte le splendide istituzioni del mondo stanno a guardare e non riescono a fare una sola cosa per salvare un bambino dalla morte o rimuovere un blocco di calcestruzzo dal muro della vergogna? Com’è che tutte le organizzazioni per la pace e i diritti umani non riescono a fermare i gipponi delle Guardie di Frontiera che arrivano a terrorizzare e uccidere gli alunni delle scuole, e non sono in grado di fermare un bulldozer nel suo percorso per distruggere una casa con i suoi occupanti dentro, di salvare un albero di olivo dalla distruzione, o una bambina che si è persa mentre andava a scuola e si è trovata sulla traiettoria dei soldati dell’Occupazione?
Una delle risposte a queste domande è che lo Stato di Israele è capace di ridurre al silenzio e di paralizzare il mondo intero perché c’è stato l’Olocausto. Lo Stato di Israele ha acquisito il permesso di fare violenza su di una intera nazione perché c’è l’antisemitismo. Lo Stato di Israele sta causando il disastro esistenziale – economico, sociale ed umano - ai suoi cittadini e alla popolazione soggiogata e nessuno osa fermarlo perché una volta c’era Hitler. In questo stesso momento i sopravvissuti all’Olocausto stanno soffrendo l’ignominia della fame in questo Paese.

Questa sera noi dobbiamo chiedere aiuto al mondo per liberare noi stessi dalla vergogna. Questa sera dobbiamo spiegare al mondo che se vuole salvare il popolo di Israele e il popolo palestinese dall’olocausto imminente che minaccia tutti noi è necessario che condanni la politica di occupazione, il dominio della morte deve essere fermato nel suo percorso. Tutti i criminali di guerra che svestono le uniformi e cominciano a viaggiare per il mondo devono essere arrestati, processati e messi in prigione invece di avere la possibilità di gioire dei piaceri della libertà, mentre si stanno ancora trascinando dietro un tintinnante salvadanaio pieno di crimini di guerra.

E per noi è arrivato il momento di smettere di consegnare i nostri figli ad un sistema educativo che radica in loro valori falsi e razzisti ed insegna loro che il proprio contributo alla società si riassume nel fare violenza ed uccidere i figli di altre persone. E’ venuto il momento per noi di spiegare loro che la popolazione di questo luogo non è divisa fra Ebrei e non-Ebrei come è scritto nei loro libri scolastici, ma in esseri umani che vogliono vivere in pace nonostante tutto, e persone che hanno perduto la loro umanità e ricavano piacere dalla distruzione e dalla devastazione. E’ venuto il tempo per noi di spiegare ai nostri figli dove vivono.

Oggi, mentre l’intero mondo civilizzato si diverte a denigrare e diffamare il sistema scolastico palestinese, non c’è un solo testo scolastico in Israele che presenti l’immagine di un palestinese come una persona normale moderna. Non c’è nessun libro scolastico in Israele che presenti una carta geografica che mostri i confini veri dello Stato. Non c’è nessun libro di testo in Israele in cui appaia la parola “occupazione”. I nostri figli vengono arruolati nell’esercito di occupazione senza conoscere il luogo in cui vivono, senza conoscere la sua storia e la sua gente. Entrano nell’esercito imbevuti di odio e paura. I nostri figli vengono educati a vedere chiunque non sia Ebreo come un Goy, l’Altro, che generazione dopo generazione cerca di distruggerci. Questa educazione rende facile ai vertici militari trasformare i nostri figli in mostri.

Quindi l’unico modo per impedire che i nostri figli diventino strumenti nelle mani della macchina di distruzione è raccontare loro la storia di questo luogo, disegnare per loro i suoi confini, aiutarli a conoscere i vicini, la loro cultura, le loro usanze, la loro gentilezza e i loro diritti sulla terra dove hanno vissuto per molte generazioni prima che i Pionieri sionisti arrivassero nella Terra Promessa di Israele. E soprattutto insegnare loro a non sottomettersi alla Stato, a non rispettare la sua autorità, perché questo Stato è governato da ladri e opportunisti, che non controllano i loro impulsi, né quelli sessuali né altri, persino nei tempi più neri e reggono questo Stato secondo le leggi della Mafia: “Tu hai ucciso uno dei miei – io ucciderò un centinaio dei tuoi. Tu mi hai lanciato una bomba fatta in casa – io sgancerò un centinaio delle bombe più distruttive e sofisticate del mondo che non lasceranno neanche una traccia di te, della tua famiglia e dei tuoi vicini. Tu hai bruciato una delle mie auto così io brucerò una delle tue città.” Questa è la logica del mondo della criminalità.

Questa sera dobbiamo pensare a quelli che sono condannati a morire n ftro e a quelli che sono condannati a cadere nel crimine sotto la copertura della legge e dell’uniforme. Dobbiamo salvarli tutti. Dobbiamo insegnare a tutti loro a non obbedire a degli ordini che, anche se sono legali secondo le leggi razziali di questo Stato, sono manifestamente e chiaramente inumani.E soprattutto, questa sera dobbiamo fermarci un attimo, tutti noi, e guardare il viso della piccola Abir Aramin, la sua testa colpita alla nuca da un proiettile, il cui assassino non si troverà mai di fronte ad un processo in questo Paese e non verrà mai punito nel modo in cui merita, e domandare a noi stessi,

Perché quella striscia di sangue lacera il petalo della sua guancia...


(Traduzione di Gabriella Cecilia Gallia)

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Un'intera nazione prigioniera di Israele
di John Pilger 14 giugno 2007

L'uso selettivo della lingua da parte dei media e la censura per omissione del giornalismo occidentale coprono la scientifica violenza israeliana Gaza deve (dovrebbe) essere mostrata per quello che è: un laboratorio israeliano, sostenuto dalla comunità internazionale, dove gli essere umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più perverse di soffocamento economico e riduzione alla fame

Si sta consentendo a Israele di distruggere la nozione stessa di Stato palestinese e di tenere prigioniera un'intera nazione. Questo appare in modo evidente dagli ultimi attacchi su Gaza, la cui sofferenza è diventata una metafora della tragedia imposta ai popoli in Medio Oriente ed oltre. Secondo il notiziario britannico Channel 4 News, questi attacchi «erano mirati contro importanti militanti di Hamas» e contro «l'infrastruttura di Hamas». La Bbc ha parlato di uno «scontro» tra gli stessi militanti e gli F-16 israeliani.

Consideriamo uno di questi scontri. L'automobile dei militanti è stata fatta esplodere da un missile partito da un cacciabombardiere. Chi erano questi militanti? Secondo la mia esperienza, tutti gli abitanti di Gaza sono militanti in quanto resistono al loro carceriere e aguzzino. Quanto alla «infrastruttura di Hamas», si trattava della sede del partito che ha vinto le elezioni democratiche dell'anno scorso in Palestina.

Dire questo darebbe una cattiva impressione. Suggerirebbe che le persone a bordo dell'automobile e tutti gli altri nel corso degli anni, i bambini e gli anziani che si sono anche loro «scontrati» con i cacciabombardieri, sono stati vittima di una mostruosa ingiustizia. Suggerirebbe la verità.

«Secondo alcuni». ha detto il reporter di Channel 4, «Hamas ha sollecitato questo ...». Forse si riferiva ai razzi sparati contro Israele dall'interno della prigione di Gaza, che non hanno ucciso nessuno. Secondo il diritto internazionale, una popolazione occupata ha il diritto di usare le armi contro le forze di occupazione, ma questo diritto non viene mai citato. Il giornalista di Channel 4 ha fatto riferimento a una «guerra infinita». Non c'è nessuna guerra. C'è la resistenza della popolazione più povera, più vulnerabile sulla terra a una perdurante occupazione illegale imposta dalla quarta più grande potenza militare al mondo, le cui armi di distruzione di massa vanno dalle bombe cluster ai congegni termonucleari, pagate dalla superpotenza \. Soltanto negli ultimi sei anni, ha scritto lo storico Ilan Pappé, «le forze israeliane hanno ucciso più di 4.000 palestinesi, la metà dei quali bambini».

Consideriamo come funziona questa potenza. Secondo i documenti ottenuti da United Press International, una volta gli israeliani finanziavano segretamente Hamas come «tentativo diretto di dividere e annacquare il consenso a un'Olp forte e laica utilizzando un'alternativa religiosa rivale», come ha detto un ex funzionario della Cia.
Oggi Israele e gli Usa hanno capovolto il loro intervento e sostengono apertamente il rivale di Hamas, Fatah, con mazzette di milioni di dollari. Di recente Israele ha segretamente autorizzato 500 combattenti di Fatah a entrare a Gaza dall'Egitto, dove erano stati addestrati da un altro protetto degli americani, la dittatura del Cairo. Scopo di Israele è indebolire il governo palestinese eletto e fomentare una guerra civile. Per tutta risposta, i palestinesi hanno creato un governo di unità nazionale, con Hamas e Fatah. È questo che gli ultimi attacchi mirano a distruggere.

Con Gaza rinchiusa nel caos e la Cisgiordania cinta da un muro, il piano israeliano, ha scritto l'accademica palestinese Karma Nabulsi, è «una visione hobbesiana di una società anarchica: monca, violenta, impotente, distrutta, intimidita, governata da milizie, bande, estremisti e ideologi religiosi i più disparati, divisa dal tribalismo etnico e religioso e dai collaborazionisti cooptati. Guardate l'Iraq di oggi...».

Il 19 maggio, il Guardian ha ricevuto questa lettera da Omar Jabary al-Sarafeh, un abitante di Ramallah. «La terra, l'acqua e l'aria sono sotto costante osservazione da parte di un sofisticato sistema di sorveglianza militare... La striscia di Gaza deve \ essere mostrata per ciò che è... un laboratorio israeliano sostenuto dalla comunità internazionale dove gli esseri umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più drammatiche e perverse di soffocamento economico e di riduzione alla fame».

Il giornalista israeliano Gideon Levy ha descritto la fame che colpisce gli abitanti di Gaza, più di un milione e 250 mila persone, e le «migliaia di persone ferite, rese disabili e scioccate dalle bombe, che non possono ricevere alcuna assistenza... Ombre di esseri umani vagano tra le rovine... Sanno solo che tornerà, e sanno cosa significherà questo per loro: più prigionia nelle loro case per settimane, più morte e distruzione in proporzioni mostruose».
Ogni volta che sono stato a Gaza, sono stato consumato da questa malinconia, come se fossi penetrato in un segreto luogo di cordoglio. Le scritte sui muri forati dai proiettili commemorano i morti, come la famiglia di 18 uomini, donne e bambini che «si sono scontrati» con una bomba israelo-americana da 500 libbre, lanciata sulla loro casa mentre dormivano. Militanti, si presume.

Più del 40% della popolazione di Gaza è formato da bambini sotto i 15 anni. Dando conto di uno studio sul campo per il British Medical Journal effettuato per 4 anni nella Palestina occupata, il dottor Derek Summerfield ha scritto che «due terzi dei 621 bambini uccisi ai check-point, per strada, mentre andavano a scuola, nelle loro case, sono morti per piccole armi da fuoco che li hanno colpiti in più della metà dei casi alla testa, al collo e al petto: la ferita del cecchino». Un mio amico che lavora all'Onu li chiama «figli della polvere». La loro stupenda infantilità, la loro chiassosità, le loro risate, il loro incanto, tradiscono il loro incubo.

Ho incontrato il dottor Khalid Dahlan, uno psichiatra che dirige uno di svariati progetti di salute infantile sul territorio a Gaza. Dahlan mi ha parlato della sua ultima ricerca. «La statistica che personalmente trovo insopportabile» ha detto «è che il 99.4% dei bambini che abbiamo preso in esame soffrono per un trauma. Se si guardano i tassi di esposizione al trauma, si capisce il perché: il 99.2% del gruppo di studio ha avuto la casa bombardata; il 97.5% è stato esposto ai gas lacrimogeni; il 96.6% ha assistito a sparatorie; il 95.8% ha assistito a bombardamenti e funerali; quasi un quarto ha visto dei componenti della propria famiglia feriti o morti».
Dahlan spiega che bambini di soli tre anni hanno vissuto la dicotomia causata dal doversi misurare con simili condizioni. Essi sognavano di diventare medici e infermieri, poi tutto questo è stato travolto da una visione apocalittica di se stessi come la prossima generazione di attentatori suicidi. Ciò invariabilmente dopo un attacco israeliano. Per alcuni ragazzini gli eroi non erano più i calciatori, ma una confusione di «martiri» palestinesi e persino il nemico, «perché i soldati israeliani sono i più forti e hanno gli elicotteri Apache».
Poco prima di morire, Edward Said rimproverò amaramente i giornalisti stranieri per quello che giudicava il loro ruolo distruttivo nel «cancellare il contesto della violenza palestinese, la risposta di un popolo disperato e orribilmente oppresso, e la terribile sofferenza da cui essa scaturisce». Proprio come l'invasione dell'Iraq è stata una «guerra di media», altrettanto può dirsi del «conflitto» grottescamente unidirezionale che è in corso in Palestina. Come dimostra il lavoro pionieristico del Media Group dell'università di Glasgow, agli spettatori televisivi viene detto raramente che i palestinesi sono vittima di una occupazione militare illegale; il termine «territori occupati» è spiegato di rado. Solo il 9% dei giovani intervistati nel Regno unito sa che gli israeliani sono la forza di occupazione e i coloni illegali sono gli ebrei; molti credono che siano i palestinesi. L'uso selettivo della lingua da parte delle emittenti radiotelevisive è cruciale nel mantenere questa confusione e ignoranza. Parole come «terrorismo», «omicidio» e «uccisione selvaggia, a sangue freddo» descrivono la morte degli israeliani, quasi mai quella dei palestinesi.

Ci sono eccezioni lodevoli. L'inviato della Bbc rapito, Alan Johnston, è una di esse. Eppure, nella valanga di notizie sul suo rapimento, non si citano mai le migliaia di palestinesi rapiti da Israele, molti dei quali non rivedranno le loro famiglie per anni. Per loro non ci sono appelli. A Gerusalemme, l'Associazione stampa estera documenta come i suoi membri siano sottoposti al fuoco e alle intimidazioni da parte dei soldati israeliani. In un periodo di 8 mesi altrettanti giornalisti, compreso il responsabile della Cnn a Gerusalemme, sono stati feriti dagli israeliani, alcuni di loro gravemente. In ciascun caso l'Associazione stampa estera ha protestato. In ciascun caso, non c'è stata una risposta soddisfacente.

Una censura per omissione attraversa profondamente il giornalismo occidentale su Israele, specialmente negli Usa. Hamas è liquidata come «un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele», che «rifiuta di riconoscere Israele e vuole combattere, non dialogare». Questo discorso sopprime la verità: il fatto che Israele sta distruggendo la Palestina. Inoltre le proposte di Hamas, avanzate da tempo, di un «cessate il fuoco» di 10 anni vengono ignorate, insieme a un recente, promettente spostamento ideologico al suo interno, che vede una accettazione storica della sovranità di Israele. «La carta non è il Corano», ha detto uno di Hamas, Mohammed Ghazal. «Storicamente crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando della realtà, delle soluzioni politiche».

L'ultima volta che ho visto Gaza, mentre mi recavo in auto verso il check-point israeliano con il filo spinato, ho potuto assistere allo spettacolo di bandiere palestinesi che sventolavano dall'interno dei compound recintati. Erano stati i bambini, mi spiegavano. Fabbricano le aste con delle bacchette legate insieme, e uno o due di loro si arrampicano in cima a un muro tenendo la bandiera in silenzio. Lo fanno quando ci sono degli stranieri in giro, e pensano che potranno dirlo al mondo.

(Traduzione Marina Impallomeni)

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LA NOTTE DELLA PALESTINA
di Ali Rashid dal manifesto del 14 luglio 2007

Forse una speranza, ho pensato ieri quando la gente di Gaza è scesa in piazza contro la guerra fratricida. Poi Al Jazeera ha mostrato il corteo bersagliato da entrambi i contendenti, e sono cadute le prime vittime. Si può ripartire solo da questo coraggio, da chi non si è fatto intimidire da armi, calci e sputi. Ora c'è solo rabbia, vergogna, stupore. I due contendenti in armi non rappresentano più il disagio e le aspirazioni palestinesi. È lotta per il potere, in assenza di potere, sulle macerie della Palestina ancora sotto l'occupazione israeliana che dura da sessant'anni. Tornano in mente le parole di Frantz Fanon nella Rivoluzione tradita: «In mancanza di un progetto politico e culturale alternativo si riproduce la dimensione del nemico occupante». Così azzerano anni di lotta drammatica, ma anche di riscatto politico, umano e culturale. Le parti che si fronteggiano, nel metodo e nel contenuto, sembrano estranei a questa storia.

Ma perché questa trasformazione dopo la vittoria elettorale di Hamas. Perché hanno sconvolto un popolo che aveva fatto, comunque, la sua scelta? La risposta sta nel meccanismo democratico inceppato che non ha permesso a chi ha vinto le elezioni di esercitare il suo diritto-dovere di governare. I responsabili sono troppi: innanzitutto la stessa Al Fatah e il presidente Abu Mazen che, insieme ad Israele e alla Comunità internazionale, ha frapposto mille ostacoli tra Hamas e la possibilità di governare. Il resto lo hanno fatto l'isolamento politico, l'embargo economico, le uccisioni mirate, le incursioni militari quotidiane, gli arresti dei membri del governo e del Parlamento, il Muro, i nuovi insediamenti. Israele e gli Stati uniti - il rapporto dell'inviato dell'Onu Alvaro de Soto parla di effetto «devastante» per «l'appoggio incondizionato dato dalla Casa bianca ad Israele» - hanno imposto un assedio finanziario, minacciando le banche internazionali, impedendo l'arrivo di fondi raccolti nel mondo per la popolazione alla fame.

È così cresciuto un caos non calmo, con una deriva malavitosa. E l'ultimo accordo della Mecca tra Hamas e Fatah che aveva posto fine agli scontri precedenti dando vita al governo di unità nazionale accolto con gioia nei Territori, non ha modificato né l'intransigenza d'Israele, né le condizioni materiali dei palestinesi. L'embargo e l'isolamento internazionale continuano. Altri ministri e parlamentari sono stati rapiti e rinchiusi nelle carceri israeliane. L'accordo della Mecca prevedeva l'allontanamento di tutti i falchi responsabili degli scontri. Hamas ha allontanato i propri - quelli che oggi guidano la protesta e la cui ferocia in queste ore è scellerata - ma Abu Mazen ha confermato e promosso l'eminenza grigia Dahlan.

E le forze dell'ordine hanno continuato a rifiutare gli ordini del ministro degli interni, costringendolo alle dimissioni. Infine le dichiarazioni di Israele e di Bush, sulle intenzioni di sostenere con armi e denaro le forze dell'ordine alle dipendenze di Abu Mazen in funzione anti-Hamas, hanno aperto la voragine dei sospetti. Oggi «allegramente» Israele sostiene che è la divisione dei palestinesi ad impedire la ripresa delle trattative. In verità Israele, che non trattava neanche quando l'interlocutore c'era, non tratta perché è contro una soluzione politica che ponga fine alla sua occupazione sulla Palestina.I palestinesi si uccidono e suicidano il sogno della terra più amata.

Ma il mondo occidentale, Europa compresa, che sta a guardare è il vero responsabile. La sua guerra e le sue false promesse hanno riaperto per sempre la ferita del Medio Oriente.

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ISRAELE e gli OMICIDI MIRATI
di Mustafa al Barghouthi, 15-06-2007 Fonte Maan News

Mentre noi entriamo nel 41° anno dell’occupazione militare israeliana, una delle politiche più sinistre inflitteci è rappresentata dai cosiddetti “omicidi mirati”. Israele non applica la pena di morte eccetto che per i palestinesi che vivono sotto il governo militare israeliano della West Bank e nella Striscia di Gaza.

Là, sospetti oppositori dell’occupazione israeliana sono uccisi di routine senza imputazione, giudice o giuria. Innocenti a cui capita di trovarsi nelle vicinanze di un “obiettivo” di Israele spesso sono vittime di esecuzioni sommarie. In aprile, la diciassettenne Bushra Breghish stava camminando nella sua camera da letto, mentre studiava per gli esami. Un cecchino israeliano, di uno squadrone inviato per arrestare suo fratello, le ha sparato in fronte, uccidendola all’istante.

Tutto ciò che teneva in mano era un libro. L’altra settimana nella piazza centrale di Ramallah, in pieno giorno, forze israeliane sotto copertura hanno sparato alle gambe a un ragazzo di 22 anni, Omar Abu Daher. Dopo che è caduto, e poteva essere tranquillamente arrestato, un assassino israeliano gli ha sparato nella nuca a distanza ravvicinata, poi ha dato un calcio al suo corpo, per confermarne la morte. La morte di questi giovani palestinese non è rara, né casuale. Sono le vittime di una politica riconosciuta apertamente. Per decenni, Israele ha assassinato leader palestinesi all’estero, seguendo i macabri calcoli dei suoi scienziali politici e esperti di intelligence per i quali persino un ridotto numero di assassinii può ritardare se non distruggere il nostro movimento nazionale.

Israele ha affermato di colpire coloro che sono colpevoli di aver compiuto o pianificato atti di violenza. In realtà, i leader politici palestinesi, poeti, giornalisti e altri professionisti e artisti sono stati uccisi. Israele ha iniziato gli “omicidi mirati” nella Striscia di Gaza negli anni ’70, e ha ampliato questa pratica durante la prima Intifada, svoltasi fra il 1987 e il 1993. La gioventù palestinese ha affrontato i blindati israeliani con poco più che slogan e pietre. Israele ha condannato (a morte, ndr) i loro “obiettivi” sulla base di un mero sospetto. Da allora hanno firmato la condanna a morte di centinaia e più, compresi passanti come la giovane Bushra che studiava per la maturità.

Dal settembre 2000 più di 400 palestinesi sono stati assassinati in esecuzioni extragiudiziarie. Circa la metà erano innocenti passanti e, almeno 44, bambini. Queste esecuzioni extragiudiziarie sono crimini di guerra. Il governo di unità palestinese ha offerto di porre fine a tutte le forme di violenza se Israele avesse fatto altrettanto e avesse terminato l’uso della violenza contro i palestinesi, sia nella West Bank che nella Striscia di Gaza. (…)

Non abbiamo speranza di successo in questo obiettivo se Israele non ci verrà incontro a metà strada. I palestinesi giustamente rifiuterebbero un governo che protegga le vite israeliane mentre non riesce a proteggere quelle palestinesi, che sono state sacrificate 30 volte in più rispetto a quelle israeliane negli ultimi 17 mesi. Israele ha risposto con l’escalation degli attacchi contro Gaza e con gli omicidi extragiudiziari nella West Bank. Il suo obiettivo politico è qualcos’altro se non la pace? Gli assassini israeliani dei sette anni trascorsi hanno ripetutamente frantumato le tregue unilaterali con i Palestinesi e impossibilitato qualsiasi prospetto di trattative. Perché Israele ha riacceso costantemente la violenza? È possibile che la nostra compiacenza a negoziare le nostre differenze sia più pericolosa della minaccia militare che la nostra popolazione assillata potrebbe radunare mai contro i sei più potenti eserciti del mondo?

Potrebbe essere che l'Israele cerchi di terminare il sistematico spodestamento dei Palestinesi cominciato nel 1948, quando 750mila palestinesi sono stati guidati o sono fuggiti nel timore dalle loro case e dalla patria? La violenza inflitta ai palestinesi permette a Israele di schivare le trattative di pace e fornisce la copertura per continuare la confisca di terra palestinese e la costruzione di colonie ebree nelle terre che ha sottratto nel 1967?Dopotutto, la “sicurezza” era la giustificazione iniziale per gli insiediamenti di Israele e “necessità militare” era il pretesto per il sequestro delle nostre terre.

La “sicurezza” razionalizza il sistema segregato stradale che Israele ha costruito nella West Bank, sistemando i coloni israeliani ebrei dovunque desiderassero andare, mentre i palestinesi devono negoziare per ottenere dei luoghi decrepiti. La “sicurezza” è servita dai 500 e oltre blocchi stradali e checkpoints israeliani che punteggiano il nostro territorio, che limitano e soffocano la nostra economia, e dal Muro di separazione che Israele ha costruito, rinchiudendo le nostre comunità in piccoli Banthustan che funzionano come le prigioni a cielo aperto.

“Sicurezza” è perché Israele dice che non cederà mai la Valle del Giordano, che occupa quasi il 30% della West Bank. Infatti, la sicurezza sia per gli israeliani sia per i Palestinesi è reciprocamente interdipendente, non reciprocamente esclusiva. Israele non può avere la sicurezza mentre la rifiuta ai Palestinesi. Quando Israele sarà disposto a rinunciare alla violenza, scoprirà che ad aspettarlo ci sarà un partner per la pace.


Dr. Mustafa Barghouti è il ministro della comunicazione dell’Autorità palestinese. È anche il fondatore dell’organizzazione medica che fornisce i servizi sanitari a più di un milione e mezzo di palestinesi ogni anno.

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La lunga notte di Gaza
di Muim Masri 15/06/07
Uno scrittore palestinese racconta il dolore di un popolo, ora anche diviso

Frustrazione, vergogna e rabbia. Ecco cosa provo per ciò che sta accadendo a Gaza. La mente confusa corre subito ad Abdul che un giorno mi disse: “Sono nato nella Terra Santa, ma avrei voluto una casa meno disumana. Il mio nemico è stato scelto dal Signore come eletto, ma non mi lascia pregare in pace. Il mondo mi ama e vuole liberarmi, ma ogni giorno aggiunge un nuovo anello alla catena della mia prigione. Sono nato in un giorno di coprifuoco. Mio figlio è stato partorito durante la guerra. Desideravo sapere che profumo ha la libertà e mi sono trovato per dieci anni in galera. Aspiravo a fare l’insegnate di storia e faccio il falegname. Niente mobili, porte o persiane, costruisco solo croci di legno di ulivo. E’ pregiato, sai, e ha un sapore così lontano, così famigliare… vorresti vederne una?”.

In Palestina non ci sono le stagioni o gli anni, ma solo un’unica notte scura. Il tempo si è fermato all’inizio della storia. Strana questa terra, la sua sabbia è sacra e il resto è solo sangue. Qui Dio è nato ed è stato tradito come un bandito. Il fratello nega il fratello. Tutti i profeti sono passati di qua e nessuno ha mai dormito sonni tranquilli. Chi vi abita pensa di essere l’unico custode della verità affidatagli direttamente dal Libro. Non ho mai visto una violenza così disumana in nome della religione. La gente altrove porta la croce sulle spalle invece noi la portiamo tatuata sul cuore. Questa è la guerra. Mi sarebbe piaciuto nascere altrove solo per non sentirne il peso.

Siamo ad un passo dal baratro e l’unica consolazione è che non è la prima volta. Abbiamo resistito fin troppo: quattro guerre, due deportazioni, cinquant’anni di occupazione militare, confisca di case e di terreni, campi profughi permanenti dimenticati dall’Onu e dagli uomini giusti, due processi di pace gestiti male, ingerenza araba e occidentale, politici nostrani incapaci, civili armati fino ai denti per contrastare l’esercito israeliano che aveva esteso le sue frontiere fino ai nostri cortili, finanziamenti personali camuffati da aiuti internazionali, ritiro unilaterale da una striscia senza speranza, elezioni libere e democratiche mai convalidate dalla Comunità Internazionale ed infine quell’arma quanto mai pacifica e nello stesso tempo lenta e micidiale per la gente comune che è l’embargo. Occorrono varie generazioni prima che funzioni e nel frattempo il rischio che tutto cambi è molto alto: il regime nemico, per strani intrecci internazionali, può addirittura divenire un amico.

Hamas non è un gruppo di terroristi, ma è un partito popolare islamico voluto e nato da Israele per contrastare Arafat agli inizi degli anni ottanta, quando l’Olp faceva il bello e il cattivo tempo. Il movimento era impegnato nei territori in tutti i settori: assistenza agli anziani, ai malati e ai parenti dei detenuti nelle carceri israeliane, creazione di campi di lavoro, di scuole e di università. Insegnava perfino alla povera gente nei campi profughi l’igiene per evitare malattie e ridurre la mortalità infantile. La maggior parte dei suoi dirigenti sono laureati e gran lavoratori e, a differenza di quelli di al-Fatah, nessuno vive di rendita. In mancanza di aiuti internazionali hanno imparato in fretta ad autofinanziarsi e chiunque ha la possibilità di accedere a micro-crediti. Con tutto ciò molti di noi palestinesi non si riconoscono nella loro idea di resistenza così anacronistica, ma hanno vinto le prime libere elezioni e nessuno ama perdere da vincente. E finché la cosiddetta ala moderata della società palestinese non si assumerà tutte le sue responsabilità e smetterà di giocare solamente sul fatto di essere vista di buon occhio dall’Occidente per governare, Hamas continuerà a vincere ad oltranza ogni appuntamento elettorale. Tutto ciò Abu Mazen l’ha capito molto bene, come anche Israele ed i suoi alleati. Tutti hanno voluto giocare con il fattore tempo: “Quanto tempo potranno resistere in una vita fatta di embargo e di prigione? Hamas consentirà il trascorrere di tutto questo tempo morto?”

.Molti ora si domandano cosa stia succedendo a Gaza. Come si può rispondere ad una domanda così violenta quando nessuno ha mai fatto nulla per evitare questa guerra incivile? Certo, anche noi palestinesi abbiamo le nostre colpe. Non abbiamo mai capito in tempo che non contiamo niente, che noi non c’entriamo nulla con la tragedia degli Ebrei: quando sono arrivati qui erano già orfani. Avremo dovuto pagare il conto altrui? Tanto ne siamo stati costretti! Paradossalmente al di fuori della Palestina entrambi siamo poco desiderati, in Occidente come in Oriente. Forse bastava questo a farci ragionare e sedere attorno ad un tavolo e decidere il danno minore per il nostro destino da disperati. Ma abbiamo preferito dare ragione alla nostra follia collettiva. Karim, a proposito di pazzia, un giorno mi disse: “Per chiudere l’interruttore di questo delirio e vivere in pace potremmo distruggere il Muro del Pianto, la moschea di al-Aqsa e la Basilica dalla Natività!” Così, però, non avremo più la luce.

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Hanno iniziato loro
di Gideon Levy (giornalista israeliano - Fonte: Ha’aretz, 13 luglio 2006)

"Abbiamo lasciato Gaza e loro ci sparano i Qassam" - non esiste una formulazione piu' precisa del punto di vista che sta prevalendo [ndt, in Israele]. "Hanno iniziato loro", sara' la risposta ripetitiva a chiunque cerchi di argomentare, ad esempio, che poche ore prima del primo Qassam caduto nella scuola di Askelon, che non ha causato danni, Israele ha seminato distruzione nella Universita' islamica di Gaza. Israele sta causando black out energetici, mantiene l'assedio, bombarda e spara, assassina e imprigiona, uccide e ferisce civili, inclusi bambini e neonati in misura orrenda, ma "Hanno iniziato loro". C'e' stata anche una "rottura delle regole" condotta da Israele: ci e' permesso bombardare qualunque cosa vogliamo ma a loro non e' concesso lanciare Qassam.

Quando sparano un Qassam su Askelon, si tratta di "una escalation del conflitto", e "quando noi bombardiamo una universita' e una scuola, e' assolutamente giusto. Perche'? Perche' hanno iniziato loro". Ecco perche' la maggioranza pensa che tutto il giusto stia dalla nostra parte. Come in un bisticcio nel cortile di scuola, l'argomento su chi ha iniziato e' l'argomento moralmente vincente di Israele per giustificare qualunque ingiustizia. Allora, chi realmente ha iniziato? E poi, abbiamo "lasciato Gaza?" Israele ha lasciato Gaza solo parzialmente, e in modo non chiaro. Il piano di disimpegno, che era stato etichettato con titoli divertenti come "ripartizione" e "fine dell'occupazione", ha significato lo smantellamento delle colonie e la partenza da Gaza delle Forze di Difesa, ma non ha cambiato in niente le condizioni di vita della popolazione della Striscia. Gaza e' ancora una prigione e i suoi abitanti sono ancora condannati a vivere in poverta' e oppressione. Israele rinchiude esternamente il mare, l'aria e la terra, eccetto che per una limitata valvola di salvezza al crossing di Rafah.

Non possono visitare i loro parenti della Cisgiordania o cercare lavoro in Israele da cui l'economia di Gaza ha dipeso per circa 40 anni. Alcuni beni possono essere trasportati, altri no. Gaza non ha alcuna possibilita' di scappare alla poverta' in queste condizioni. Nessuno fara' investimenti, nessuno puo' svilupparsi, nessuno si puo' sentire libero la' dentro. Israele ha lasciato la gabbia, ha buttato via la chiave e ha lasciato i residenti al loro amaro destino. Adesso, nemmeno dopo un anno, il disengagement sta ritornando indietro, con molta piu' violenza. Che cosa potremmo ancora aspettarci? Che Israele possa ritirarsi unilateralmente, ignorando brutalmente e immoralmente i loro bisogni e che loro sopporteranno in silenzio il loro amaro destino e non continueranno a lottare per la loro liberta', per le loro vite o per la loro dignita'?

Abbiamo promesso un passaggio di sicurezza con la Cisgiordania e non abbiamo mantenuto la promessa. Abbiamo promesso di liberare i prigionieri e non abbiamo mantenuto la promessa. Abbiamo sostenuto elezioni democratiche per poi dopo boicottare la leadership legalmente eletta, confiscando fondi che gli appartengono, e dichiarandogli guerra. Avremo potuto ritirarci da Gaza con dei negoziati e in modo coordinato, rafforzando intanto la leadership palestinese, ma ci siamo rifiutati di farlo. E ora, ci pentiamo di questa "mancanza di leadership?" Abbiamo fatto tutto quello che si poteva per minare la loro societa' e leadership, assicurandoci quanto piu' possibile che il disengagement non sarebbe stato un nuovo capitolo nelle nostre relazioni con la nazione vicina, e ora siamo stupiti dalla violenza e dall'odio che abbiamo coltivato con le nostre mani.

Cosa sarebbe potuto accadere se i palestinesi non avessero lanciato i Qassam? Israele avrebbe tolto il blocco economico da Gaza? Avrebbe aperto il confine ai lavoratori palestinesi? Incoraggiato gli investimenti a Gaza? Nonsense. Se i Gaziani fossero rimasti seduti, come Israele si aspetta da loro, il loro caso sarebbe scomparso dall'agenda - qui e nel resto del mondo. Israele potrebbe continuare con la convergenza che ha significato soltanto servire i propri obiettivi, ignorando i loro bisogni. Nessuno si sarebbe dato pensiero per il destino della gente di Gaza se loro non avessero reagito violentemente. Questa e' l'unica amara verita', ma con calma sono trascorsi i primi venti anni dell'occupazione e noi non abbiamo mosso un dito per porvi fine. Al contrario, coperti dalla calma, abbiamo costruito un'enorme e criminale impresa coloniale. Con le nostre stesse mani, noi stiamo ancora una volta spingendo i palestinesi ad usare le insignificanti armi che possiedono; e in tutta risposta impieghiamo un intero immenso arsenale a nostra disposizione, e continuiamo a lamentarci che "Hanno iniziato loro".

Abbiamo iniziato. Abbiamo iniziato con l'occupazione e siamo legati al dovere di porvi fine, una fine reale e completa. Abbiamo iniziato con la violenza. Non c'e' violenza peggiore che quella di chi occupa, usando la forza su un intera nazione, cosi' che la domanda su chi per primo ha sparato e' ad ogni modo un evadere, fornendo un quadro distorto. C'erano, anche dopo Oslo, quelli che dichiaravano "abbiamo lasciato i territori", in una simile commistione di cecita' e bugie. Gaza e' in serio pericolo, condannata a morte, all'orrore e alle difficolta' quotidiane, lontana dagli occhi e dal cuore degli israeliani. Stiamo mostrando solo i Qassam. Vediamo solo i Qassam. La Cisgiordania e' ancora sotto lo stivale dell'occupazione, le colonie stanno crescendo, e qualunque mano tesa per un negoziato, inclusa quella di Ismail Haniyeh, viene immediatamente respinta. E dopo tutto questo, se ancora qualcuno pensa in modo diverso, la risposta vincente e' presto detta: "Hanno iniziato loro". Hanno iniziato e il giusto e' dalla nostra parte, mentre la realta' e' che non hanno iniziato loro e che noi non siamo dalla parte del giusto

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Morire di cancro a Gaza. Storia di Fatma Barghouth che voleva vivere

di Luisa Morgantini - Parlamentare Europea - di ritorno da Gaza, 7 Gennaio 2006

Fatma Barghouth è morta il 24 Dicembre a 29 anni, divorata da un cancro che dal seno si è esteso alla colonna vertebrale. E’ stata sepolta nel cimitero di Gaza città.

Nella tomba non è sola, i corpi di altre due donne sono seppelliti con lei. Troppa gente muore a Gaza e non ci sono più spazi. La famiglia avrebbe voluto darle sepoltura nel cimitero nei pressi del campo profughi di Jabalia dove, per i morti, vi è ancora un po’ di terra disponibile.
Non è stato possibile: in quel mattino c’era scambio di fuoco tra l’esercito israeliano e un gruppo armato palestinese. L’esercito tirava con l’artiglieria e bombardava l’area, una bomba aveva distrutto la strada che da Jabalia porta al cimitero.
Non è stata semplice l’agonia e la morte di Fatma, come la sua vita del resto.
Nell’ Aprile del 2003 Fatma aveva sentito un nodulo al seno. Aveva 26 anni, era bella, vestiva nel modo tradizionale palestinese, non il velo dell’islam, ma il fazzoletto delle contadine, un grande sorriso e grandi occhi neri, una voglia di vivere e di resistere che le ha dato la forza di combattere contro il suo male e contro ogni burocrazia e sopraffazione.

Vi dirò delle sue vicissitudini per raggiungere l’ospedale israeliano dove l’attendevano per essere curata , vi dirò della dedizione dei Medici per i Diritti Umani, un associazione israeliana che si batte contro le persecuzioni e le discriminazioni quotidiane nel campo della salute subite dai palestinesi da parte delle autorità israeliane (Physicians for Human Rights, PHR www.phr.org.il), si prendono cura dei malati palestinesi che senza il loro aiuto morirebbero o non potrebbero mai raggiungere un ospedale specializzato israeliano.
Con Fatma, malgrado tutti i loro sforzi, non ce l’hanno fatta.

Troppe volte, quando doveva recarsi a fare la chemioterapia, il check point di Erez, il confine che divide Gaza Nord da Israele, era interdetto.Fatma, mentre il dolore la divorava, passava ore ed ore, sola, in attesa di poter vedere il cancello di ferro aprirsi per poter entrare in Israele.
Aveva tutti i permessi Fatma, ottenuti persino attraverso cause presentate al Tribunale Israeliano, anche i medici dell’ospedale Tel Hashomer telefonavano al coordinamento israeliano di Erez, per chiedere di lasciarla passare e per confermare che doveva sottoporsi al trattamento di chemioterapia, ma ufficiali e soldati ai check point il più delle volte non intendevano ragioni.

Fatma non poteva nemmeno vederli, loro invece, seduti e nascosti nelle loro gabbie, la osservavano dalle telecamere. Lei sentiva solo gli ordini da voci che arrivavano dall’alto da altoparlanti gracchianti, ordini dati in ebraico,di cui, lei, ma ogni palestinese o straniero che passa, capiva solo il si e il no.
Questioni di sicurezza diceva il soldato al check point. E intanto il male si diffondeva nel corpo di Fatma.
Il suo calvario non è dipeso però solo dal muro brutale dell'occupazione militare israeliana e dalla mancanza di umanità e di compassione dell'esercito e della polizia di frontiera israeliana, anche la rassegnazione e la mancanza di specializzazione delle strutture ospedaliere palestinesi hanno fatto la loro parte.

Fatma, scopre di avere un nodulo al seno Quando per la prima volta , il 15 aprile 2003, si era recata all’ ospedale di Gaza, il Shifa Hospital, per verificare il nodulo che aveva scoperto al seno, il medico l’ aveva sottoposta ad un x-ray e ad una biopsia. Il primo esame era risultato, dopo dieci giorni di attesa, insoddisfacente. Altra biopsia e dopo due settimane di attesa il medico le disse di non preoccuparsi, il nodulo era benigno, si trattava, le disse, di un “fibroadenoma”. A giugno il tumore si era ingrossato e Fatma aveva sentito di avere altri due piccoli grumi. Dopo varie insistenze, il medico accettò di asportarle il nodulo, due settimane dopo il reparto di Oncologia le diede i risultati dicendo che il tumore asportato era benigno.
Ma il corpo di Fatma cominciava ad essere invaso, dopo l’operazione apparvero nuovi grumi. In Agosto si recò nella clinica privata (tutto il mondo è paese) del medico del Shifa Hospital. Nessun problema, le disse il medico “devi aver stretto troppo il tuo reggiseno”. Fatma, testarda, chiese una nuova biopsia al chirurgo che l’aveva operata, questa volta i risultati erano chiari: Fatma aveva un carcinoma maligno che si stava estendendo.
Dopo nove cicli di chemioterapia all’ospedale di Gaza, Fatma decise di rivolgersi all’ ospedale israeliano Tel Hashomer , inviò il risultato della biopsia, lo staff dell’ospedale rispose immediatamente e le chiese di presentarsi il più presto possibile.
Un permesso per la vita, dato e tolto, l'arbitrio E qui comincia la tragica trafila dei permessi e del check point.
Per tre volte, in tempi diversi, Fatma presenta la richiesta di visto all’Ufficio di Coordinamento Nessuna risposta né un si né un no. Nulla.

Il 13 Novembre, Fatma chiese l’ intervento dei PHR. Il professore Rafi Waldan riuscì a darle un appuntamento urgente per il 25 Novembre.
Nuova richiesta di visto, il giorno dell’appuntamento era arrivato ma nessuna risposta per il permesso.
Il PHR decise di appellarsi in tribunale con procedura urgente. L’avvocato di Fatma era Yossi Tzur dello Studio legale Carmeli-Arnon . La risposta del tribunale arrivò il 12 Dicembre, permesso accordato per sottoporsi al trattamento a Tel Hashomer Hospital.
Almeno un primo ostacolo era rimosso. Ma l’odissea era appena iniziata.

Ogni volta che doveva recarsi all’ospedale dovevano intervenire i medici israeliani, e malgrado ciò, ogni volta doveva attendere ore e ore prima di poter attraversare il cancello del checkpoint. Nessuno dei suoi familiari poteva accompagnarla, nessun permesso per loro era stato accordato.
In uno dei suoi appuntamenti nel Gennaio 2004, al check point la rimandarono indietro. Nuovo intervento dell’avvocato Yossi Tzur, nuovo permesso e nuovo appuntamento per il giorno dopo. Fatma arriva al check point al mattino presto, la fanno attendere fino alle ore 13. Quando arrivò all’ospedale era troppo tardi, il reparto era già chiuso.

Il 9 febbraio Fatma deve recarsi all’ospedale per togliere il tumore. Arriva a Erez molto presto al mattino, attende, sola, fino alle 17.30. Intervengono i medici israeliani, l’avvocato, chiamano tutti persino la giornalista Carmela Menashe di “Kol Israel”, ma la soldatessa che aveva il permesso di entrata per Fatma non era sul posto, era addetta ai servizi di cucina e nessuno poteva sostituirla. Finalmente alle 18.30, Fatma può passare. Arriva all’ospedale e il giornosuccessivo la operano. Due giorni dopo il medico la informa che il tumore si è sparso ed è necessaria una vasectomia totale. Sempre sola, malgrado i medici avessero richiesto più volte di concedere il permesso per alcuni famigliari. Sola, in un ospedale i cui medici erano solidali con lei, ma non parlavano la sua lingua. Sola con tutta la sua angoscia, la sua rabbia e il suo dolore.

Dimessa, torna a Gaza. Il 25 marzo, altro appuntamento in preparazione della radioterapia. Il permesso non viene concesso, le è proibito lasciare Gaza. Nuovo appuntamento,due settimane dopo, questa volta riesce a passare. Il suo trattamento consiste in 25 giorni consecutivi di radioterapia.
Impossibile recarsi ogni giorno da Gaza in Israele. I medici di PHR chiedono per Fatma e per un altra paziente anche lei con il cancro al seno, il permesso per restare in Israele per il periodo di cura. Negato! Non resta altro che tornare in Tribunale. A PHR si aggiunge il gruppo, sempre israeliano di “One in nine: Women for victim of breast cancer”. Ricorso accolto, le due pazienti possono restare in Israele, ma per Fatma non è finita, il suo permesso è di un mese e il suo trattamento deve essere di cinque settimane in più. Nuovo impegno dei PHR, che la fanno restare nella loro casa a dormire, clandestina.

Pagate trentamila shekels forse arriverete a vedere Fatma, prima che muoia .
Ritorna a Gaza, apparentemente l’operazione è andata bene. Non è così, dopo un mese il cancro riappare. Fatma si aggrava, soffre di forti dolori alla schiena e alle gambe. Il 22 Luglio viene ricoverata di nuovo, questa volta passa con l’ambulanza e la sua mamma. Il test mostra che la metastasi ha colpito la spina dorsale. La tengono in ospedale, lei peggiora. Vuole vedere la sua famiglia. I PHR fanno una domanda urgente al DCO israeliano, solo il 2 agosto ottengono risposta: solo il padre e due sorelle possono passare. Alcuni fratelli non hanno ancora 45 anni, quindi nessuna possibilità di avere il permesso.

Ma neppure sorelle e padre arrivarono quel giorno. Al check point di Erez dopo avere atteso lunghe ore, la polizia di frontiera rifiutava l’entrata a meno che ciascuno di loro versasse un deposito di garanza di 30.000 shekel (quasi seimila euro). Dopo l’intervento del solito avvocato Yossi Tzur, la polizia ha mostrato una volontà di compromesso, invece di trentamila shekels si riduceva la somma a ventimila. Impossibile per la famiglia trovare quei soldi.

Altra causa in Tribunale, finalmente il 9 agosto hanno il permesso ma ancora non passano.
La polizia di frontiera li ferma, intervento questa volta anche di un parlamentare israeliano, ma devono tornare a Gaza.
Il 16 agosto, tre settimane dopo la richiesta, le due sorelle riescono a raggiungere Fatma e la madre, il padre invece non ottiene il permesso, è costretto a restare a Gaza, problemi di sicurezza dicono i soldati.
Lo staff , dai medici agli infermieri del reparto oncologico si è prodigato al massimo per Fatma. Quando ha ripreso le forze e terminato il ciclo, Fatma torna a Gaza dove avrebbe dovuto continuare la chemioterapia.
E’ passato un mese prima che il Ministro della salute palestinese approvasse il pagamento, molto costoso, della cura e che tutti i medicinali necessari arrivassero all’ospedale Shifa di Gaza.

Fatma però peggiora, fa fatica a respirare. Il medico dell’ospedale di Tel Hashomer, le dice di tornare da lui senza ritardi.
Nuovo permesso, il 5 settembre al check point il soldato non la fa passare perché gli risulta che Fatma fosse entrata precedentemente in Israele senza permesso. La questione si risolve verso le ore 19. Un giorno intero al check point. Il trattamento radiologico e chemioterapico dovrebbe iniziare il 14 settembre. Contatti frenetici da parte del PHR e dei medici dell’ospedale con il coordinatore israeliano di Gaza per la salute,Weinberger. Promette che rilascerà il permesso. Il giorno 14, solo alle 17.30 di sera il DCO informa che c’è il permesso, però solo per Fatma, niente accompagnatori e niente ambulanza. Fatma non si reggeva in piedi, e così, niente ospedale.

Si ricomincia una nuova pratica per il permesso. Il coordinatore palestinese dice che gli israeliani non ricevono nessuna richiesta, la invia il 19 settembre.
In effetti il 15 settembre, in occasione della festa del Nuovo Anno Ebraico, tutti i territori e quindi i check point sono stati sotto totale chiusura e Gaza dopo l’invasione della fine di settembre chiamata “Operazione della giornata del Pentimento” è rimasta chiusa per mesi.

Quando la morte di una persona aiuta quella morente a vivere.
Il 27 settembre ad ogni buon conto una delegazione di donne medico israeliane, si recano a Gaza per parlare con il comandante israeliano Dopo una lunga attesa nessun comandante, ma solo un ufficiale che si è impegnato a facilitare il passaggio di Fatma. Il giorno dopo Fatma e sua madre arrivano al check point, attesa fino alle 17, Fatma soffriva e si era distesa a terra perché non vi era nulla dove appoggiarsi o sedersi. Inizia finalmente il check, il soldato chiede a Fatma di togliersi i vestiti perché il sistema di sicurezza indicava che c’era qualcosa nel suo petto. Fatma esegue gli ordini e cerca di spiegare che in seguito all’operazione nel petto ha del silicone. Arriva un altro soldato, la interpella urlando in arabo e le dice che è proibito togliersi i vestiti, Fatma spiega l’ordine ricevuto, ma non c’è niente da fare. Fatma e sua madre vengono rimandate indietro. L’ufficiale del DCO spiegherà ai PHR che le due donne non avevano superato il controllo di sicurezza.

Si riprende la trafila, il permesso è finalmente pronto il mattino del 29 settembre. Fatma è in un ambulanza con altri pazienti. Tutti diretti allo stesso ospedale. Sulla strada di Beit Lahiyah verso Erez, l’ambulanza è costretta a fermarsi per operazioni militari in corso. Alle 16.30 erano ancora fermi, il tentativo di arrivare a Erez attraverso un altro percorso è fallito, alle 17.40 l’ambulanza e il suo carico tornano a Gaza.
Impossibile mandare le medicine dall’ospedale di Tel Ashomer, i valichi tutti chiusi e proibiti.
Il permesso per Fatma c’era ma le strade erano distrutte e occupate dai carri armati, nessuna possibilità per l’ambulanza di passare. Nuova richiesta di permesso e nuova attesa.

Il 4 ottobre il permesso non c’è ancora. Fatma viene ricoverata all’ospedale di Gaza sotto la tenda a ossigeno. Un paziente malato di cancro era morto, erano rimasti due giorni del suo trattamento chemioterapico, lo usano per Fatma.
Ma non si diceva che non si spara sulla Croce Rossa?

Una settimana dopo il DCO dice a PHR di presentare la richiesta del nuovo permesso al coordinatore sanitario palestinese, Ahmad Abu Raza, ma lui è bloccato, dal coprifuoco, nel campo profughi di Nuseirat. Il giorno successivo arriva a Gaza, ma non può presentare la richiesta di Fatma, il fax israeliano è rotto. Notizia vera , ne hanno conferma i medici del PHR che chiedono agli israeliani di coordinarsi a voce con Ahmad. Lo fanno, ma dicono che d’ora in poi non basteranno i permessi, sarà necessario anche coordinarsi.

La mattina del 14 ottobre Fatma non riesce a stare in piedi , può andare solo in ambulanza che però non riesce a passare per le strade distrutte. I PHR riescono a trovare un veicolo della Croce Rossa, l’unico capace di passare attraverso le rovine. Ma non è finita, verso le ore 13, prima di arrivare ad Erez nei pressi del villaggio di Abraj al-Awda, il veicolo della Croce Rossa viene preso a fucilate dai soldati israeliani.
E’ solo alle 19 che pò riprendere la strada per il check point.
Era passato un mese dal primo appuntamento per la chemioterapia.

L’agonia di Fatma è finita quel giorno, quando ha chiuso definitivamente gli occhi: il 24 dicembre del 2004.
L’agonia, quella della sua famiglia e di qualche milione di palestinesi continua.
Il primo Gennaio del 2006 al check point di Erez, mentre rientravamo in Israele, c’era un uomo, più di ottanta anni, anche lui doveva recarsi all’ospedale Tel Ashomer, era pieno di tubi, era su una sedia a rotelle. Con la vecchia moglie stava aspettando davanti al cancello di ferro da tutto il pomeriggio. La sedia a rotelle non era permessa, questioni di sicurezza, e lui non stava in piedi e non riusciva a parlare. Ho telefonato ad un ufficiale israeliano che non era a Gaza, ho implorato, si tratta di un caso umanitario e comunque noi (eravamo 18 italiani), non ce ne andremo fino a quando non passerà anche lui. Dopo qualche ora e tante altre telefonate, il cancello si è aperto. La donna mi abbracciava e sorrideva raggiante.

Io controllavo con estremo sforzo la rabbia, il dolore, l' indignazione. Ho anche ringraziato l’ufficiale israeliano.

Mi chiedo fino a quando permetteremo tutto questo, fino a quando la Comunità Internazionale permetterà questo scempio dei diritti, della compassione e dell’umanità. Lo so, domanda retorica.

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Considerazioni sulle elezioni palestinesi

Milano, febbraio 2006 di Roberto Giudici e Piero Maestri (Action for Peace - Milano) presenti in Palestina in qualità di osservatori internazionali in occasione delle elezioni del Consiglio Legislativo Palestinese svoltesi il 25 gennaio 2006

La campagna elettorale
Arrivando solamente tre giorni prima della data delle elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese (Clp) non abbiamo fatto in tempo a partecipare e quindi a “vivere” questa campagna elettorale.
Qualche segnale siamo riusciti comunque a percepirlo, nelle migliaia di manifesti attaccati su ogni angolo di muro, palo della luce, vetrine e saracinesche dei negozi; negli enormi cartelloni con le facce delle (poche) e dei candidate/i; nei taxi che esibivano bandiere o manifesti elettorali attaccati sul cofano o sui parabrezza; nelle macchine imbandierate che passavano diffondendo slogan o canzoni dei vari partiti; nei comizi/manifestazioni che ogni tanto si vedevano nelle varie vie. Una campagna elettorale che si vede in ogni momento nelle Tv arabe che trasmettono dibattiti con i vari partiti e candidati.
Una campagna elettorale leale e aperta, anche se i rappresentanti del Pngo ci suggeriscono qualche elemento critico: l’uso da parte del partito e di candidati di Fatah dei propri ruoli istituzionali e lo stesso ruolo di Abu Mazen come capo di partito anche se Presidente dell’Autorità Nazionale; dall’altra parte Hamas risponde utilizzando strumenti religiosi (non sono poche le moschee sulle quali spicca la bandiera verde della lista “Tahir al Islah” cioè Hamas) per promuovere la sua lista; una campagna elettorale probabilmente “esagerata”, nella quale le varie liste hanno speso molti soldi – forse troppi. E nella quale sono anche arrivate accuse di aver ricevuto finanziamenti “inconfessabili” (si è detto di soldi statunitensi a Fatah, di soldi sauditi a Hamas, di uso delle risorse della sua Ong a Mustafa Barghouti…).
Ma tutto questo non riesce minimamente a cancellare o anche solo a oscurare la sensazione di un processo veramente partecipato e democratico, di elezioni considerate importanti da chiunque nei Territori Occupati di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est.

Timori
Il giorno prima delle elezioni alcune/i di noi sono a Gaza, nella Striscia “liberata” considerata da molti giornali e televisioni internazionali un buco nero, una zona “pericolosa” per la sicurezza degli stranieri – in particolare dopo il breve rapimento di fine anno di Alessandro Bernardini a Khan Yunis. Ma quel episodio non era in alcun modo il segnale di una crescente diffidenza o addirittura di un’intolleranza verso gli stranieri, e nemmeno il precipitare di Gaza in una dinamica “irachena”, quanto il tentativo di una parte riconoscibile di Fatah – purtroppo armata – di voler rinviare o comunque segnare le elezioni. Un episodio che rimarrà per fortuna isolato.
Nonostante questo l’Undp – che coordina gli Osservatori internazionali – e l’Unione Europea limitano i movimenti ai loro inviati e funzionari (questi ultimi sono invitati a non lasciare la loro sede nei giorni prima delle elezioni e a non recarsi in certe zone della Striscia nemmeno durante il loro lavoro di “osservazione”).
Tra queste zone c’è anche quella specie di “fascia di sicurezza” che Israele sta imponendo nel nord della Striscia: una zona cuscinetto che non viene per il momento nuovamente occupata direttamente con soldati e carri armati, ma nella quale i palestinesi non possono recarsi senza rischiare di essere bombardati o esposti al tiro dei fucili israeliani – e così campi coltivati non possono essere raggiunti dai loro proprietari.
E’ soprattutto la zona di Beit Hanoun a farne le spese – e lo si può vedere nelle buche create dai bombardamenti nelle strade intorno al villaggio.
E proprio il giorno dopo le elezioni sarà una bambina di nove anni a morire in quella zona: i soldati israeliani le spareranno alla testa perché non si era fermata dopo gli spari in aria motivati dalla busta di plastica “sospetta” che la bambina aveva in mano.
Questi timori non sembrano però troppo preoccupanti – e decidiamo di organizzare il nostro giro di “osservazione” del giorno dopo senza limitarci alla sola Gaza City, ma toccando il nord e il sud della Striscia.

Perché “osservatori”?
Penso che nessuna/o di noi abbia visto questa presenza come una forma di verifica del “grado di democrazia” e di trasparenza del processo elettorale palestinese.
Le elezioni nei territori ancora occupati si svolgono in una situazione molto particolare, segnata appunto dalla realtà dell’occupazione – con i suoi checkpoints, la limitazione del movimento dei palestinesi, il tentativo di rendere impossibili il voto agli abitanti di Gerusalemme est, ecc..
In questa situazione il nostro primo obiettivo era quello di verificare che le autorità israeliane permettessero davvero un voto “libero” (parola probabilmente un po’ eccessiva) – e se a Gaza questo lo è stato fino in fondo, data l‘assenza di soldati israeliani, in altre parti non è andata sempre così e a molti palestinesi è stato impedito di tornare nelle cittadine della loro residenza per votare.
Avendo già vissuto l’esperienza delle elezioni presidenziali del 2005 – quando a Gaza la presenza israeliana rendeva ancora più importante che ci fosse un soggetto esterno a verificare l’impegno a garantire i passaggi dei palestinesi – sapevamo anche che la nostra testimonianza sarebbe stata utile a raccontare un processo libero e democratico da parte dei palestinesi e a rendere visibile una “vicinanza” in un momento importante per i palestinesi stessi.
Nessuna voglia di dare patenti di democrazia quindi.

La festa elettorale
Il 25 gennaio partiamo presto per il nostro giro dei seggi elettorali del nord di Gaza – accompagnati da Bassam, il responsabile del “Palestinian Center for Human Rights” (Pchr).
Già di fronte al cancello della prima scuola/sezione elettorale ci si presenta uno spettacolo che continuerà per tutto il giorno: gli elettori passano tra due file di donne, uomini e bambine/i “armati” di volantini elettorali e delle bandiere verdi di Hamas, gialle di Fatah e rosse del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Una “violazione” della legge elettorale, probabilmente, che potrebbe penalizzare le liste minori – anch’esse presenti davanti ad alcuni seggi, ma certamente con minore visibilità e diffusione, dato il loro scarso radicamento sul territorio – ma che nessuno sembra considerare come tale.
L’atmosfera non è in alcun modo quella di un combattimento tra gruppi nemici – ma di una competizione vivace. Le/i sostenitrici/tori dei vari partiti si affiancano senza nessuna tensione e senza che mai – durante tutta la giornata – si veda il minimo accenno di discussione accesa ne tantomeno di scontro.
Così andrà avanti il nostro lavoro di osservatori.
Partiamo da Beit Hanoun, a nord di Gaza City, per poi andare a Beit Lahya, Jabalia Refugee camp, Shaati Refugee camp.
Nei vari seggi ci accolgono sempre con grande ospitalità, facendoci vedere con assoluta trasparenza le operazioni di voto. Non rileviamo particolarità tra un seggio e l’altro, per cui possiamo solamente fare un elenco casuale di “osservazioni”:
* colpiva, come già avevamo notato per le elezioni presidenziali del gennaio 2005, la “professionalità” e preparazione delle/dei componenti dei seggi: prima di tutto a partire dalla verifica dell’esatto seggio in cui indirizzare l’elettore (che si poteva leggere anche su grandi cartelli affissi nel cortile della scuola); poi nel seggio veniva spiegata con cura la modalità del voto, differente per le due schede che venivano consegnate, ad ogni elettore;
* a proposito dei cartelloni con i nomi degli elettori, ci ha particolarmente colpito guardare le date di nascita, che confermavano come la Palestina sia abitata da una popolazione giovane: in ogni pagina (dove erano scritti 40/50 nomi) difficilmente più di 3 o 4 erano nati prima degli anni ’50, e comunque la maggioranza era nata negli anni ’70 e ’80;
* in molti seggi erano presenti dei team per la raccolta degli ‘exit polls’. Abbiamo incontrato sia quelli organizzati dall’Autorità Nazionale, sia quelli dell’università di Bir Zeit, che alle precedenti elezioni presidenziali erano stati molto accurati. Come vedremo, questa volta non sarà così, e gli ‘exit polls’ della serata saranno smentiti clamorosamente dai risultati effettivi;
* la legge elettorale permetteva la possibilità che una elettrice o un elettore fosse aiutato nel voto da un parente: a differenza di quanto avviene in Italia, il presidente del seggio assisteva all’operazione, per garantire che effettivamente l’accompagnatore spiegasse correttamente il meccanismo e seguisse la volontà di chi stava esprimendo il suo voto. In questo modo probabilmente si violava la segretezza del voto, ma si cercava di garantire la volontà proprio di chi votava;
* mentre fino al cancello della scuola sede di seggio era un tripudio di bandiere e si veniva riempiti di volantini elettorali, dal cancello in poi la propaganda era totalmente bandita, e non si trovavano più simboli di partito e delle liste varie. Abbiamo assistito anche alla richiesta – gentile ma ferma – di un presidente di seggio a un rappresentante di lista che si togliesse il cartellino di riconoscimento mentre entrava nel suo seggio a votare.
Insomma, per farla breve, le operazioni di voto sono state assolutamente regolari e trasparenti.

Ma il nostro giro è stato soprattutto l’occasione per vivere insieme alle/ai palestinesi una giornata che si vedeva benissimo loro stesse/i consideravano importante, forse addirittura “storica”. E abbiamo avuto la sensazione fisica di quanto non fossero minimamente disturbate/i dalla nostra presenza, che è diventata in qualche modo parte della festa.
Così abbiamo potuto discutere con chi incontravamo – nei limiti della nostra ignoranza della lingua araba, e grazie all’assistenza del nostro splendido accompagnatore. E in un paio di occasioni ci siamo seduti a bere il tè proprio a pochi metri dai cancelli di un seggio, con donne, uomini e bambine/i che passavano, ci salutavano, si fermavano.
E sono venuti fuori i racconti che spesso abbiamo ascoltato nei nostri viaggi in Palestina, segnati dal perdurare dell’occupazione – anche se gli abitanti di Gaza non vedono più i militari e si rallegrano di poter viaggiare liberamente lungo la striscia, si sentono ugualmente in una grande prigione. Questo vale in particolare per gli abitanti di Beit Hanoun e Beit Lahyia, i cui villaggi confinano con quella “fascia di sicurezza” decisa dei militari israeliani di cui parlavamo prima. E questo impedisce loro spesso di recarsi nei loro campi e di muoversi con tranquillità.

Anche al sud della Striscia, nelle città e nei campi profughi di Khan Younes, Al Mawasi, Rafah al confine con l’Egitto, zona “interdetta” agli osservatori internazionali dalle stesse Nazioni Unite e dall’Unione Europea, il famoso buco nero in preda al caos, l’atmosfera in realtà non cambia: di festa e di grande partecipazione consapevole.
Non un arma ostentata tra la gente, non un litigio durante la gioiosa e caotica propaganda fuori dai seggi e, assolutamente, nessuna ostilità nei nostri confronti; al contrario grande affetto e acuta curiosità per le nostre sensazioni e valutazioni sul loro momento storico.
La festa comprende anche tanta emozione nelle zone occupate fino a pochi mesi fa dalle colonie ebraiche del blocco del Ghush Khatif circondate dal muro e dall’artiglieria israeliana che ha fatto scempio del territorio intorno e delle case di centinaia di famiglie che oggi sono tornate; libere finalmente di muoversi da un villaggio all’altro senza il terrore e l’umiliazione dei terribili chek points come ad Al Mawasi dove lo scorso anno assistemmo alla penosa attesa di decine di persone a cui era negato da giorni il rientro a casa e oggi affollano il seggio elettorale di fronte al mare.
Le case meno colpite sulla linea del fuoco sono già state riabitate, le altre vengono visitate quotidianamente dai proprietari ancora sfollati e riabilitate da improbabili riparazioni; dove non c’è più traccia della casa, mani tenaci hanno circoscritto la sabbia con una precaria recinzione con tanto di cancelletto a protezione di una piccola tenda e di minuscole piantine di un nascente piccolo orto. La corsa alla riappropriazione di ogni granello di sabbia è incredibile.
A Rafah, l’unico luogo dove Al Fatah ha guadagnato tutti i seggi (3) disponibili, si mescolava l’animazione del voto con il flusso continuo e finalmente libero da e per l’Egitto attraverso il rianimato “terminal” che ha già visto il passaggio di 80.000 palestinesi negli ultimi due mesi.
Il ritorno a Gaza city al tramonto, per la prima volta dopo anni anche per noi è stato quasi un sogno, da Rafah diritti fino al centro città in 30 minuti senza dover preventivare partenze con ore di anticipo.

Alle 19.00 precise cominciano le operazioni di scrutinio. Partecipiamo anche in questo caso come osservatori dividendoci in diversi seggi della scuola di Al Karmel a Gaza City.
Anche queste operazioni si svolgono in maniera “professionale” e trasparente, alla presenza di una decina di osservatori, tra rappresentanti di lista, osservatori palestinesi indipendenti (in genere del Pchr) e della statunitense National Democratic Institute/Carter Center.
I voti vengono segnati sulla lavagna della classe e tutto viene svolto molto velocemente e senza nessun problema. Poche anche le schede bianche e nulle, malgrado la rigidità assoluta con la quale venivano annullate alcune schede (solamente perché il segno usciva dal riquadro di una lista, o perché c’erano due segni sulla stessa lista), senza alcuna protesta da parte dei rappresentanti di lista stessi.
Uscendo dal seggio per tornare nel nostro albergo si vedono già e si sentono i caroselli delle auto imbandierate dei sostenitori di Fatah che festeggiano la vittoria annunciata dai primi ‘exit polls’. Ma la realtà della mattina successiva era ben diversa…

I risultati elettorali
E’ noto che le elezioni hanno decretato una “schiacciante” vittoria di Hamas, ma per riuscire ad analizzarla seriamente, è necessario spiegare brevemente quale fosse il meccanismo di assegnazione dei seggi.
I seggi del CLP sono 132: 66 assegnati su base proporzionale (con uno sbarramento al 2%) alle liste nazionali; gli altri 66 su base locale in forma ‘maggioritaria uninominale’. Questa seconda scheda era particolare: conteneva una lunga lista di candidati, alcuni collegati a liste nazionali, altri indipendenti, e l’elettore poteva esprimere un numero di preferenze pari ai seggi previsti per quel distretto elettorale (per esempio, il distretto di Gaza City eleggeva 8 parlamentari, e l’elettore – in una scheda con 40 candidati – poteva scegliere di esprimere 8 preferenze).
Quali sono stati i risultati.
Per quanto riguarda le liste nazionali:
Votanti totali: 1,042,424
* Change and Reform (Hamas) 440.409 voti, pari al 44.45% - 29 seggi assegnati
* Fatah Movement 410.554 voti, pari al 41.43% - 28 seggi
* Martyr Abu Ali Mustafa (Fronte Popolare) 42.101 voti pari al 4.25% - 3 seggi
* The Alternative (Badil) 28.973 voti, pari al 2.92% - 2 seggi
* Independent Palestine 26.909 voti, pari al 2.72% - 2 seggi
* The Third Way 23.862 voti, pari al 2.41% - 2 seggi
* Altre liste 18.065 voti, pari al 1,09% - Nessun seggio
* Schede bianche 21,687 (2.08%)
*Schede nulle 29,864 (2.86%)

Per quanto riguarda I seggi assegnati su base locale, i risultati danno: Hamas 45 seggi; Fatah 17 seggi; Indipendenti 4 seggi.

Questo porta all’assegnazione totale e definitiva dei seggi è stata:
Hamas 74 seggi
Fatah 45
FPLP 3
Palestina Indipendente (Lista di Mustafa Barghouti) 2
Badil - formato da FIDA, FDLP e Partito del Popolo – 2
3^ via (Lista di Hanan Ashrawi) 2
Indipendenti 4 (di cui 3 vicini ad Hamas)

Questo ci porta a fare alcune considerazioni, importanti per comprendere quale sia stato effettivamente il voto dei palestinesi.
In primo luogo va segnalato che Hamas non prende la maggioranza assoluta dei voti, e che i partiti laici, nazionalisti o di sinistra prendono oltre il 55% dei voti. Questa non ci serve come spiegazione “consolatoria”, ma dato che abbiamo già letto analisi che dipingono il popolo palestinese come ormai avviato verso il fondamentalismo e il conservatorismo religioso, dovrebbe servire a fare un po’ di attenzione. Il popolo palestinese non era una settimana fa “profondamente laico” e non è oggi “integralista islamico”: entrambe sono generalizzazioni che non servono a nulla. Negli ultimi 15 anni il popolo palestinese ha fatto grandi passi indietro su molti aspetti delle relazioni sociali e culturali – ma questo spiega solo in parte il voto.

In secondo luogo va riconosciuta ad Hamas una forte capacità organizzativa, prima di tutto per come si è presentata: nei distretti locali ha presentato esattamente il numero di candidati corrispondenti ai seggi disponibili, mentre Fatah si divideva tra i suoi candidati ufficiali e altri membri del partito che si presentavano come indipendenti – contribuendo così a disperdere voti, in un meccanismo di fatto maggioritario (che infatti ha totalmente cancellato le liste minori). Questo è uno dei segnali della crisi di Fatah, divisa tra notabili locali, giovani militanti, gruppi di potere legati alla loro presenza nell’Autorità ecc. Anche per questo i candidati locali di Hamas sono risultati più credibili e affidabili.

Infine è chiarissimo che i risultati del voto sono caratterizzati da due elementi: da una parte un segno di bocciatura per il lavoro svolto dall’Anp in questi anni (e quindi per Fatah che la governava), giudicato negativamente sia sul piano di quanto ottenuto nei “negoziati” con Israele, sia soprattutto sul piano della corruzione e della mancanza di risposte ai bisogni sociali e materiali. Hamas è risultata più credibile; dall’altra parte è stato anche un voto palese contro le politiche vergognosamente filoisraeliane e anti arabe degli Usa e quelle pilatesche dell’Unione Europea che ha pensato di barattare con i miliardi dei finanziamenti il disimpegno e l’ambiguità politica che agli occhi della popolazione è diventata insopportabile.

Considerazioni iniziali sul prossimo futuro
E’ impossibile prevedere cosa succederà nei prossimi mesi: in questi giorni Hamas è molto attenta a mostrare il suo pragmatismo e la sua (indubbia) intelligenza politica. Dall’altra parte (Israele e Usa) insieme a dichiarazioni di rottura e di indisponibilità a ogni forma di relazione con “i terroristi” si intravede anche un dibattito interno dove si affaccia una posizione che vede in Hamas il soggetto giusto con cui arrivare a qualche forma di accordo.
In fondo ne’ ad Hamas ne’ a Israele interessa un accordo “definitivo” e globale – e comunque sono convinti che nel breve/medio periodo non si possa raggiungere. Entrambi pensano che il tempo giochi a loro favore: Hamas perché convinta che la situazione internazionale oggi non sia immediatamente favorevole e spera che le “difficoltà” Usa in medioriente spingano diversi paesi arabi a maggiori pressioni sui loro alleati statunitensi a sostegno della causa palestinese; Israele perché può concentrarsi nella politica dei fatti compiuti, portando a termine il Muro e continuando la costruzione di insediamenti.
Hamas potrebbe allora “accontentarsi” di minori pressioni sui suoi leaders e di qualche altra iniziativa “unilaterale” da rivendere come proprio successo, per potersi concentrare sul lavoro di consolidamento sociale e politico in Palestina.
Questa sarebbe una prospettiva molto pericolosa per il popolo palestinese, perché rimarrebbe ingabbiato in una dinamica negativa, che non lo porterebbe a risultati avanzati sul piano della liberazione dei Territori Occupati, mentre lo costringerebbe sul piano interno a subire la politica di Hamas – che potrebbe però per un certo periodo apparire migliore sul piano dei servizi sociali e del “buon governo”.

Ancora, a questa strategia della dilatazione del tempo relativamente ai rapporti di forza e agli accordi, potrebbe accompagnarsi anche il rischio di una dilatazione territoriale/ideologica della prospettiva globale, nel senso di accoppiare alla visione israeliana di “Israele terra degli ebrei”, il contrapposto riferito all’islam. Si ritornerebbe in questo senso ad una visione pan araba in versione islamica del conflitto, travalicando l’aspetto strettamente nazionale e territoriale – di sicuro quello riferito al ’67- del conflitto, per modificarne in maniera radicale prospettive e protagonisti.

I pericoli sono molti ma ci sono anche molte risorse a favore del popolo palestinese. Due di queste provavano a comunicarcele alcuni palestinesi che abbiamo incontrato.
La prima dice più o meno che “la società civile organizzata palestinese – cioè le associazioni dei diritti umani, delle donne ecc. – resistono da quasi 40 anni all’occupazione israeliana e quindi sapranno resistere anche a eventuali attacchi di Hamas su questi terreni” (effettivamente questa società civile aveva già fatto fallire il tentativo dell’Anp di qualche anno fa di “disciplinare” le Ong e subordinarle alla propria politica – soprattutto sul piano dei finanziamenti).
La seconda risiede nelle difficoltà che troverebbe Hamas nel voler imporre per legge alcune scelte oggi diffuse sul piano cultural/religioso. Un conto sono infatti le pressioni sociali che, ad esempio, spingono le donne a mettersi il velo, altro conto è legiferare in questo senso o tentare di applicare la sharia: in questo caso ci sarebbero certamente proteste e opposizioni nella società palestinese.
Sarà così? Personalmente non saprei dirlo, ma mi sembra giusto evitare di considerare il popolo palestinese come un indistinta massa di pecore che seguono volta per volta l’ideologia dominante. Preferisco pensare – per quanto ho conosciuto le/i palestinesi – che le organizzazioni sociali sapranno condurre una forte iniziativa politica perché non sia cancellato il pluralismo socio-politico e la pluralità culturale in Palestina.

Una considerazione a parte sulla sinistra palestinese - senza permetterci critiche tipo “sono così stupidi da dividersi in mille rivoli”, visto che la nostra esperienza di sinistra italiana ed europea è segnata da una storia di gruppetti settari e inefficaci, e ancora oggi non siamo poi così diversi.
Certo è che questa sinistra laica, democratica e nazionalista, non riesce a raggiungere un risultato positivo e non trasforma la sua presenza nel tessuto sociale e nella rete delle Ong in una prospettiva politicamente efficace e riconoscibile. E questo non è il risultato semplicemente della divisione in troppe liste.
Sarebbe interessante riuscire una volta a discutere con la sinistra palestinese nelle sue varie organizzazioni per capire meglio quale rapporto e quale sostegno si riescono a stabilire con le varie anime di una sinistra laica e democratica che arriva a prendere il 12-13 % dei voti ma non sembra in grado di intercettare la crisi di Fatah – movimento che ha al suo interno anche una spinta democratica radicale: tra l’altro un fattore di rischio notevole per i palestinesi è proprio il dilaniarsi di Fatah – composto sempre più da “bande” locali troppo spesso anche armate. Vedremo se dirigenti come Marwan Barghouti riusciranno a far prevalere l’intelligenza di un rinnovamento profondo senza inseguire Hamas sul suo terreno.

Ma queste considerazioni sono parte di una discussione collettiva che la rete di Action for Peace e delle altre organizzazioni che sostengono i diritti dei palestinesi e una pace giusta in Palestina/Israele devono fare a partire da una considerazione per noi scontata sul proseguimento – ancora più forte – del nostro impegno in questa direzione. Perché l’occupazione continua e i progetti di espansione della colonizzazione dei territori palestinesi (con il Muro, gli insediamenti, le decine di “by-pass roads” ecc.) sono sempre più forti.

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Domande sul dopo Gaza di Jamil Hilal agosto 2005

Traduzione di Piera Redael
(L'articolo/saggio di Jamil Hilal, sociologo palestinese indipendente, è apparso su la rivista "Lo Straniero" ott. 2005)

“E' chiaro a tutti che (la striscia di Gaza) non farà mai parte dello stato di Israele, quale che sia l'accordo raggiunto per una soluzione permanente…(quindi) consacreremo le nostre energie ai territori che sono più importanti per garantire la nostra sopravvivenza, cioè la Galilea, il Negev, l'area della Grande Gerusalemme, i blocchi degli insediamenti in Cisgiordania e le zone rilevanti per la nostra sicurezza nella valle del Giordano.” ( da un discorso di Sharon al Congresso dell'Agenzia ebraica a Gerusalemme il 28/6/2005 e riferito dal quotidiano londinese Al-Hayyat il 29/06/2005)

Il fine del piano di “disimpegno” unilaterale da Gaza non è ormai più un segreto. Esso fa parte di una strategia più ampia che Sharon ha iniziato ad attuare il giorno del suo insediamento al governo nel 2001. Il cardine di questa strategia consiste nel disegnare i nuovi confini di Israele in modo tale da inglobare al loro interno, in nome della difesa del carattere ebraico dello stato di israeliano, il più possibile di terre palestinesi con il minor numero possibile di abitanti palestinesi. Dal punto di vista di Sharon – e di molte altre forze politiche che con lui condividono questa posizione – l'annessione della striscia di Gaza, abitata da circa 1 milione e trecentomila palestinesi e con una superficie che supera di poco i 360 Km quadrati, rappresenta una minaccia per il carattere ebraico dello stato di Israele, e di conseguenza per il progetto sionista nel suo insieme. Per non parlare dei costi militari, finanziari e morali che comporta il vigilare sulla sicurezza delle 21 colonie costruite da Israele nella striscia di Gaza, con i loro 7000 abitanti, e il provvedere a tutti i loro bisogni. Questi aumentano giorno dopo giorno anche perché sempre più alti sono i costi della repressione delle azioni di resistenza che la stessa occupazione militare ha generato. Il “disimpegno” da Gaza ha fini politici immediati e altri più a lungo termine, che sono direttamente funzionali al piano di Sharon. Il primo ministro israeliano si propone da un lato di svuotare di ogni realistico contenuto il progetto della costruzione di uno stato palestinese indipendente e in grado di sopravvivere, e di impedire, dall'altro, che si creino le condizioni geo-politiche che rendano possibile una nuova strategia palestinese. Questa strategia, dopo la demolizione della la strategia dei due stati, uno palestinese e l'altro israeliano, può solo essere quella di un unico stato bi-nazionale sul territorio della Palestina del mandato britannico.I fini politici immediati del piano di Sharon Il piano di “disimpegno” dalla maggior parte della striscia di Gaza e l'evacuazione delle quattro piccole colonie situate nel nord della Cisgiordania, è stato definito senza la ricerca di un accordo con la direzione politica palestinese: questo significa che Israele non ha preso impegni con l'autorità palestinese né rispetto ai passi da compiere nel periodo successivo al “disimpegno”, né per quanto riguarda l'avvio di un negoziato per la ricerca di una soluzione politica del conflitto palestino-israeliano. In altre parole, la mossa israeliana non si inserisce in un quadro politico concordato con i palestinesi, né ha una dimensione regionale e internazionale. La richiesta che il ritiro da Gaza venisse considerato parte dell'attuazione della “road map” (quindi di un piano che i palestinesi avevano sottoscritto) è stata avanzata dall'autorità palestinese quando ormai il ritiro era in fase attuativa e sotto la pressione degli Usa e dell'Unione Europea che del piano israeliano avevano dato un giudizio positivo e che avevano chiesto all'AP di fare altrettanto. E' probabile che gli Stati uniti e l'Unione europea sappiano perfettamente che mediante il piano di “disimpegno” Sharon si propone di sottrarsi all'attuazione degli impegni richiesti a Israele nella “road map”. A questo proposito il consigliere del premier israeliano Dov Weisglass, in una intervista con il quotidiano israeliano Haaretz del 18 ottobre 2004, dichiarava che il fine del piano di ritiro da Gaza consisteva precisamente nel sottrarsi agli obblighi stabiliti dalla “road map”, sbarrando la strada a ogni richiesta che Israele attui quanto la “road map” prevede, in particolare la cessazione dell' attività di colonizzazione, il ritiro dell'esercito israeliano dalle città palestinesi e l'avvio dei negoziati sullo status finale con la direzione palestinese. Alcune fonti giornalistiche israeliane hanno svelato che il piano di ritiro unilaterale da Gaza è stato messo a punto nel febbraio del 2004, e cioè dopo l'elaborazione della “road map”, dopo che al defunto presidente palestinese Yasser Arafat erano stati imposti gli arresti domiciliari, e dopo che il governo israeliano aveva dichiarato che Arafat non rappresentava più una controparte valida per i negoziati. Ma la morte di Yasser Arafat e l'elezione di un nuovo presidente dell'autorità palestinese conosciuto per le sue posizione contrarie alle manifestazioni violente dell'intifada e alle operazioni militari, noto per la sua insistenza nel ritenere i negoziati l'unica strategia possibile e per la sua adozione del programma di “riforme” voluto dagli Usa e l'Unione Europea, non ha spinto Sharon a considerare Abu Mazen, il neo eletto presidente una controparte con la quale fosse possibile negoziare. Da sempre la strategia di Sharon poggia sul rifiuto del negoziato e l'adozione di provvedimenti e decisioni unilaterali.Le indicazioni politiche del fallimento dell'incontro di giugno fra Sharon e Abu Mazen Questa è la chiave per capire perché Sharon abbia voluto che il suo incontro con il presidente palestinese Mahmud Abbas, tenutosi il 12 giugno scorso nella casa del primo ministro israeliano a Gerusalemme, si risolvesse in un insuccesso, malgrado l'impegno e la cura messi nella sua preparazione da parte degli Usa, dell'Unione Europea e dell'Egitto e malgrado le intense consultazioni che lo avevano preceduto fra gli esperti e i consiglieri del presidente palestinese e i loro omologhi israeliani. Si trattava del primo incontro dopo quello tenutosi a Sharm ash-Sheikh all'inizio dello scorso febbraio, e si svolgeva in un momento in cui le organizzazioni palestinesi continuavano ad osservare quella tregua che il presidente palestinese, insieme all'Egitto, si era molto speso per conseguire. Il fatto che l'incontro fosse condannato da Sharon al fallimento ha chiari significati politici. In primo luogo indica che Sharon non era disposto a riprendere i negoziati, e che a questi preferiva la politica dei fatti compiuti. Per contro Mahmud Abbas aveva vinto le elezioni sulla base di un programma i cui pilastri erano il ritorno al tavolo dei negoziati, l'organizzazione delle elezioni municipali e legislative, l'unificazione degli apparati di sicurezza palestinesi mediante la loro fusione in tre soli organismi, la riforma dei ministeri e delle varie istituzioni dell'autorità palestinese. L'incontro di giugno, come è noto, si è tenuto senza che Sharon avesse attuato alcunché di quanto concordato a Sharm ash-Sheikh (ritiro dell'esercito israeliano dalle città palestinesi, liberazione di un numero significativo di detenuti, agevolazione degli spostamenti dei palestinesi, ecc…). Eppure l'attuazione di queste misure avrebbe consolidato il sostegno di cui godeva il presidente Mahmud Abbas, dando risalto alla sua capacità di dare un impulso ai negoziati e di rendere più sopportabili le difficili condizioni di vita dei palestinesi. In altre parole, far fallire l'incontro significava indebolire l'autorità palestinese e rendere evidente ai cittadini palestinesi la sua totale impotenza. La seconda indicazione che ci viene dal fallimento dell'incontro di giugno è che Sharon non intende desistere dalla sua linea che consiste nel presentare l'autorità palestinese come un'entità debole e dipendente continuando, contemporaneamente, a pretendere che essa faccia ciò che non è in grado o non è capace di fare: combattere quanto viene definito terrorismo e distruggere le sue infrastrutture. A giugno il presidente palestinese eletto non è stato considerato dal primo ministro israeliano all'altezza del negoziato perché non aveva fatto quanto da lui richiesto. Quanto basta, nella logica di Sharon, per giustificare il perseverare nella politica dei fatti compiuti: il “disimpegno” unilaterale da Gaza, la costruzione del muro dell'apartheid, la continuazione della colonizzazione, l'isolamento di Gerusalemme mediante un muro e le misure prese per la sua “giudaizzazione”. Se era prevedibile che il primo ministro israeliano, nell'incontro di giugno, avrebbe rifiutato di entrare nel merito delle questioni fondamentali (Gerusalemme e la sua giudaizzazione, i rifugiati, la colonizzazione, il muro di separazione, la distruzione delle case, i detenuti palestinesi…), perché non era sua intenzione intavolare un negoziato sulle questioni relative allo status permanente dei territori palestinesi, l'autorità palestinese non aveva invece affatto previsto che Sharon avrebbe rifiutato di discutere le misure da attuare e i provvedimenti da prendere dopo il ritiro da Gaza e l'evacuazione delle colonie situate nel nord della Cisgiordania. Provvedimenti e misure di grande importanza, perché determinanti per decidere se il ritiro israeliano sarà un ritiro effettivo o solo invece un espediente per mettere Gaza sotto assedio permanente. Infatti, se i palestinesi non avranno il controllo dei posti di frontiera e se non verrà garantito un corridoio che permetta il transito delle merci e delle persone da Gaza alla Cisgiordania, se non ci sarà un aeroporto funzionante e se la costruzione del porto non verrà completata, Gaza si trasformerà in una prigione per un milione e trecentomila palestinesi, una prigione di cui Israele si terrà le chiavi. Se questa è l'intenzione, Israele manterrà il controllo delle frontiere, dell'economia, dei movimenti delle persone e delle merci, del cielo, dell'acqua e del mare di Gaza. Quanto al posto di frontiera di Rafah, che Israele vuole inglobare nel suo territorio anche se l'Egitto vorrebbe fosse posto sotto controllo palestinese, assumerebbe uno status in qualche modo simile a quello delle Fattorie di Shaba'a nel Libano meridionale. E' chiaro che Sharon farà in modo che i provvedimenti da attuare in seguito al “disimpegno” diventino oggetto di trattative con Israele, trattative che potrebbero durare anni, durante i quali le questioni relative allo status permanente dei territori palestinesi rimarranno congelate mentre, sul terreno, Israele continuerà ad imporre la sua volontà. Ciò che più preoccupa rispetto a quanto succederà dopo il “ritiro” da Gaza è che l'autorità palestinese venga trascinata in lunghi negoziati, fatti di chiacchiere senza fine su ogni minimo particolare di ognuna delle decisioni da prendere, dai posti di frontiera, all'aeroporto, al porto, alle acque territoriali, al corridoio fra la Cisgiordania e Gaza, la frontiera di Rafah, le procedure di importazione ed esportazione… Tutto questo può essere oggetto di negoziati che durano anni. Con questa tattica il negoziatore palestinese verrà spinto in un labirinto che gli renderà impossibile discutere delle questioni fondamentali per le aspirazioni nazionali palestinesi: lo stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme, la questione dello smantellamento delle colonie della Cisgiordania, quella del muro di separazione, i diritti dei rifugiati. La scommessa di Sharon è anche che la situazione creata dal ritiro da Gaza generi confusione e incertezze in seno alla direzione politica palestinese, forse persino caos e conflitti intestini, i quali verranno sfruttati a riprova della tesi che afferma che l'autorità palestinese è incapace di negoziare, di mantenere la sicurezza o di amministrare uno stato. Sharon sa perfettamente che i palestinesi non continueranno ad osservare la tregua, se Israele, dal canto suo, non la rispetta. Come sa perfettamente che la fine della tregua – e per farla cessare basta che la violi un'organizzazione o che venga organizzata una sola operazione all'interno di Israele – gli fornirà ulteriori pretesti per metter fine ai contatti con l'autorità palestinese e per proseguire la sua politica dei fatti compiuti.La dimensione strategica del piano di Sharon Con il completamento del muro di separazione ( che si prevede verrà terminato nel giro di pochi mesi) e l'ampliamento delle colonie in Cisgiordania (gli agglomerati di insediamenti di maggiori dimensioni verranno annessi a Israele e rimarranno quindi al di là del muro) vengono perseguiti due fini fra loro collegati. Da un lato il progetto di costruzione di uno stato palestinese indipendente diventa irrealizzabile, dall'altro la lotta per la costituzione di uno stato bi-nazionale diventa impossibile o inimmaginabile. E questo è anche lo scopo della “giudaizzazione” di Gerusalemme, della costruzione di un muro intorno alla città allo scopo di isolarla e separarla dal resto della Cisgiordania (un muro che a tutti gli effetti si merita la qualifica di “muro dell'apartheid”), della distruzione delle case palestinesi e dell'espulsione di moltissimi palestinesi di Gerusalemme dalla loro città. E questo è anche lo scopo della rete formata dalle by-pass road e dei progetti di costruzione di gallerie e ponti che dovrebbero collegare le varie parti (il termine corretto è quello di bandustan) della Gisgiordiania, isolate l'una dall'altra e separate dalla striscia di Gaza e da Gerusalemme. La distruzione del progetto dello stato palestinese indipendente e contemporaneamente della prospettiva di uno stato binazionale è anche il significato dei progetti (proposti dalla Banca mondiale, che si appresta a finanziarli), di costruzione di una serie di gallerie e di ponti che congiungerebbero le diverse parti della Cisgiordania, ormai fra loro scollegate, e del corridoio scavato in una trincea profonda da tre a cinque metri e recintata sui due lati che dovrebbe collegare Gaza con la Cisgiordania. Nella stesso quadro va collocato il fatto che Sharon, mentre si appresta a evacuare e distruggere circa 2000 unità abitative a Gaza, da il via alla costruzione di tre volte tante abitazioni negli insediamenti della Cisgiordania. Con la scusa di salvaguardare la sicurezza e il carattere ebraico di Israele, viene istituzionalizzato il regime dell'apartheid e vengono creati aree segregate (bandustan) delimitate da muri, recinti, gallerie e strade sotterranee.Uno “Stato palestinese dai confini provvisori” come soluzione permanente Un aspetto che merita considerazione è che il piano di “disimpegno” da Gaza si colloca all'interno di una strategia più ampia che implica una serie di mosse israeliane volte a minare alle radici il progetto nazionale palestinese e a convogliare le scelte palestinesi in un'unica direzione, quella della creazione di uno “Stato dai confini provvisori” nella striscia di Gaza e nelle zone della Cisgiordania ad alta densità di popolazione, fuori comunque dai confini di Gerusalemme. Uno stato le cui frontiere saranno definite dal muro di separazione, grazie al quale alcuni blocchi di insediamenti verranno annessi a Israele e altra terra verrà confiscata in modo da rendere sempre più marginali l'agricoltura e l'economia palestinesi e da lasciare quest'ultima alla mercé dell'economia israeliana. Questo progetto con tutto quello che esso comporta (l' annessione di più della metà della Cisgiordania, la confisca di aree strategiche, fra le quali la valle del Giordano e la falda acquifera) viene presentato come conforme al contenuto della “road map” e alla visione che il presidente Bush e la comunità internazionale hanno della necessità della fondazione di uno stato palestinese contiguo allo stato israeliano. Sharon fa di tutto perché muro, colonie, e by- pass road facciano dello “Stato provvisorio”, una soluzione di lungo periodo, un'entità dipendente da Israele e sotto il suo controllo militare. E' ben noto che Sharon aveva presentato la sua concezione della “soluzione provvisoria di lungo periodo” già nel febbraio 2000, prima dello scoppio della seconda intifada e prima della sua elezione al governo di Israele.
Nella realizzazione del suo progetto il primo ministro israeliano si avvale di diversi fattori. In primo luogo di rapporti di forza militari, economici e di sicurezza largamente sbilanciati a favore di Israele. Su questo dato di fatto poggiano la sua scommessa che gli Stati uniti sostengano la sua politica e la sua sicurezza che la posizione degli stati arabi non vada al di là della condanna verbale e dell'augurio che gli Stati uniti facciano pressioni su Israele. Ma il primo ministro israeliano conta anche sul fatto che continui a mancare una strategia palestinese unitaria in presenza di una pluralità di centri di decisione palestinese. Tutto questo gli permette di sottrarsi ai suoi impegni e di distogliere l'attenzione da quanto avviene sul terreno, col pretesto che il fine di tutto quanto succede è la protezione della sicurezza del cittadino israeliano dal terrorismo. In questa ottica si colloca quello che Sharon ritiene il primo requisito affinché l'autorità palestinese sia considerata in grado di governare, e cioè il suo successo nella “destrutturazione delle reti terroristiche, l'individuazione e la raccolta delle armi, la fine della sobillazione (contro Israele) e l' attuazione delle riforme”. E, aggiunge il primo ministro israeliano, “Gli americani comprendono la nostra posizione”. Ma Sharon sa bene, come lo sa Bush, che la realizzazione della prima parte di queste condizioni non è possibile se Israele continuerà la sua politica di colonizzazione. Le esitazioni e le incertezze palestinesi nei confronti del piano di “disimpegno” L'attuazione del piano di “disimpegno” unilaterale israeliano si compie sullo sfondo di una trasformazione sensibile dei rapporti di forza interni palestinesi, trasformazione avvenuta come conseguenza della seconda intifada, del fallimento degli accordi di Oslo nel garantire la realizzazione di una parte seppur minima del progetto nazionale palestinese e dell'esperienza che il cittadino palestinese ha fatto della performance della sua Autorità nel corso di un decennio. Questo cambiamento consiste nel fatto che il sistema politico palestinese, per lungo tempo caratterizzato dall'egemonia di una sola organizzazione politica (il movimento Fatah) si sta trasformando in un sistema all'interno del quale due sono le organizzazioni politiche con una larga base popolare che competono per l'egemonia: Fatah e Hamas. Questa constatazione è forse una delle ragioni che sottostanno alla decisione di Hamas di partecipare alle elezioni locali e a quelle legislative, e alla sua decisione di entrare a far parte delle varie istituzioni dell'OLP, una volta che quest'ultima verrà riorganizzata in base a nuovi criteri di rappresentanza. Questa trasformazione dei rapporti di forza ha modificato le valutazioni e i calcoli politici delle due organizzazioni. La direzione di Fatah è ormai ben consapevole che il cambiamento in corso significa la fine del suo monopolio sulle istituzioni della Autorità nazionale, oltre che la fine del suo monopolio sulle istituzione dell'OLP. Da qui hanno origine le incertezze e le esitazioni di Fatah nell'affrontare la forte competizione sviluppatasi durante le elezioni dei consigli municipali e locali, e che ci si aspetta si ripeterà anche durante le elezioni per il consiglio legislativo all'inizio del prossimo anno. Queste esitazioni sono state aggravate dall'assenza dalla scena politica palestinese di Yasser Arafat, leader storico di Fatah e del movimento nazionale palestinese. Ma anche Hamas, da parte sua, fa calcoli e valutazioni diversi dal passato nei confronti dell'Autorità nazionale palestinese e dell'OLP, specialmente dopo aver scoperto la sua forza grazie al responso delle urne elettorali. Il problema più urgente che le due organizzazioni si trovano ad affrontare (anche se una continua a svolgere il suo ruolo di partito di governo mentre l'altra rappresenta la principale forza di opposizione), è quello della situazione di doppio potere che si è andata creando con la seconda intifada. Una situazione che le azioni israeliane e l'assenza di condizioni favorevoli al raggiungimento di una soluzione politica rendono difficilmente superabile. Ma il perdurare di questo stato di doppio potere è foriero di sviluppi pericolosi, specialmente nella striscia di Gaza, dove si sta attuando il piano di “disimpegno”. La successione alla presidenza dell'autorità palestinese, avvenuta all'inizio dell'anno scorso senza problemi e attraverso le elezioni come previsto dalla legge palestinese, non ha qualitativamente migliorato la capacità della direzione palestinese di gestire la situazione interna e di far fronte alle conseguenze del piano di “disimpegno” di Sharon. La confusione regna sovrana e si è manifestata recentemente in forme diverse. Fra queste la promulgazione di un decreto firmato dal presidente Mahmud Abbas che rinvia le elezioni legislative, già decise per luglio, a una data indefinita (probabilmente il mese di gennaio dell'anno prossimo), malgrado fosse stato proprio il presidente palestinese ad insistere perché si tenessero il 17 di luglio, come previsto dall'accordo raggiunto con le diverse organizzazioni palestinesi durante l'incontro del Cairo lo scorso marzo. Fra le ragioni avanzate per spiegare questo decisione i continui rinvii da parte del Consiglio legislativo (in grande maggioranza composto da membri di Fatah) dell'approvazione delle modifiche della legge elettorale conformemente a quanto deciso dalle organizzazioni palestinesi al Cairo e cioè l'introduzione di un sistema elettorale a metà proporzionale e a metà maggioritario, basato su diverse circoscrizioni.
Fra le altre ragioni del rinvio della data delle elezioni, anche il disagio degli Stati uniti per la crescente popolarità di Hamas e le probabili ripercussioni di questa popolarità sui risultati delle elezioni legislative, come già era successo per le elezioni amministrative. E ancora, il desiderio dell'Egitto che le elezioni palestinesi si svolgessero dopo le elezioni generali egiziane, previste il prossimo mese di ottobre, in modo da non influenzarne i risultati. E poi il timore che, nel caso Hamas avesse ottenuto una percentuale significativa di seggi del consiglio legislativo e questo si fosse riflesso nella composizione del futuro governo palestinese, Israele avrebbe potuto avrebbe potuto rendere più complicate le modalità del suo ritiro da Gaza irrigidendo ulteriormente le sue condizioni. Infine, fra le motivazioni che hanno portato al rinvio delle elezioni legislative palestinesi c'è anche da elencare il desiderio della direzione di Fatah di sfruttare il ritiro israeliano dalla striscia di Gaza per consolidare la sua popolarità e migliorare i suoi risultati elettorali. In ogni modo, qualunque siano state le motivazioni, il ripensamento sulla data delle elezioni e il loro rinvio ha messo in risalto le esitazioni e le incertezze esistenti all'interno di Fatah, ed è possibile abbia contribuito ad accrescere la popolarità di Hamas. Le incertezze della direzione di Fatah sono apparse evidenti anche in occasione del rinvio del congresso del movimento a data da destinarsi, dopo le elezioni legislative. E ancora, nel modo in cui sono state gestite le violazioni dell' ordine pubblico che si sono registrate questa estate nei territori palestinesi e che sono da attribuirsi alla debolezza del controllo esercitato dall'Autorità Palestinese sugli apparati di sicurezza. Infine, un ulteriore segnale di confusione è stato dato dal primo ministro palestinese, e successivamente dal comitato centrale di Fatah, con la proposta di costituire un governo di unità nazionale, cui partecipassero cioè tutte le forze politiche, per gestire la fase successiva al ritiro israeliano da Gaza. Non essendo stata preventivamente discussa con le diverse forze politiche palestinesi, questa proposta è stata oggetto di interpretazioni negative ed è stata pertanto rigettata da Hamas e da alcune altre organizzazioni. Ma incertezza e confusione non hanno risparmiato le forze di opposizione, Hamas inclusa. Questa organizzazione, che pure sulle prime si era dichiarata disponibile a prendere in considerazione l'invito a partecipare ad un governo di unità nazionale, aveva poi subito dopo respinto questa eventualità, con la motivazione che lo scopo della proposta era di permettere a Fatah e all'Autorità Palestinese di superare la loro crisi interna e che dunque non si trattava di un' offerta seria ma di una manovra propagandistica. La costituzione di un governo di unità nazionale, secondo Hamas, avrebbe dovuto avvenire dopo le elezioni legislative e non prima. Confusione e incertezza traspaiono anche dalle dichiarazioni di alcuni leader di Hamas. Il 5 luglio Mahmud az-Zahar affermava di aver perso la sua fiducia nei confronti del presidente della AP: una dichiarazione che potrebbe contribuire ulteriormente all'indebolimento della posizione della Autorità e del suo potere negoziale. Il fatto poi che la leadership di Hamas consideri il piano unilaterale di ritiro da Gaza alla stregua di una “liberazione”, frutto della attività della resistenza (rappresentata fondamentalmente da Hamas), è una semplificazione della realtà dei fatti ed esprime una pretesa di monopolio della resistenza all'occupazione che richiama alla memoria la propaganda settaria che andava per la maggiore in passato fra le fazioni dell'Olp. Alcune dichiarazioni rilasciate da Hamas mettono poi in discussione il programma dell'Olp (il programma dei due stati sovrani, quello palestinese e quello israeliano) riproponendo la strategia della “liberazione di tutta la Palestina”. Questo proprio mentre si sta discutendo della necessità di rinnovare e democratizzare le istituzione dell'Olp e del fatto che tutte le organizzazioni politiche palestinesi, Hamas e Jihad islamico inclusi, vi prendano parte. Sarà difficile considerare il “disimpegno” da Gaza come un effettivo ritiro, se Israele non trasferirà ai palestinesi il controllo del territorio, dello spazio aereo, delle acque territoriali e dei posti di frontiera e non garantirà la libertà di movimento di merci e individui fra la Cisgiordania e Gaza e da queste verso l'esterno dei territori palestinesi. E' vero che il ritiro da Gaza ( nel senso del ritiro dell'esercito israeliano e dei coloni dall'interno della striscia di Gaza o dalla maggioranza del suo territorio) scalfisce un tabù e costituisce un precedente per lo smantellamento in futuro di altre colonie. Ma bisogna fare attenzione a che Israele non sfrutti questa mossa per intensificare la colonizzazione in Cisgiordania e permettere all'esercito di far guasti e a suo piacimento, con o senza pretesti, nella striscia di Gaza. E' inoltre sicuro che lo smantellamento delle colonie in Cisgiordania non avverrà con la stessa facilità con cui è avvenuto nella striscia di Gaza, la cui superficie non costituisce più del 6% della superficie di tutti i territori palestinesi occupati nel 1967. Infine, per quanto riguarda il periodo successivo al “disimpegno”, bisogna guardarsi bene dal creare illusioni e aspettative eccessive rispetto al fatto che l'economia palestinese possa rifiorire grazie alle promesse dei governi del G8 di destinare una cifra pari a tre milioni di dollari annuali per tre anni consecutivi per lo sviluppo dell'economia di Gaza. Un'economia rovinata dalle aggressioni militari israeliane, dalle interminabili chiusure e dalla distruzione delle coltivazioni e delle case che hanno avuto luogo in varie zone della striscia. Simili illusioni e aspettative sono nate anche dopo gli accordi di Oslo, ma anche allora c'è voluto poco perché risultasse chiaro che parlare di sviluppo senza sovranità nazionale - incluso il controllo delle risorse nazionali, delle frontiere, dello spazio aereo - e senza continuità territoriale è solo una chiacchiera priva di contenuto e mistificante perché distoglie le energie della società dalle questioni principali. Il rischi connessi alla situazione di doppio potere. E' evidente che la direzione di Fatah non ritiene sia suo interesse la costituzione di organismi che indeboliscano il suo ruolo o attentino alla supremazia delle istituzioni della Autorità palestinese e dell'Olp, all'interno delle quali essa è egemone. Questo spiega il rifiuto di Fatah della proposta fatta da Hamas di costituire un Comitato nazionale supremo (formato dalle diverse organizzazioni politiche) per seguire gli sviluppi dell'attuazione del “disimpegno” israeliano da Gaza, in alternativa al comitato ministeriale ( con le sue diverse commissioni tecniche) formato dall'autorità palestinese allo stesso scopo. A questo proposito Jabril Rajjub, consigliere per la sicurezza del presidente palestinese, pronunciandosi in nome della autorità palestinese e di tutto il movimento Fatah, ha dichiarato: “ Non ci sarà spazio per nessuna autorità parallela o alternativa, e non si faranno comitati né per gestire Gaza né per altro ( al-Ayyam, 9/7/2005). Da parte sua, Hamas ritiene invece che, visto il rinvio delle elezioni legislative e dato che l'esistenza di un doppio potere è una realtà di fatto, sia suo diritto e nel suo interesse reclamare la creazione di organismi ai quali tutti partecipino e all'interno dei quali essa abbia un peso non inferiore a quello che ha fra la popolazione. Hamas crede infatti che non sia compito suo entrare a far parte di istituzioni che rafforzano il potere di Fatah o che le forniscono una copertura. Le due posizioni, quella di Fatah e quella di Hamas si capiscono se si collocano nel quadro della competizione per l'egemonia in corso. Ma, nella fase politica attuale, il rischio sta nelle ripercussioni della competizioni fra le due forze politiche in assenza di una strategia nazionale condivisa per gestire a Gaza e in Cisgiordania il piano di “disimpegno” di Sharon. L'autorità palestinese desidera che il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza avvenga “ nella calma e la disciplina”, per dimostrare la sua capacità di governare e provare l'infondatezza della scommessa di Sharon sul fatto che il ritiro dell'esercito e dei coloni avrebbe provocato una situazione di anarchia e disordine, avvalorando di conseguenza la sua tesi che la autorità palestinese non è in grado di essere un partner valido nei negoziati e non è capace di tener fede ai suoi impegni.
Non c'è alcun dubbio che l'autorità palestinese, dopo l'incontro di giugno fra Abu Mazen e Sharon, è ben consapevole del fatto che fino a quando Sharon, o chi lo rappresenta, rimarrà al governo, non ci sarà spazio per l'avvio di negoziati seri. E questa consapevolezza costituisce una delle ragioni che spingono l'autorità a volgere la sua attenzione alle questioni interne palestinesi. L'occuparsi della situazione interna è una necessità per migliorare la performance dell'autorità, risolvere i problemi di ordine pubblico, combattere la corruzione, rafforzare la magistratura e imporre a tutti il rispetto della legge. Sarebbe utile che questo sforzo includesse anche il rafforzamento e il rinnovamento delle istituzioni dell'Olp, la riorganizzazione degli organismi esecutivi, legislativi e giudiziari, il varo di provvedimenti atti a garantire che la legge regni sovrana e che le proprietà e i diritti degli individui siano salvaguardati. Tutti questi interventi sono necessari in ogni modo perché utili per l'elaborazione di una visione politica più chiara per aumentare l'efficacia dell'Autorità, in una fase estremamente complicata e difficile in cui una cooperazione armonica di tutte i segmenti della società è indispensabile. Due sono infatti i pericoli che incombono sul movimento politico palestinese. Il primo è che la leadership politica palestinese, sia essa al governo o all'opposizione, venga spinta a fare delle misure e dei provvedimenti amministrativi o di sicurezza e nei loro minuti dettagli la sua occupazione principale, distogliendo l'attenzione dal destino della terra palestinese nel suo insieme, da quanto succede in Cisgiordania e dal destino dei palestinesi della diaspora. Il secondo rischio (non disgiunto dal primo) è che si aggravino le frizioni generate dalla situazione di doppio potere e che si arrivi all'uso delle armi e ad una estrema polarizzazione politica , un' eventualità, questa, le cui amare ripercussioni ricadrebbero su tutto il popolo palestinese.

Israele: scudi umani

fonte Misna.org e Cacao Elefante del 10/10/2005

Grazie al lavoro di organizzazioni per i diritti umani Israele è stato costretta ad affrontare il criminale uso di scudi umani palestinesi da parte dell'esercito israeliano nei territori occupari. La Corte suprema di Israele ha stabilito che i soldati israeliani non potranno più utilizzare civili palestinesi come scudo umano durante le perlustrazioni. Per entrare nelle case e/o nei covi dei terroristi, i soldati israeliani facevano andare avanti dei civili palestinesi che spesso finivano coinvolti nelle sparatorie. Secondo il giudice Aharon Barak questa pratica è proibita dalla convenzione di Ginevra e deve essere sospesa.

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